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Autore: Role    11/05/2014    1 recensioni
Il suo mind palace non esisteva più.
Un tempo era stato splendido e ricolmo di informazioni utili.
Ormai era soltanto un piccolo quaderno, in cui una mano malferma appuntava le sue generalità.
Mi chiamo Sherlock Holmes, sono nato a Londra e non sono pazzo.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Just like sand.

 
Sprazzi.
Lampi di realtà fugaci e vani, che da due anni ormai caratterizzavano la sua realtà.
Attimi di luce che si sottomettevano al buio in una danza infinita di confusione.
Quella era la sua vita.
Quello era tutto ciò che a Sherlock Holmes era dato conoscere.
Era un dannato.
Viveva nei momenti in cui i farmaci non lo costringevano al sonno.
Perchè lui doveva dormire o avrebbe fatto cose terribili. Così dicevano.
Voci isteriche e fintamente comprensive risuonavano nella sua mente ogni volta che si chiedeva se lo meritasse davvero.
Perchè avrebbe potuto fare del male a se stesso?
Che stupidaggine, a nessuno importava del suo destino.
 
Era arrivato a graffiarsi, prima del ricovero.
Per convincersi di esistere e di servire a qualcosa.
Almeno sono degno di essere carne da macello pensava.
Perchè era quello che dovevano aver pensato gli assistenti di Mycroft iniettandogli il calmante per la prima volta per portarlo via da casa sua.
Lui era pericoloso, non solo per se stesso, ma per le persone.
Per l'ordine pubblico.
Sherlock aveva appreso a sue spese che il divario tra fanatico religioso e politico non era così marcato quanto credeva.
 
Non era più il bambino curioso che sperimentava e si incuriosiva.
Non era più l'adolescente ribelle che odiava i suoi genitori.
Non era più nemmeno l'uomo brillante e sociopatico.
Si chiedeva se potesse ancora definirsi umano.
 
Erano stati anni di prime volte, quelli.
Prima volta costretto a stare fermo, a non esprimere quello che pensava, e poi molte altre si erano susseguite.
Il giorno in cui aveva confuso la sua immaginazione con la realtà.
Il primo passo che lo aveva condotto su quel sentiero di pazzia.
 
 
 
Era stato trascinato via, costretto a disintossicarsi e a tenere a bada il mostro dentro se stesso, ma non era bastato.
Non poteva sconfiggerlo.
Il brutale demone che mangiava tutto quello che incontrava, perfino il suo cuore.
Era parte di lui e lo teneva aggrappato alla realtà.
 
Sapeva di essere stato ricoverato per convenienza.
Il primogenito  Holmes aveva deciso di volere l'eredità solo per se.
C'era qualche miglior escamotage della follia?
Drogato si, sociopatico anche, ma non pazzo.
Eppure gli infermieri, sotto attente indicazioni di Mycroft non avevano lasciato che la sua sanità mentale trovasse pace.
Suo fratello, il suo perfetto fratello, aveva deciso che doveva essere pazzo, e così sarebbe stato.
 
Ogni giorno era svegliato, prontamente indottrinato sulla sua patologia, e poi calmato con sedativi.
Una volta a settimana aveva diritto ad una seduta con uno specialista per determinare i suoi progressi che, ammesso che ci fossero, dovevano essere omessi da ogni cartella per permettergli di rimanere segregato.
 
Così i giorni erano diventati settimane e le settimane mesi.
La pazzia era stata innestata dentro di lui e, seppure si ostinasse a negarlo, ormai aveva affondato le sue radici nella razionalità del giovane.
 
Il suo mind palace non esisteva più.
Un tempo era stato splendido, e ricolmo di informazioni utili.
Ormai era soltanto un piccolo quaderno, in cui una mano malferma appuntava le sue generalità.
 
Mi chiamo Sherlock Holmes, sono nato a Londra e non sono pazzo.
 
Era intrattabile, perciò soltanto un equipe strapagata dalla famiglia Holmes si occupava di lui.
Nel corso degli ultimi sei mesi era brillantemente riuscito nell'intento di far dimettere ben sei psichiatri.
Uno dopo l'altro.
L'ultima era stata una certa Molly Hooper.
Ragazza adorabile, certo.
Eppure troppo per bene, e troppo impressionabile.
Gli era quasi dispiaciuto terrorizzarla, ma la ricerca di un nuovo specialista gli aveva consentito di trascorrere due settimane senza inutili fastidi che lo annoiassero.
 
