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Autore: Thaila    24/07/2008    20 recensioni
Era solo una bambina quando ricevette in dono quel pegno d'amore e la promessa che sarebbe rimasta l'unica donna importante per lui. Poi il destino li divise...
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mamoru/Marzio, Usagi/Bunny
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Pegno d’amore

Mia madre mi aveva proibito, pena la reclusione in casa a vita, di rivolgere la parola ai bambini del cortile a fianco del nostro. – Sono teppistelli. – diceva. – e sa solo Dio chi sono i loro genitori. – Per cui non erano compagni di gioco degni per di una bambina a modo come me. Ed io ubbidivo, anche se farlo era proprio impensabile.  
C’erano due ragazzini tra i più sfrontati che avevano preso di mira noi bambine e ci davano sempre fastidio. Spesso, per farci arrabbiare, ci tiravano i capelli e ridevano a crepapelle quando noi urlavamo di dolore. Altre volte, invece, ci alzavano le gonne per mostrare a tutti le mutandine in modo da prenderci in giro. E noi, per difenderci, giù a fare linguacce e tirare calci. In quei momenti non rispondere sarebbe stato troppo umiliante e, oltretutto, non ero una bambina che rimaneva ferma a subire certi affronti. 
Uno dei due, però, un ragazzino con i capelli neri sempre spettinati, antipatico proprio non lo era. Aveva un viso dolce e uno sguardo sensibile. Seguiva sempre il suo amico e faceva dispetti, ma quando non era osservato mi sorrideva. 
Un pomeriggio, mentre ero sola in cortile, sentii una voce chiamarmi attraverso la rete che divideva i due palazzi.
- Avvicinati, devo chiederti una cosa. – il ragazzino dai capelli scuri mi faceva segno di avvicinarmi e sembrava imbarazzato.
Mia madre da quella parte della casa non poteva vedermi e così non mi avrebbe certamente punita, ma raggiungendolo avrei calpestato le aiuole della signora del primo piano.
- Non posso, c’è il prato… -
- Dai, solo un minuto! Passa qui. Guarda! C’è ancora terra senza erba. – mi fece lui diretto, ma rassicurante allo stesso tempo.
Mi avvicinai così con grande cura alla rete, restando ben attenta a non calpestare i fiori.
- Adesso dimmi che vuoi. – dissi sprezzante.
- Vorresti diventare la mia ragazza? – 
A quella domanda rimasi pietrificata. Non mi pareva vero che qualcuno si fosse accorto di me. Ma in fondo perché non avrebbe dovuto? Ero una bambina graziosa con due occhi azzurri come il cielo e lunghi capelli dorati che tenevo sempre raccolti in due buffissimi codini. In quel momento trovai quella richiesta uno dei più bei complimenti che mi avessero mai rivolto, poco importava se a farmelo era un bulletto dispettoso di prima media. Sapevo però che una brava ragazza non deve mai cedere alle prime lusinghe.: mia madre mi aveva spiegato che dovevo farmi desiderare. 
- E perché mai dovrei diventare la tua ragazza? –
- Perché mi piaci. –
- Ti piaccio? Non ci credo. –
- Beh, sei una tipa tosta. Non sei la solita bambolina tutta pizzi e merletti. E poi dici parolacce come noi maschi… -
-  Io non dico le parolacce. – mentii risentita, ma sotto sotto orgogliosa.
-  Giochi come un maschio vero. Sei una dura. Sei la donna giusta per me. – 
Era troppo per le mie orecchie.
- Okay, ci sto. Che si fa quando si diventa fidanzati? –
- Ci si deve dare un bacio e io ti devo dare l’anello. – e prima che potessi replicare, mi porse il palmo aperto nel quale brillava un anellino di plastica con una luna luccicante di color rosso sangue.
- Ecco, adesso lo metti ed è ufficiale. – concluse con un sorrisetto carico di aspettative.
- Non posso. Se lo vede mia madre mi dà un sacco di botte. Lo tengo qui, sul cuore, dentro la canottiera. – e svelta lo nascosi in un taschino.
- Adesso però il bacio. –
- Eh? Pure quello? Va bene, ma solo uno. Capito? -
Mi sporsi infilando le labbra tra il buco della rete e ci sfiorammo intimoriti ed imbarazzati, scambiandoci un bacio velocissimo, quasi inesistente.
All’improvviso una voce squillante che intonava il mio nome mi fece sussultare, quasi avessi ricevuto una scarica di elettricità attraverso tutto il corpo. Tremando mi staccai dalla rete e arretrando calpestai un’aiuola di primule.
