Contest
di Scrittura "Watercolor" indetto dal gruppo facebook A Panda piace fare le bolle di
assenzio
PACCHETTO
TERRA DI SIENA BRUCIATA
Mi
chiamo Sarah Rosenberg.
Un
nome terribilmente ebreo, non trovate?
Quei
nazisti di merda ci chiamano David o Sarah. Ma quando nel ghetto
avevano
scoperto che era il mio nome di battesimo, avevano semplicemente
abbreviato il
nome in sporca ebrea. Anche puttana era un epiteto che quei bastardi
amavano,
non che importasse più ormai. E forse, adesso, è
il nome che mi si addice di più:
sono una puttana. Una schifosa puttana ebrea.
Ho
persino uno specchio, nella mia schifosa baracca. Uno specchio per
sistemarmi,
per “ farmi bella”. Non mi sento più
bella da tanto tempo, non mi sento più
donna da tanto tempo. Donna, ma chi mi credo di essere? Sono soltanto
una
diciottenne stupida e sporca, spezzata. Sono solo una puttana ebrea.
Non
si direbbe che lo sono, comunque. Di ebreo, ho solo il naso a punta ma,
per
tutto il resto, sembro tedesca. E ciò mi disgusta. Non mi
hanno tagliato i
boccoli biondi, al lager, perché io devo piacere agli
uomini: me li hanno fatti
ricrescere e in un primo e stupido momento ne ero anche felice,
attaccata come
ero alla mia vanità. A Ravensbrück
mi
avevano rasato i capelli ed ora li potevo riavere. Dicevano che a
Buchenwald si
stava ben peggio ma, ormai, non credevo più a nulla, non
pensavo di poter
cadere più in basso di così.
Dovevo
proteggere la mia sorellina. E, in nome di un Dio, uno sporco Dio ebreo
come
me, l’avrei fatto.
Eravamo
ricchi a Berlino, io e la mia famiglia. Vivevamo in un bellissimo
attico che
dava sulla Kurfürstendamm Straße, nel centro di
Berlino: mio padre era un
medico e mia madre era stata una famosa ballerina ai tempi della sua
gioventù,
aveva girato per mezza Europa con la sua compagnia. Ma poi aveva
incontrato mio
padre, uno strano e alto adolescente con un accenno di barba alquanto
imbarazzante e aveva lasciato tutto per lui. I miei genitori avevano
avuto
subito me e poi, dopo qualche anno, i gemelli Anna e Aaron. Anche la mamma era ebrea
ma era per metà
inglese: nei primi tempi abbiamo pensato che quella goccia di sangue
cristiano
ci avrebbe potuti salvare. Quanto eravamo ingenui. Troppo ottimisti,
troppo
stolti. E ora c’era lei da salvare, la mia piccola Anna.
La
guardo, seduta fuori dalla baracca, mentre fuma una sigaretta:
già, noi
possiamo scambiare questi beni, noi siamo le fortunate del lager. Non
dimostra
più i suoi 15 anni e i radi capelli marroni hanno cessato di
crescerle in
alcuni punti: non parla più da mesi ormai. Ma io la devo
riportare a casa, devo
tornare a casa con lei. Ma qual è casa, ormai? Berlino? La
Germania? Ma è un
pensiero inutile, da scacciare per il momento. Pensa al presente,
Sarah, pensa
al presente, ebrea.
Nel mondo chiamato
“adolescenza a Berlino”, un mondo ormai
lontanissimo da me, a volte mi chiedevo
se l’avessi davvero vissuto, avevo anche un fidanzato
tedesco, biondo, alto,
con dei bellissimi occhi verdi che producevano uno stacco affascinante
con la
sua pelle dorata, a causa del sole estivo. Si chiamava Andreas. Ne ero
innamorata da tempi immemorabili. Era buono, Andreas.
Ma non mi posso permettere di pensare a lui,
non qui, non adesso. Io non sono più quella ragazza, non
sono più una persona.
Li avevamo sentiti,
i tedeschi, giù per la strada. Avevamo sentito i calci dati
al portone della
nostra casa ed eravamo rimasti lì, bloccati dal terrore.
Stranamente, ho solo
un ricordo di quel giorno: il fermaglio blu, a forma di farfalla, che
mia madre
metteva ogni giorno, gettato fuori dalla finestra. Era stato un regalo
di mia
nonna, credo.
“Non l’avranno
mai,
quei bastardi”, aveva detto la mamma.