Come ogni martedì il suo infermiere lo stava accompagnando alla sua dovuta umiliazione.
Avvolto nel suo camice bianco, nonostante il tremore delle gambe, percorreva con fierezza il corridoio.
L'ambiente asettico e i forti led creavano un atmosfera surreale che gli provocava la nausea.
Avrebbe voluto provare freddo o caldo.
Sentire il brivido della risoluzione di un caso.
Avrebbe voluto provare qualcosa, occultandolo e trattenendo la sua reazione, ma almeno avrebbe saputo di essere ancora vivo.
 
 
Entrò nello squallido ufficio e prese posto su una poltroncina di pessimo gusto.
Accavallando le gambe posò gli occhi sull'uomo che gli sedeva di fronte.
Il primo incontro con le persone non gli dispiaceva.
Poteva immaginare che fossero clienti giunti lì per chiarire un caso, come sarebbe stato nella sua vecchia vita.
Quando, però, aprivano la bocca per rivelare la loro stupidità il suo interesse scemava con la stessa intensità con cui era arrivato.
L'uomo davanti a lui era un medico militare.
Era stato ferito in Afghanistan o Iraq e aveva intrapreso una specializzazione in psichiatria per aiutare le persone a superare traumi simili al suo.
 
Noioso. Decisamente.
 
Dal canto suo il medico era rimasto colpito dalla bellezza del suo paziente.
Non era da lui soffermarsi su cose del genere, ma pochissime volte gli era capitato di incontrare qualcuno che mantenesse degli occhi così vivaci in una situazione così complessa.
 
Quei due pozzi color ghiaccio lo scrutavano da sotto un ciuffo di capelli neri cercando di comprendere quanto più potevano, e John Watson sembrava oltremodo disposto ad esporsi.
 
Ebbe bisogno di qualche minuto per metabolizzare cosa stesse pensando e darsi un contegno.
 
-Salve Sherlock, io sono John, e sarà mio compito chiacchierare un po' con te.- Fece un sorriso spontaneo.
Non si aspettava che il ragazzo lo ricambiasse, e infatti così fu.
La sua non era una posizione semplice.
Aveva scelto di prendersi carico di quel ragazzo complesso.
Non sapeva neanche perchè.
La paga era buona, certo, ma erano i rapporti dei colleghi ad averlo incuriosito.
Quel giovanotto aveva una mente fuori dal comune e John sembrava interessato a far luce sulla questione.
- Afghanistan o Iraq?-  Chiese il più giovane per chiarire il suo unico dubbio.
Provò un po' di soddisfazione nel contemplare il viso dello psichiatra che si contraeva in una smorfia di sorpresa.
- Afghanistan...M-ma come...?- rispose spalancando gli occhi quasi divertito.
Sherlock brevemente gli spiegò come era giunto alle sue conclusioni attraverso la scienza della deduzione.
Si aspettava commenti disgustati o osservazioni sulla sua stranezza, come avveniva sempre quando rendeva qualcuno partecipe delle reazioni che avvenivano nella sua mente, eppure non avvenne.
-E'… incredibile.- Asserì il biondo spontaneamente.
Il paziente non potè fare a meno di pensare che sembrava un bambino.
Con quei suoi modi gentili e l'assenza di pregiudizi.
Pareva davvero interessato a lui.
Interessato, non Affamato.
Affamato come lo erano le persone che solitamente suo fratello reclutava.
Pronte a tutto per denaro.
Pronte a vendersi e a venderlo come merce di scambio per un po' di successo accademico.
Brutale, certo.
Eppure così perfettamente pronti a ritrarre, con un pennello intinto nel sangue di tutti coloro che avevano calpestato, la civiltà moderna.
Tutte le volte in cui questo accadeva Sherlock poteva percepire un tassello, più o meno grande, del suo mind palace che collassava.
John non sembrava così però.
Era bastato un attimo di distrazione di Sherlock ad innescare nello psichiatra il desiderio di chiacchierare.
Non aveva chiesto nulla.
Nessuna stupida domanda sul rapporto con la sua famiglia.
Non aveva dovuto ripetere le sue generalità.
Rimase seduto lì per i restanti quarantacinque minuti ad ascoltare un futile monologo sull'infanzia del medico.
Era un attività inutile, e volendolo ammettere, piuttosto noiosa, ma lo mise a suo agio.
Il tempo trascorse senza intoppi e il medico insistette per accompagnare personalmente il giovane alla sua stanza.
Sherlock non potè fare a meno di pensare che fossero agli antipodi.
I suoi passi erano talmente silenziosi e leggeri.
Tendeva ancora a far ondeggiare il camice, come l'ombra del ricordo di uno dei suoi amati cappotti.
All'inizio trovava quasi fastidioso lo zoppicare del dottor Watson, ma poi, quella ritmico incedere gli era entrato in testa, come un brano che tempo prima avrebbe composto con il violino.
Un brano imperfetto che narrava la storia di una vita.
Una vita che si era appena incrociata con la sua .
 