- Adesso devo andare. Mi stanno chiamando. –
Scappai via, correndo con il cuore che batteva violento nel petto, chiedendomi se per caso avessi combinato un guaio irreparabile. Quello che non potevo immaginare era che la signora del primo piano stesse stendendo i panni sul retro proprio nel momento in cui io e il mio “ fidanzatino” ci scambiavamo quel bacetto innocente e che fosse corsa da mia madre a raccontare tutto.
Quando entrai in casa non notai niente di strano sul volto di mia madre, se non forse un lieve tremore delle labbra, quasi stesse per scoppiare in una risata fragorosa.
- Avanti. Vai a farti il bagno. –
- Ancora? Ma mamma, l’ho fatto anche ieri. – ribattei contrariata.
- Su, dai. Non fare storie. – mi zittì sbottando i primi bottoni della mia camicetta.
- Faccio anche da sola. -
- Va bene. –
- Puoi andare fuori per piacere? –
- Perché? In fondo siamo entrambe donne. –
Non servì a niente protestare. Mia madre mi spogliò a forza e trovò l’anellino incriminante. Piansi, protestai ma niente, lo prese e lo buttò nella pattumiera.
- Tu con uno di quelli neanche morta! – 
E mi mise in punizione per una settimana. Quando fu scaduta, prima di lasciarmi uscire mi fece promettere persino su Dio che non avrei mai più rivolto la parola a quel bambino o a nessun altro in quel cortile, ma nel farlo avevo nascosto l’altra mano dietro la schiena tenendo le dita incrociate, quindi il giuramento non era per niente valido.
Appena uscita dal portone lo vidi. Era sempre lì, al posto dove c’eravamo scambiati il primo bacio. Mi avvicinai, calpestando ben benino l’aiuola dell’antipatica spiona del primo piano, guardando in su, verso la finestra chiusa.
- Mia madre l’aveva buttato via, ma l’ho recuperato. Non posso essere la tua ragazza. Forse ti servirà per qualcun’altra. – e accarezzandogli la mano stretta forte alla rete, feci per scappare via: mi vergognavo da morire, ma il suo sguardo triste mi trafiggeva da parte a parte e riuscì a trattenermi.
- No, era per te. Non lo darei a nessun’altra. – disse mettendoselo in tasca.
Mi sentivo una gran vigliacca. Avrei imparato col tempo a tener testa a mia madre nelle questioni di cuore, ma allora avevo solo nove anni.
- Adesso che ci penso non so neppure il tuo nome. – provai a chiedergli nel tentativo di farmi perdonare. 
- Un giorno lo saprai. Quando riprenderai questo anello. – rispose alzando le spalle, per poi sparire dalla mia vista.


Gli anni scivolarono via indisturbati, facendomi dimenticare l’infanzia e le corse spericolate tra i campi e i cortili delle case sulla via. 
Avevamo cambiato casa, qualche anno dopo. Eravamo andati nei quartieri alti, come piacevano a mia madre. Ma io, che non ero una snob, preferivo le strade imbrattate di graffiti e di manifesti stracciati che decoravano la cittadella degli studenti.
Mi ero diplomata con ottimi voti al liceo e avevo proseguito con profitto anche il seguito e stavo finalmente per laurearmi in lingue straniere. Dovevo solo depositare la mia tesi, firmare alcuni documenti e aspettare il giorno fatidico della discussione. 
Tutto semplice se non fosse stato per il fatto che erano ormai due ore che ero in fila in segreteria e non ero neppure arrivata a metà della lunga coda.
Ero stanca e iniziavo a scocciarmi. La pazienza non era mai stata il mio punto forte, ma andarsene avrebbe voluto dire uno slittamento sulla data di laurea e in ogni caso avrei dovuto affrontare la stessa esperienza un altro giorno. Dovevo rimanere. Non potevo fare altrimenti.
Un ragazzo alto, dai capelli color ebano e dall’aria vagamente familiare aspettava dietro di me, fumando disperatamente. E io, che il fumo lo tolleravo appena, ormai non riuscivo più a sopportarlo.
- Ti prego, non puoi fare una pausa di cinque minuti tra una sigaretta e l’altra? Sto soffocando. – gli dissi sgarbatamente.
Lui per tutta risposta buttò fuori del fumo dalla bocca, mi guardò intensamente e poi sorrise dolcemente.
- Hai perfettamente ragione. Scusami. – e detto questo gettò la sigaretta a terra pestandola per spegnerla. Gesto che non passò inosservato. 
- E adesso che fai? La lasci lì per terra? Non lo sai che ci vogliono dieci anni perché si dissolvano nell’ambiente? – 
- Okay, hai vinto. - rispose sempre sorridendo e si chinò per raccogliere la cicca, si guardò intorno e la depositò in un cestino non lontano da lì.
