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Autore: kk549210    19/05/2014    14 recensioni
Andromaca dopo lo straziante incontro con Ettore alle Porte Scee.
Un luminoso spiraglio di speranza si apre nelle ore buie dell'attesa dolorosa.
"Nel confuso vorticare dei pensieri che le si agitavano nel cuore, Andromaca rammentò leggende di antichi catasterismi. Il germe di cento eroi mutato in stelle dalla liberale benevolenza degli dei. Anche il suo sposo meritava di prendere parte a quello sfolgorante e sempiterno consesso."
1^ premio ex aequo al "Shakespearian Quotations Contest" indetto da _juliet
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromaca
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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L’onore della notte
 
Disclaimers: I personaggi dell’Iliade non sono di mia proprietà. Li ha creati quella meravigliosa identità collettiva della Grecia arcaica a cui – per tradizione e per convenzione - è stato attribuito il nome di Omero.
La citazione in versi nell’ultima parte del racconto appartiene al Romeo and Juliet (III 2, 22-24) di William Shakespeare.
Questa fanfiction è stata scritta senza alcuna finalità di lucro.
 
NdA: L’incontro tra Ettore e Andromaca è uno degli episodi più famosi non solo dell’Iliade, ma di tutta la letteratura mondiale, che crea grande emozione nei lettori di tutte le età e di tutti i tempi, anche in quelli che di solito sbadigliano seduti all’ultimo banco. Questa fanfiction è una sorta di missing moment, ovvero un ampliamento di quanto Omero ci racconta in  Z 495-502, il lamento di Andromaca, presaga della fine del suo sposo. Gli epiteti omerici sono in corsivo, così come l’espressione “germe di cento eroi” (Metastasio, Il sogno di Scipione) e, ovviamente, la citazione shakespeariana.
Il testo, finora inedito, è stato scritto appositamente per il “Shakespearian Quotations Contest” indetto da _juliet.
 
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Nella casa ben costruita, dopo l’acuto e prolungato lamento, le fedeli ancelle dal lungo peplo si erano asciugate gli occhi ed erano tornate al telaio e alle loro faccende muliebri. Una, intenta alla conocchia in un canto, s’era pure messa a modulare note flebili e tremolanti. Una leggera monodia che voleva essere dolce e rasserenante, ma che in quell’atmosfera melancolica e forzatamente operosa risuonava invece come un singulto funereo. Una ferale conferma del presagio che tutte nel gineceo continuavano a nutrire in cuore.
La figlia del nobile Eezione s’era rimessa anche lei al telaio. Era moglie d’un guerriero, l’illustre Ettore. Il più valoroso e forte dell’intero esercito dei Troiani. Quella dell’Onore era l’unica legge che lui conosceva. E anche la sua fedele sposa  doveva conformare la sua vita, i suoi atti, il suo cuore a quella norma inesorabile. Gli uomini in battaglia, a difendere le mura di Ilio dall’assalto dei Danai. Dall’energia distruttrice dell’invitto Aiace Telamonio, dalla dolosa astuzia del Laerziade dal multiforme pensiero. Le donne in casa, ad attendere ai loro doveri di mogli e di madri. E così, gli occhi arrossati come quelli di una lupacchiotta smarrita nel bosco e braccata dai cacciatori armati di frecce lance fiaccole fumogene, aveva ripreso l’opera che aveva interrotta per scendere ad incontrare Ettore alle porte Scee. Ma ora la spola le sfuggiva di mano, il filo si ingarbugliava in una matassa arruffata e indecifrabile. E la trama del tessuto spariva e riappariva alla sua vista, come velata di una fitta bruma. La densa e impenetrabile nebbia della terra dei Cimmeri.
Se la mano tremava e l’occhio si smarriva, non c’era proprio verso di continuare il lavoro. Si alzò in piedi e si staccò dal telaio, più che mai consapevole che il coraggio e la forza del cuore siano cosa da uomini. Nel suo nome stesso, Andromaca, c’era come inscritto un destino da maschia combattente. Ma lei voleva contrastare la sua Moira, con la titanica caparbietà di chi sa che uscirà inevitabilmente sconfitto. Usare quella forza che le proveniva proprio dal suo nome dal timbro così virile per riaffermare la sua indole femminea. Il diritto ad abbandonarsi al pianto. Soffrire per Ettore. Farsi strada nella spessa tenebra del dolore. A lampi vedeva il  suo sposo giacere esanime nella polvere, squarciato alla gola da una lancia achea. Corvi dal piumaggio nero e lucente si aprivano varchi con l’avido becco nelle carni ancora tiepide. In quel corpo un tempo così bello e vigoroso che l’aveva resa madre. A squarci si scorgeva sola, in balia del Fato onnipotente, senza più padre né madre né fratelli né marito. Schiava nell’Argolide, separata per sempre dal suo tenero figlioletto. Concubina in un talamo straniero, empiamente piegata alle sozze voglie di Diomede o di Agamennone.    
Si avvicinò alla finestra e rivolse fuori il suo sguardo rugiadoso di pianto. Sulla piana dello Scamandro il sole era già tramontato da un pezzo. La notte stava scendendo sui mortali, a coprire maternamente le loro spossanti fatiche con il suo mantello accogliente. Davanti alla dolcezza e alla benignità di quel cielo, per temperare l’affanno del suo animo,  Andromaca si abbandonò al ricordo. Una sera simile a quella, rischiarata dalle fiaccole e riecheggiante di imenei. La virginale trepidazione e l’orgoglio ancora inconsapevole di una giovinetta che giungeva carica di doni alla casa di Priamo, promessa al più eroico dei suoi figli. La letizia ineffabile che le sgorgava stringendo al seno odoroso Astianatte, novello virgulto della pianta di Dardano. 
Le stelle rischiaravano ormai la notte e si riflettevano sul suo viso solcato di lacrime amare. La figlia del nobile Eezione si lasciò andare ai singhiozzi e abbandonò la testa su un braccio. Ettore sarebbe morto. Questione di giorni, forse di settimane, ma la Chera gliel’avrebbe sottratto, per sempre. Sceso nell’Ade, avrebbe perduto vita forza regalità. Tutto. Solo la potenza del canto degli aedi lo avrebbe potuto mantenere in vita. Immortale, ben oltre le profonde porte di Dite. Nel confuso vorticare dei pensieri che le si agitavano nel cuore, Andromaca rammentò leggende di antichi catasterismi. Il germe di cento eroi mutato in stelle dalla liberale benevolenza degli dei. Anche il suo sposo meritava di prendere parte a quello sfolgorante e sempiterno consesso. Levò di nuovo gli occhi al cielo e pregò con intenso fervore:  
“E quando egli morirà, tu, notte, prendilo 
e ritaglialo in mille pezzettini da farne tante piccole stelle: 
renderà tanto bella la faccia del cielo 
che tutto il mondo non avrà occhi che per te, notte, 
e non farà più omaggio d’adorazione al risplendente sole
.”
Ettore avrebbe ricevuto l’onore della notte. Ne sarebbe stato l’onore. E lei non sarebbe stata mai più sola.

 
 
 



 
  
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