Il Dottor Watson non si limitò ad accompagnarlo, ma, con una grazia decisamente discutibile, si fece scivolare in tasca le pillole che, come sempre, avrebbero dovuto indurre il ragazzo al sonno per molte ore.
-Non hai bisogno di queste.- Affermò convinto chiudendo la porta.
 
 
 
 
 
 
Gli incubi di Sherlock Holmes erano singolari.
Mutavano, quasi come se fosse il suo stesso carattere a cambiare in essi.
A volte, rarissime, sognava la sua vecchia vita e la sua imminente autodistruzione.
Altre volte invece credeva di essere sabbia.
Era libero, imprendibile.
Finché un onda non lo portava a fondo.
Scomponendo ogni traccia della sua essenza.
Decomponendo i suoi ideali e creando ricordi che non aveva.
Soddisfazioni, perdite...credeva perfino di essersi creato una nemesi.
A volte Jim Moriarty, come un diavolo tentatore, faceva capolino nei suoi sogni /bruciandoli/.
Ed egli ardeva, consapevole della sua sconfitta e della sua impotenza.
Eppure quella notte sembrava tutto più semplice.
Non vedeva nulla, se non una luce azzurra che sembrava filtrare da nuvole di oscurità.
Sentiva voci.
Anzi no, preghiere.
Erano un turbinio così forte e così assordante che sembravano avere vita propria e il giovane credeva che da un momento all'altro sarebbero diventate una tempesta.
Sopra tutte una voce profonda e fintamente calma lo supplicava a non lasciarlo solo.
Sherlock per un attimo sentì qualcosa agitarsi dentro di se, ma lo represse.
Non era il momento per pentirsi di aver abbandonato Victor Trevor.
Lui era debole, e inadatto.
Un tale cervello sprecato era un peccato, ma non era affar suo, almeno, non pù di quanto lo fosse quello di chiunque altro.
Poi una voce lo costrinse a ridestare la sua attenzione.
- Aiuto...Per favore!- Un familiare accento inglese catturò la sua attenzione.
John Watson in uniforme giaceva per terra.
La parte razionale di Sherlock ovviamente insisteva su quanto fosse maledettamente futile curarsi di lui, eppure si lanciò per fermare l'emorragia.
Era un chimico, ma  non avrebbe avuto nessuna difficoltà ad aiutarlo.
Era chiaro, però, che il suo subconscio aveva altro in serbo per lui.
John Watson si accasciò senza vita tra le sue braccia.
-Non sei riuscito neanche in questo, Sherlock?Sei così inutile...-
Erano tutti loro.
Le voci di coloro che lo avevano giudicato senza pietà.
I suoi genitori in prima fila con gli occhi glaciali di suo padre, ricolmi di disapprovazione.
Ogni persona che avesse mai dubitato di lui era lì, pronta a ripetere quella fatua scommessa di fallimento.
Quel macabro tribunale che gettava su di lui ogni colpa, tra cui il sangue di John Watson.
L'orrore di tutti coloro che non potevano capire cosa volesse dire essere lui.
Quel forzarsi a rimanere se stessi.
Quella timida danza sul filo del rasoio per non essere inghiottiti dalla propria mente.
Si ritrovò a correre.
Non sapeva dove, nè perchè.
Voleva essere se stesso, superiore.
Forse cadde nel tentativo.
 