La fila parve richiudersi su se stessa, ma io fulminai la ragazza che ora si era posizionata dietro di me. Non potevo rischiare che il ragazzo perdesse la sua postazione per colpa di una mia lezione di ambientalismo.
- Grazie per avermi tenuto il posto. – mi disse lui riprendendo il suo posto. – Sei qui per ritirare il diploma di laurea anche tu? – mi chiese continuando a sorridere, mentre i suoi due occhi azzurri parevano scrutarmi.
- No, io devo depositare la tesi. Vorrei discutere entro l’estate. –
- Utopia e Distopia… - lesse a voce alta il titolo del mio volume dalla copertina rosso scuro e dai caratteri cubitali.
Per reazione strinsi il volume forte al petto, quasi per difenderlo da chissà quale intrusione. Sono sempre stata diffidente e poco conciliante. Colpa, probabilmente, dell’educazione materna molto severa  e chiusa nei confronti degli estranei.
- Mi laureo in lingue e lettere straniere. – precisai. – E tu? Già laureato? –
- Già iscritto all’Albo dei Medici Chirurgici. Sono qui per dei certificati. Vorrei entrare in specialità il mese prossimo. Pediatria. -
Quel ragazzo, nonostante il mio pessimo carattere, mi parlava con dolcezza, riuscendo a darmi un senso di tranquillità. Solo in quel momento, mentre ne subivo il fascino, mi resi conto che il mio aspetto lasciava alquanto desiderare. Non avevo l’aspetto  di una ragazza avida di vita e spensieratezza, ma piuttosto quello di una professoressa.
Non posso certo negare che con il tempo ero diventata una bella ragazza: alta, snella, i capelli dorati che ricadevano lunghi sulle spalle e due occhialini tondi sempre calati sul naso. Avevo un’aria molto intellettuale, alla quale non volevo rinunciare. Credevo che il mio aspetto serio mi avrebbe aiutato a trovare un lavoro importante con molta facilità. 
Ma per la prima volta mi sentii volta inadeguata, assolutamente fuori luogo e contesto. Con fare disinvolto, portai la mano agli occhialini e finsi un bruciore che non provavo, togliendomeli. Lui mi fissò ancora più intensamente.
- Che splendidi occhi che hai. – mi sussurrò all’orecchio. – Perché li nascondi dietro un’impalcatura del genere? –
- Occhiali da riposo. Studiando troppo gli occhi si stancano facilmente. Lo so che non dovrei tenerli sempre su, ma ormai mi ci sono abituata. –
E continuammo a parlare degli occhi, dell’oculista, degli esami, dei progetti futuri e del mio viaggio intorno al mondo. Il motivo per cui avevo così tanta fretta di laurearmi era proprio dovuto al mio progetto di prendere un anno sabbatico e di girare il mondo, da sola.
- Invidio chi ha il coraggio di fare certe cose. – aveva detto lui. – Io adoro viaggiare, ma non da solo. Avrei almeno bisogno di un amico, meglio se avessi una compagna. – 
- E non ce l'hai? – domandai curiosa, cercando di non darlo a vedere.
- Attualmente no. Ma chi può dirlo? La vita è lunga. -
Continuammo così a parlare e a raccontarci delle nostre vite. Inutile dire che la fila interminabile che prima mi aveva angosciata e sfinita, ora terminò in un baleno, al punto da farmi provare un pizzico di rammarico. Finito lo scopo di questa attesa, probabilmente sarebbe finita anche quell'amicizia appena nata.
Che invece non terminò, non appena ricevetti i miei documenti, lui mi chiese:
- Mi aspetti un attimo? Tanto ci metto poco. - 
Dopo che ebbe terminato mi offrì una lauta colazione a base di caffè e paste in un bar dietro l'angolo, lo conoscevano solo i più golosi ed esperti in fatto di dolci.
Restammo seduti a quel tavolino, a ridere sotto i baffi imbrattati di zucchero a velo, per quasi tutto il pomeriggio e poi mi invitò a cena. Fu in quel momento che mi disse di chiamarsi Mamoru.
- Ma sai che ho l'impressione di conoscerti da una vita da sempre? - esclamai a bruciapelo, cambiando discorso all'improvviso.
- Può essere che ci siamo conosciuti in un'altra vita. -
- Ah, già. La storia delle reincarnazioni... magari tu eri mio padre e io tuo figlia. - 
- O forse mia sorella. Magari tu eri una principessa ed io il tuo principe. -
- Smettila di fare lo scemo. - lo interruppi divertita, fingendo di dargli un pugno sulla spalla.