Io, mia madre e
Anna fummo separate da Aaron e da nostro padre, un uomo distrutto
dall’aver
fallito nel suo compito più importante: proteggere la sua
famiglia. Lui ERA
tedesco, il suo essere ebreo non contava più di tanto per
lui. Era un uomo di
scienza, Dio era qualcosa di secondaria importanza.
-Ehi
bionda.-
Mi
volto e vedo la Kapo che mi indica sbrigativa l’interno della
mia camera.
-Schneider
è qui. Farai meglio a muoverti.-
Reprimo
un moto di disgusto. Siamo le puttane, le puttane del lager: non sei
più Sarah,
lei è rimasta a Berlino, nel suo appartamento sulla
Kurfürstendamm Straße, lei
è felice tra le braccia di Andreas. I suoi capelli sono
lunghi e sani, indossa
bei vestiti e va a scuola come tutti gli altri. Sarah
perderà la verginità con
Andreas, si sposerà con lui e avranno dei bellissimi bambini
insieme.
Tu
sei solo il numero 735034. Tu sei solo una puttana e così lo
è tua sorella
Anna.
Entro
nella mia misera camera all’interno della baracca.
Lì, accanto al mio sudicio
letto Ruben Schneider si accende l’ennesima sigaretta della
giornata. Lui mi
guarda dall’alto in basso e mi fa cenno di spogliarmi.
Abbiamo un patto, io e
Schneider: lui mi fa quello che vuole e lascia in pace mia sorella.
E’ questa
la sola protezione che le posso offrire, in questo inferno.
Non
è di molte parole, Ruben Schneider. In un’altra
vita, l’avrei anche definito un
uomo affascinante: è alto, con degli occhi azzurri che
potrebbero sembrarti
anche gentili, buoni se non fosse per il fatto che quest’uomo
è il diavolo in
persona. E’ stato un grande sostenitore del Lagerbordell, era
entusiasta
dell’idea di Himmler anche se non approvava che anche i
prigionieri ne
potessero usufruire. Si lamentava dell’assenza di
preservativo, si lamentava di
non poter lasciarsi andare alle sue schifose fantasie sessuali.
“Vedessi
cosa faccio a mia moglie”, mi aveva detto, il primo giorno
che c’eravamo
incontrati. L’unica volta che mi aveva rivolto la parola.
“ Sembri tedesca,
quasi mi dimentico cosa sei veramente.”
E
in quel momento, lontano ormai un anno fa, l’avrei voluto
uccidere, avrei
voluto avere un coltello per sgozzarlo perché io non ero una
cosa: avevo ancora
una dignità, ero ancora una persona. Ora non mi importa
più di tanto. Devo solo
salvare mia sorella, l’ho giurato a mia madre.
Mi
appoggio sul letto, pronta ad accogliere quella schifosa SS dentro di
me. Lui
mi tocca un seno con forza e io devo trattenere un gemito di dolore per
non
dargli soddisfazione, lui non deve vedere la sofferenza nel mio
sguardo, lui
non avrà niente da me. Mi bacia il collo e io trattengo il
disgusto che mi
assale: non pensare a nulla, ragazza, non pensare a nulla.
Entra
dentro di me con violenza e la cenere della sua sigaretta cade sul mio
corpo e
mi brucia ma io non dico niente, non emetto un gemito. Osservo con la
coda
dell’occhio l’altra SS che ci controlla dallo
spioncino, perché così deve
andare.
Sento
il suo seme che, dopo pochi minuti, m’invade e lui esce da me
ma mi sembra
insoddisfatto. Si rinfila i pantaloni e si aggira come una belva
irritata nella
camera mentre io mi rimetto il mio logoro vestito grigio. Mi alzo in
piedi e mi
avvio al vecchio lavello, per lavarmi le mani: l’igiene
è la cosa più
importante, in questo inferno. Ma prima che possa muovere anche solo un
passo
lui mi ributta sul letto, spingendomi. Io lo guardo stranita e la paura
si rifà
viva dentro di me. Si slaccia di nuovo i pantaloni e prende tra le mani
il suo
membro. Capisco cosa vuole fare.
Rido,
una risata vuota, non da me.
-Te
lo scordi.- gli dico, sprezzante, rialzandomi e proseguendo di nuovo
verso il
lavello.
Lui
non parla, non che ciò mi stupisca, ma mi afferra il polso e
me lo tira,
azzerando la distanza tra i nostri corpi.