 
Riemerse all'improvviso dal sonno.
Necessitò di qualche minuto per realizzare che non era intorpidito.
Era soltanto...sveglio.
Tutti i segni di ansia e confusione che i medicinali notturni gli davano erano spariti.
Come se non fossero mai esistiti.
Guardando l'orologio un senso di grandezza gli attraversò le membra.
Mancavano dieci minuti all'orario in cui quei pedanti infermieri avrebbero dovuto svegliarlo.
Si chiese se fosse così gli dei dovevano sentirsi...
Pienamente padroni del loro tempo, scivolando superiori davanti a qualsivoglia convenzione.
Quel momento di grandezza sarebbe durato poco, e Sherlock lo sapeva bene.
Pochissime ore dopo il suo motivo di vanto era diventata la più grande infamia a cui lo potessero sottoporre.
Dal suo piccolo avamposto di felicità era stato trascinato nel gelido oceano della realizzazione, ed era stato costretto ad annegare.
Dov'era il suo orgoglio?
In due anni non era riuscito ad ottenere nulla.
Aveva avuto bisogno che uno sconosciuto qualsiasi lo liberasse dalla sua prigione di cristallo, che impedisse ad essa di accecalo con i suoi riflessi e le mille sfaccettature di inutilità.
Percepì il suo mind palace affollato dal disgusto.
Cercò di raggiungere una stanza che avrebbe potuto confortarlo.
Sentì urla, disperazione e continuò a correre.
Era talmente reale da bruciarlo.
--
 
 
 
Ogni notte l'umiliazione si ripeteva.
Nonostante fosse stato nuovamente sottoposto ai farmaci, John Watson era lì.
Le informazioni che aveva dedotto al primo incontro si incastravano nella sua mente, in un infinita e variopinta creazione.
Ogni notte sentiva di non poter salvare quell' uomo.
Si sentiva...umano.
Forse era proprio quello a spaventarlo.
 
Quando credette di essere sull'orlo del baratro, lentamente proiettato verso un infinito vortice di follia, realizzò che un altra settimana si era aggiunta al suo calendario di disperazione e impotenza.
Era martedì.
Si sentiva quasi fiero di essere riuscito a superare un' altra settimana.
E questo lo disgustava. Profondamente.
Si chiese cosa ne avrebbe pensato John Watson.
L'uomo candido, coraggioso e segnato dalla guerra.
Il primo individuo che avesse meritato un secondo sguardo, dopo Victor.
 
 
Aveva conosciuto Victor Trevor al secondo anno di università durante un assemblea.
Era un promettente fisico.
Pieno di conoscenze e amici. Ovviamente.
Carismatico, brillante e completamente noncurante dell'opinione altrui.
Se qualcuno avesse osato mostrarsi contrario alla sua opinione, egli avrebbe alzato le sopracciglia e sfoggiato il suo sorriso migliore e poi, gesticolando con le sue dita lunghe e agitando i suoi capelli biondi, sarebbe stato capace di convincerti di qualunque cosa egli ritenesse corretta.
Ovviamente, però, non era stato quello ad attirare Sherlock.
Era quell' incredibile capacità di rimanere allegro e sereno qualunque cosa accadesse.
Di accettare qualunque stranezza come dato di fatto.
Non ricordava nemmeno in quale momento il loro rapporto avesse preso quella piega.
Sembrava solo opportuno che, completandosi a livello intellettuale, facessero la medesima cosa sul piano biologico.
Poi il suo peggiore incubo si era avverato.
Come un oscuro presagio della decadenza umana.
Sherlock si era visto davanti ad una creatura con un attaccamento sentimentale, che gli aveva detto di amarlo.
Era rimasto paralizzato, e poi, quasi automaticamente, era uscito dalla stanza, ignorando le suppliche e le lacrime di quello che un tempo era sembrato un suo pari a livello intellettuale.
Non poteva permettersi di essere limitato da un legame affettivo.
Lui doveva correre.
Arrivare in fretta alla meta e fare quello per cui si era preparato per tutta la vita.
Senza pietà e a qualunque costo.
 
 
Quei ricordi lo avrebbero perseguitato negli anni a venire.
Si chiedeva cosa sarebbe cambiato.
Poi si ricordava di chiudere la porta, e lasciare Victor fuori.
Come meritavano tutti coloro che lo annoiavano.
Come aveva sempre fatto.
 
 
A volte, nelle mattonelle opalescenti che conducevano allo studio del suo psichiatra di turno, gli era parso di scorgere attimi della sua vita come frammenti distorti della sua sanità mentale.
 