- No, sul serio. Non pare anche a te che tra di noi c'è un certa familiarità? -
- Succede quando c'è feeling. - rispose lui misterioso. E delicatamente, serissimo, questa volta, guardandomi intensamente negli occhi, si avvicinò a me e sfiorò le mie labbra dolcemente con le sue. - Ora zitta e baciami per favore. È da una vita che desidero farlo. -
Fu un bacio dolce, soffice e splendido. Non mi ero accorta che mi era bastata un'ora in fila all'ateneo per farmi innamorare di lui.


Non partii quell'estate per il mio viaggio intorno al mondo. Dopo la laurea, aspettai qualche mese che Mamoru desse gli esami per entrare nella Scuola di Specializzazione in Pediatria e, una volta ammesso, decidemmo di andare a vivere insieme.
Mia madre urlò, inscenò una crisi isterica, perché una brava ragazza si sposa e non convive, ma per me era troppo eccitante l’esperienza di provare a condividere con un compagno un progetto comune senza vincoli e senza impegni definitivi. E poi c'era l'ebbrezza di arredare la casa, di dormire insieme, dello svegliarsi tutte le mattine e di sorridere al nuovo giorno abbracciati al proprio uomo.
Inutile dire che io abbandonai i miei progetti e lui i suoi, per costruirne insieme di nuovi. Ma quando scoprii di avere un ritardo di due settimane, per poco non glielo nascosi. Temevo di costringerlo a prendere decisioni affrettate, ma lui che mi conosceva molto bene, che ormai indovinava ogni mio singolo pensiero, una sera seduti al divano prese coraggio e cominciò a parlare.
- Quanti giorni sono? – mi domandò dolcemente accarezzandomi una guancia.
- Come fai a saperlo? –
- Beh, sono un medico. I conti li so ancora fare. E poi questi ultimi strani malesseri mattutini che hai, il bruciore di stomaco alla fine del pasto e il fatto che ti sei rifiutata di bere la cioccolata… diciamo che mi hanno insospettito. -
- Non voglio che ti senta obbligato, Mamoru. Tu non mi devi nulla. Se non te la senti, io capisco, ma non chiedermi di rinunciare...-
- Non devi rinunciare a niente, se non vuoi. - mi interruppe, prendendo le mie mani tra le sue, carezzandole.
- E se volessi diventare mia moglie? -
- Cosa dici? - ero frastornata. 
- Sì, cioè ti sto chiedendo... Usagi, vuoi diventare mia moglie e la madre dei miei figli? –
Lo soffocai con il mio abbraccio e lo sconvolsi con i miei bacetti fitti fitti sulla faccia. Ovviamente quello era il mio sì.
- Allora adesso siamo ufficialmente fidanzati? - mi chiese non appena mi calmai.
- Pare di sì, tu che dici? –
- Prima ci vuole l'anello. Quello serio di fidanzamento. Ecco qua rimediamo subito. - e tirò fuori dalla tasca una scatolina minuscola di velluto blu e me la porse. - Adesso è tornato tutto al suo posto. -
Aprii la scatolina, imbarazzata e felice. Non riuscivo a credere che quel momento stesse accadendo davvero, ma qualcos’altro di inaspettato stava per succedere.
- Ma questo è...- non riuscì a continuare la frase. Vidi il visetto di un bambino dodicenne che mi guardava con aria furba e silenziosa. - Tu? Non ci posso credere. Perché non me lo hai detto subito? -
Nel palmo della mia mano tenevo una anellino di plastica con una pietra rossa. Quell'anellino che mia madre per poco non aveva buttato via e che io avevo restituito al bambino che anni prima mi aveva fatto la dichiarazione attraverso la rete di recinzione in un vecchio cortile.
- Ah, farabutto!-
Afferrai un cuscino che abbelliva il nostro divanetto e iniziai a colpirlo ridendo a crepapelle. Lui fece altrettanto con un altro che raccolse da terra e ci azzuffammo come matti in una nuvola di piume.
Poi, sfiniti da tanto lottare, ci abbandonammo nelle braccia l'uno dell'altro, in un abbraccio celestiale, fondendoci in un bacio intenso e sensuale.
Così quel bambino si chiamava Mamoru. E ora eravamo di nuovo insieme dopo tanti anni.
Era destino? Non aveva importanza. Ora iniziava la salita verso l'amore vero.
Quel bacio così lieve eppure così pieno che ci scambiammo allora, bambini inconsapevoli, era la risposta a tutte le domande che non mi ero mai posta, a tutte le cose della mia vita lasciate in sospeso. Mamoru era entrato in punta di piedi nel mio mondo e io avevo lasciato la porta socchiusa, aspettando che lui la richiudesse dietro di sé per abitarvi definitivamente.

  
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