-Fallo,
sgualdrina.-
Lo
guardo in quegli occhi azzurri ma non mi metto in ginocchio,
così come vorrebbe
lui. Continuo a fissarlo con un’aria di sfida e mi stupisco
di me stessa: io
non mi ribello, io non vivo, sopravvivo. Eppure, l’adrenalina
prende il
possesso del mio corpo e, per la prima volta, non ubbidisco. Per la
prima volta
in anni, sento che il mio cuore continua a battere, che io sono quella
Sarah di
Berlino, la sorella di Anna e Aaron, la figlia dei coniugi Rosenberg.
La
ragazza un tempo amata da Andreas.
Il
tedesco mi guarda, stizza e rabbia negli occhi. Ha capito che io non
farò
quello che vuole e questo lo confonde, mette in forse la sua
autorità. Ma poi
un sorriso si allarga su quel bel viso. Un sorriso crudele che mi fa
perdere i
battiti del cuore. Si alza le mutande e si chiude la cerniera dei
pantaloni e
non smette di sorridere e un brivido mi percuote il corpo, capisco
tardi quello
che vuole fare.
-Il
patto è finito. Che ne dici, inglesina*?-
Prima
che io possa urlare, avvertire mia sorella, che poi cosa mai potrebbe
fare,
fuggire forse, lui esce velocemente dalla camera, sbattendo la porta,
mentre io
mi ci getto con una forza che solo una persona disperata come me
può avere.
-Non
farla uscire.- ordina Schneider alla guardia e sento la porta che si
chiude a
chiave.
Urlo,
continuo a urlare e a battere al muro, sperando di distruggerlo, di
fare un
breccia in esso e poterci passare attraverso per salvare lei, mia
sorella.
Sento
gli scarponi di Schneider che camminano pesanti, quasi strusciando, sul
pavimento lercio della baracca. Non ha fretta, sa che nessuno gli
potrà opporre
resistenza, non di certo la mia piccola sorellina quindicenne. Non
sento nulla,
né grida, né imprecazioni. Non mi stupisce, mia
sorella non apre bocca da mesi
ormai, da quando siamo arrivate in questo posto dimenticato da Dio.
Ecco,
sento finalmente qualcosa e taccio, per un attimo.
Taccio
per capire che succede, taccio per fare chiarezza nella mia mente, per
cercare
di capire come salvarla, salvare lei, questa è la mia
missione, questa è la mia
ragione di vita.
Il
silenzio viene rotto dal suo pianto e dalla risata secca di lui che
trascina il
suo fragile corpo sul pavimento. Sento la porta della camera di mia
sorella
aprirsi violentemente e le sue urla sono così forti che il
mio cuore si spezza,
si dilania in mille pezzi. Mi accascio contro il muro e mi sembra di
soffocare
e vorrei dire qualcosa, vorrei sfogarmi, ma il mio volto resta asciutto
e la
mia bocca aperta in un grido silenzioso di dolore.
Io
sento, sento di nuovo. Io SONO di nuovo. E questo è il
più grande errore che
potessi fare.
L’ha
lasciata in una pozza di sangue, la mia sorellina.
Alla
fine, la mia guardia l’ha fermato, un ragazzino troppo alto e
troppo magro, con
dei grandi occhi marroni e il viso coperto di lentiggini.
Avrà diciotto anni.
Ha detto che era abbastanza, che era solo una ragazzina. Ed
effettivamente
aveva ragione: era abbastanza.
Abbastanza
da ucciderla.
Ed
è colpa mia, colpa del mio “coraggio”,
lo possiamo chiamare così, della mia
testardaggine. Lei è morta per colpa mia. Ho avuto un attimo
di tempo per
guardarla, per dirle addio, prima che me la portassero via per sempre,
prima
che la buttassero nella terra fredda, nella fossa comune, insieme ad
altre migliaia
di persone sconosciute, senza volto.
Il
ragazzino allampanato mi aveva passato una patata sottobanco ma io
l’avevo
rifiutata, lui se l’era subito rimessa in tasca.
Sono
passati mesi da quel giorno, mesi in cui Schneider mi è
venuto ogni giorno a
fare visita e io gli ho lasciato fare tutto quello che voleva,
perché, che
scopo c’era nel lottare? Erano tutti morti, non sarei
più tornata alla mia vita
sicura, felice: ero l’unica rimasta. E ogni volta che
incontravo lo sguardo di
quel porco, la voglia di vendetta riempiva il mio cuore, mi
ossessionava.
L’avrei voluto uccidere, il bastardo. L’avrei
voluto soffocare nel sonno,
vedere il suo viso che diventava rosso, blu, cinereo. Il colore della
morte;
sorrido, pensandoci.