E così fece, anche quella volta, avviandosi al suo secondo incontro con Watson.
Il medico era pacificamente seduto dietro la scrivania e, così immobile, sarebbe stato impossibile per chiunque definire la sua storia.
Sherlock fece finta di non notare il leggerissimo tremore psicosomatico che scuoteva la mano del dottore mentre scriveva.
Il sorriso familiare di John lo accolse appena fu in grado di percepire la sua presenza.
-Oh, Sherlock.- Esclamò sorpreso. - E' un piacere vederti...-
Sherlock avrebbe potuto mentire spudoratamente e dire che lo era anche per lui, ma non lo fece.
Non aveva senso mentirgli.
Mycroft avrebbe trascinato anche quella piccola creaturina gonfia di entusiasmo nella sua fitta ragnatela di corruzione.
Era solo questione di tempo.
Notò un attimo di esitazione nello sguardo del medico, prima che si decidesse a tirare fuori una cartellina gialla dal cassetto.
-Ho scoperto che abbiamo una conoscenza in comune...- Disse mantenendo il suo consueto tono cauto e pacato.
-L'ispettore Lestrade- Rivelò il medico.
Holmes conosceva benissimo quel nome.
Probabilmente quell'uomo doveva solo e unicamente a lui il fatto di avere ancora un lavoro.
Il giovane dai capelli neri gli fece cenno di continuare, lievemente incuriosito.
-Mi ha detto che, sempre se ti va, potresti dare un occhiata ad un paio di casi irrisolti...qui ci sono referti delle autopsie...Credo che potrebbe essere...positivo per reintegrarti nel tuo lavoro.-
Era esitante, l'ex consulente investigativo lo percepiva perfettamente, eppure percepiva qualcos'altro.
Che fosse curioso...desideroso di avventure?
Non perse un attimo.
Lesse i primi documenti.
Strangolata con la sua stessa sciarpa. Omicidio non premeditato.
Conoscente. Lesioni intime. Movente Passionale.
Impiegò tre minuti esatti a stabilire che era il marito e a spiegare il suo impeccabile ragionamento a John.
Il medico sempre più incuriosito lo invitò a continuare.
La volta successiva ebbe bisogno di più tempo.
Sparse i documenti per stanza. Ogni punto cardinale indicava uno dei procedimenti dell'analisi forense di base.
Si sentiva vivo.
Il gioco era cominciato.
Dal canto suo Watson aveva visto gli occhi del giovane illuminarsi nella ricerca del filo scarlatto che conduceva la vittima al suo carnefice.
Le sue ciniche osservazioni gioiose davanti ad un possibile serial killer imitatore non facevano che incuriosire il medico che, anche se ben lungi da ammetterlo, bramava quelle visioni cruente con tutto se stesso.
Sentirsi vivo era quanto aveva desiderato di più dalle lontane notti di terrore in Afghanistan, e ora gli era permesso di interessarsi senza aderire alle effimere condizioni di ipocrisia di coloro che l' avrebbero definito indecente.
Così per mesi andarono avanti.
Il rapporto con John migliorò.
Era un uomo brillante e coraggioso, e non aveva avuto paura di infiltrarsi in casa dei sospettati per procurarsi ulteriori informazioni, a cui, quella massa di idioti rispondente al nome di polizia non era stata capace di accedere.
Eppure Sherlock aveva imparato una cosa.
Nella vita, ma in nessuna come la sua, tutto era destinato a finire.
Fu solo questione di tempo prima che Mycroft si accorgesse di quello che il medico aveva offerto a suo fratello.
Una scialuppa.
Qualcosa a cui aggrapparsi.
Un flebile luce nel buio della sua esistenza.
 
E come sempre, andava eliminato, perchè avrebbe potuto renderlo felice.
John Watson si vide recapitare una lettera, sintetica e fintamente educata, piena di inutili termini ridondanti, che lo ringraziava per il servizio svolto, e lo pregava di non avvicinarsi mai più all'edificio.
Sentì qualcosa rompersi dentro di lui.
Provò più volte a rientrare lì, ma non gli fu mai permesso.
Era la città segreta in cui un imperatore senza trono cercava di governare la sua mente.
 
Sherlock pensò di falsificare la sua morte, ma rinunciò.
Così si chiuse nella sua gabbia di zaffiri.
E cadde, come sabbia, in un oceano che somigliava sorprendentemente agli occhi di John Watson.
Forse morì. Chissà.









Angolo autrice

Saaaalve :3 eccomi di nuovo in questo fandom. Questa fic è un po' una scommessa con me stessa per capire se fossi capace di scrivere qualcosa di serio su Sherlock e John....e...beh spero che vi sia piaciuta :3. 

                                                                                                                                    Adios u.u Role

 
  
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