-Ragazza,
che fai? Muoviti, nasconditi, prima che gli venga in mente di
ucciderci.-
sbotta l’Ungherese, la più vecchia tra noi qui
dentro, mentre mi tira per la
mia logora veste. Ha il viso struccato, la mora, e
un’espressione di puro
terrore che peggiora il complesso.
Guardo
fuori dalla finestra, non c’è nessuno dei
prigionieri che lavora nell’enorme
spazio: solo SS che bruciano documenti e si affrettano a mettere in
moto le
loro enormi auto. Schneider è fuori, urla come un ossesso e
blocca delle
guardie che cercano di fuggire.
-Cara,
muoviti. Gli Americani stanno arrivando.-
La
guardo, un po’ sorpresa, e lei mi sorride comprensiva:
è una donna forte, l’Ungherese.
Le afferro la mano e lei mi trascina sotto una botola, nascosta alla
vista e
noto che tutte le mie compagne sono nascoste la dentro, attendendo.
Sembriamo
dei conigli spauriti che non capiscono cosa accade, se sia davvero
arrivato ciò
che ci aspettavamo da anni: la Libertà.
Non
so quante ore passano ma, per la prima volta in mesi, sono di nuovo
attenta e
sento una morsa allo stomaco che definisco paura, ansia.
Sarà tutto finito, tra
poco sarà tutto finito. Il silenzio si stringe intorno a noi
e l’Ungherese
ascolta attentamente. Apre di nuovo la botola e ci fa segno di
aspettare, di
attendere: sembra una leonessa che protegge i suoi piccoli, fiera anche
nel
dolore, nella miseria. Esce cautamente e io trattengo il respiro,
attendendo
ancora.
E
poi la sento.
Sento
la risata e i singhiozzi causati da un pianto di liberazione.
Velocemente,
prima delle altre, esco dal nascondiglio e corro fuori, dove il sole
d’inizio
Aprile splende.
L’Ungherese
abbraccia un alto ragazzo biondo e lo bacia in bocca ripetutamente,
urlando le
uniche parole che conosce in inglese.
-Hi,
hi, hi!-
Mi
copro gli occhi con la mano, cercando di proteggermi dal sole
splendente del
mattino e mi guardo intorno, quasi incredula. Attorno a me, fantasmi,
anzi no,
persone, escono dai loro nascondigli e guardano abbagliati gli enormi
carri
armati con la bandiera americana sul fronte che, ormai hanno riempito
il campo.
I soldati si guardano attorno scioccati, terrorizzati, non so se da noi
o dai
cadaveri che giacciono sul terreno, e un uomo nero, non ne avevo mai
visti in
vita mia, copre un bambino pelle e ossa con una coperta di lana.
Guardo
il cancello e la scritta su di esso:
Jedem
das Seine.
Ad
ognuno il suo.
Guardo
un fucile, vicino a me, e vedo anche Schneider che si guarda attorno,
sconfitto, con le altre SS del campo che, lentamente, alzano le mani al
cielo
in segno di resa. Lui mi da le spalle, non avrebbe tempo di accorgersi
di
nulla, lo potrei uccidere, vendicherei Anna. Prendo il fucile tra le
mani,
tremante.
Darei
dimostrazione di aver imparato la lezione del campo, gli darei
ciò che si
merita.
Punto
l’arma contro di lui, pronta a sparare. E proprio in
quell’istante, lui si gira
e mi fissa spaventato. Nessuno fa caso a noi, lo uccideranno comunque,
anche se
non lo faccio io. Magari mi premieranno.
Ma butto il fucile ai miei piedi, dopo un attimo di
esitazione, perché
io non sono così. Io sono libera, adesso. E uccidere quel
bastardo non mi
porterà indietro mia sorella. Ucciderlo mi condannerebbe
agli incubi e ai sensi
di colpa: mi macchierebbe dell’omicidio di un essere umano e,
tra di noi, non
ci sarebbe alcuna differenza. Io voglio essere libera.
Lo
guardo, mentre un ragazzo di cui non vedo il viso lo ammanetta.
-Lasciami,
maiale.- sputa Schneider.
-Posso
capirti benissimo. Anche io sono tedesco.-
Quella
voce. Quell'accento.
Il
soldato alza lo sguardo e, per un attimo, dalla mia gola esce un
singulto di
sorpresa. Quegli occhi verdi, così espressivi, quei capelli
color grano che
avevo stretto miriadi di volte tra le mani.
-Andreas...-
mormoro, portandomi una mano sul cuore, per vedere se batte, se sono
ancora
viva.
Perché
devo essere in paradiso, devo essere morta e questa è
l'unica spiegazione
possibile per trovarmi ancora davanti al ragazzo di Berlino.
Lui
alza lo sguardo e mi fissa per un attimo, senza riconoscermi. Mi
avvicino
tremante e vorrei tanto accarezzargli quel viso sul quale vi
è un sottile
strato di barba. Gli è cresciuta, allora. Dovrei
semplicemente dirgli,
"Sono io, sono Sarah." ma non ne ho la forza o il coraggio e continuo
a guardarlo, respirando il suo profumo che tanto mi era mancato in
questi anni.
-Sarah...-
mormora lui, riscuotendosi per un attimo.- Sei Sarah?-
Io
annuisco e sto zitta, sono diventata muta. Muta dalla
felicità.
Andreas
richiama l'attenzione di un altro soldato che prende in custodia
Schneider e
lui continua a guardami, quasi incantato.
-Io...
Io non ti ho più trovata a casa, pensavo fossi morta.- dice,
con voce tremante.
- Ti ho cercata, tanto, Sarah. Me ne sono andato via, sono scappato via
come un
codardo e mi sono arruolato con gli Americani e invece tu... tu... -
inizia a
balbettare e io lo interrompo e lo abbraccio, lo stringo forte al mio
corpo.
Sento
le sue braccia stringermi al suo corpo e inspiro il suo odore di
polvere e di
sudore, l'odore della guerra, della Libertà tanto agognata.
Non
potrò mai più essere la ragazzina spensierata di
un tempo e lui non sarà il
ragazzo che correva con la bicicletta per Pariser Platz. Ma ci siamo
ritrovati.
Ci siamo ritrovati e adesso non lo lascerò più
andare, perché lui, Andreas, è
l'unica possibilità per risalire dalla china di disperazione
in cui sono
crollata. Insieme possiamo provare ad essere meno soli, ad allontanare
il
passato ed il senso di colpa. Insieme, posso cercare di costruire la
mia
"Felicità". Posso provare di nuovo a sorridere, posso
provare a
cercare di nuovo quel Dio che in questi anni avevo perso.
-Andiamo
via da qui, portami via da qui.- sussurro.
E
questo è tutto quello che c'è da dire.
Andreas
mi aveva cercata per più di un anno.
Non
si era dato pace, aveva girato le prigioni dell'intera regione per
trovarmi,
per salvarmi. Poteva pagare il riscatto, lui era ricco, forse anche
più di me.
Ma
il padre lo pregò, lo supplicò di andare via, di
andarsene da quel paese che
aveva sempre chiamato patria ma che, oramai, non gli apparteneva
più. Era il
1939 quando, con la scusa di un viaggio di piacere, era salito su una
nave
diretta a New York e, da lì, aveva assistito alla corsa
delirante verso la
distruzione di un folle, un pazzo. Nella sua mente, sempre io.
Sono
passati dieci anni da quel’11 Aprile 1945. Anni in cui gli
incubi ci hanno
perseguitato e continuano a farlo: forse non se ne andranno mai ma,
ogni
giorno, la mia ragione per alzarmi da quell'enorme letto, è
il sorriso ancora
ingenuo di Andreas.
La
vita deve andare avanti.
Accarezzo
il mio pancione, pensierosa.
Da
un paio di mesi abbiamo iniziato a fare un gioco, io e Andreas.
Più che altro è
una sfida all'ultimo colpo sul nome più ridicolo che
possiamo trovare per il
nostro bambino, che continua a crescere dentro di me. Un gioco
divertente, che
può ancora farmi sorridere e fare felice Andreas.
E'
lì dentro, mio marito, a costruire la culla del bambino nel
nostro piccolo
appartamento di Los Angeles. Non potevamo tornare a Berlino. Non
volevamo stare
in Europa e rivivere continuamente ciò che entrambi avevamo
passato, ciò che io
avevo passato. Il biondo si asciuga la fronte e sbuffa contrariato,
delle
piccole rughe si formano sulla sua fronte. Poi sorride e mi si
avvicina,
baciandomi sulla guancia.
-Ne
ho uno nuovo.-
*Inglesina:
nei bordelli
dei lager, le prostitute venivano scelte tra le ucraine, rumene,
ungheresi e
russe. Le ebree non venivano scelte poiché ritenute di avere
il sangue impuro,
così come le italiane. Quindi ho scelto di adottare la
soluzione di mezza
ebrea, mezza inglese per non commettere un erroraccio storico. Le fonti
da cui
ho ricavato queste informazioni sono contenute nel libro "La baracca
dei
tristi piaceri" di Helga Schneider.