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Autore: nikoolas96    23/05/2014    0 recensioni
[GDR Trama inventata.]
[La Città Di Nessuno GDR Yaoi/Slash]L'intera storia, l'ambientazione e i personaggi sono tratti da un GDR di cui ero amministratore, trovate il titolo in alto. Il materiale è di esclusiva proprietà della fondatrice del GDR quale autrice dell'omonima opera.
La storia è scritta a due mani, da me e la mia amica, come la chiamo io, Ellina! *W*
I personaggi sono Stan ed Emis, due ragazzi, due cuori e... Beh due scrittori. XD
La storia è a tema Yaoi, ovvero tratta di rapporti omosessuali tra due ragazzi. Se non siete interessati al genere... Sayonara minna! :*
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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L’Ipod in tasca, gli auricolari nelle orecchie. Finalmente un minuto di pace e di silenzio in quel mattino fin troppo freddo per i suoi gusti. In giro per le strade della città non c’era anima viva e in fondo era decisamente meglio così.
Nessuno a guardare, nessuno a giudicare, nessuno che lo potesse contraddire o che potesse posare gli occhi giudicanti su di lui. Tutti lontani, tutti via, tutti rinchiusi nelle proprie case a trascorrere la loro giornata fin troppo perfetta per poter essere vero.
La voce che cantava attraverso gli auricolari intonava note strane, apparentemente stonate che avrebbero infastidito chiunque, ma non lui che in quella musica così contorta e distorta, così stridente e sbagliata ci si rispecchiava.
Da quando era successo il “gran casino”, così lo chiamava lui per non affrontare davvero ciò che era successo e le conseguenze, era passato un anno e in quell’anno molte cose erano cambiate.
Era inutile nascondersi dietro maschere e facciate: tutti sapevano che Emis non aveva superato il distacco da Stan. Si illudeva, fingeva che tutto fosse esattamente come prima ma era una palla, una enorme, grande e grossa balla a cui lui stesso aveva smesso di credere.
Nel giro di un anno aveva fatto un cambiamento drastico in tutti i campi: aveva perso il lavoro e con esso la casa. Senza uno stipendio che gli garantisse quel minimo che poteva permettersi prima, non aveva avuto nemmeno il denaro sufficiente per pagare l’affitto della casa in cui abitava. A nulla era servito vendere tutto ciò che aveva dentro perché tra mobili, arredi, impianto stereo e televisione, non era riuscito a mettere insieme che una manciata di spiccioli. Quello che aveva non valeva nulla e così, senza nemmeno rendersene conto, era finito in mezzo alla strada, nuovamente, esattamente come quando era bambino.
Incapace di affrontare la situazione, non per una sua mancanza ma perché lui stesso non voleva più darsi da fare per risollevarsi perché non ne vedeva il motivo, aveva iniziato a frequentare i “bassifondi” della City. Magazzini, centri ormai fatiscenti , abitazioni diroccate e vuote, luoghi abbandonati, divennero la sua dimora
L’appetito che già era diminuito dopo la vicenda di Stan era sparito del tutto aiutato anche dalla mancanza materiale di cibo e di soldi con cui poterlo comprare e da dilaniato dalla fame e denutrito, divenne semplicemente scheletrico.
Sembrava uscito direttamente da uno di quegli spot per le pubblicità contro l’anoressia, con la differenza che lui non era stampato su un pezzo di carta gigantesco ma era vivo e vegeto. Gli incontri clandestini erano andati a farsi friggere come tutto il resto perché sebbene Emis non fosse mai stato un tipo grasso o in carne, sulle ossa non rimaneva che pelle ed era inutile prendersi in giro: non sarebbe stato in grado di schivare un colpo nemmeno se lo avessero avvertito prima.
I capelli presero a crescergli e divennero lunghi, un po’ neri per la tinta, un po’ biondi per la ricrescita e le lenti a contatto andarono perdute in una giornata di pioggia chissà quando.
Spinto dalla disperazione e dalla necessità, andando contro ogni suo principio e ogni sua promessa, si costrinse a fare ciò che più gli riusciva meglio: vendersi.
Inutile dire che la riluttanza e l’odio che provava nei propri confronti non aveva limiti ma come dicevano tutti quelli con cui andava, sembrava nato per quello.
Ed Emis ci soffriva, si riempiva di rabbia e di odio, di frustrazione e ogni volta ci sperava che anche uno solo di quelli che pagava per averlo fosse anche per un’ora si trafiggesse con le sue ossa, con quelle costole che sporgevano marcate come a voler bucare la pelle. Ci sperava e pregava che accadesse ma tutto ciò non avvenne mai, se non nei suoi sogni.
Capitò invece che mentre si trovava al lato della strada ad aspettare l’ennesimo cliente, conobbe un altro ragazzo di bell’aspetto, di qualche anno più grande e dall’aria decisamente più sana. Faceva lo stesso lavoro di Emis, anche se per ragioni diverse. Si chiamava Deris e tra un “come va” e un “dove abiti”, ancora prima di rendersene conto si ritrovarono avvinghiati sul divano di casa del nuovo ragazzo.
Rimasero insieme tutta la notte e ciò che fecero sapeva di rabbia, di frustrazione, di bisogno, di aiuto e di disperazione.
Dopo quella notte Deris accolse Emis in quella stessa casa che divideva con altri tre ragazzi che, seppur facendo lavori diversi e non proprio in regola, erano come lui, ai margini della società.
Nessuno faceva domande, nessuno voleva risposte e a tutti andava bene così. L’importante era mettere insieme i soldi per pagare l’affitto del buco in cui stavano, tutto il resto era secondario.
Fu con loro che Emis conobbe le gioie dell’alcool, di cosa volesse dire bere fino a non sapere più chi si fosse e fino ad addormentarsi ovunque perché “ovunque” era sempre giusto per schiacciare un pisolino ma soprattutto “ovunque” era il posto giusto per bere e per dimenticare.
E fu sempre con loro che si ritrovò a scoprire i sogni artificiali, quelli ottenuti con gli stupefacenti e diavolo se erano vividi e reali, diavolo se gli erano mancati! Basta con menate, basta con ricordi troppo dolorosi: una pastiglia prima di andare a letto, uno zuccherino la mattina e della polvere in giornata e tutto andava estremamente bene come mai era andato prima.
Non c’era lametta che non potesse placare dolore, non c’era ferita che non potesse sanare tutto quel male che si portava dentro e prima che potesse realizzare tutto, la situazione gli era sfuggita di mano. Completamente ricoperto di cicatrici, la lametta incideva la pelle già martoriata creandone di nuove. L’accendino o la sigaretta bruciava quel quadrato di pelle che era rimasto intatto e quando tutto quello non bastava più, bastava infilarsi nel letto di Deris e lui sì che gli faceva dimenticare tutto.
Bastava affrontare una giornata per volta.
E non importava che la gente li definisse tossici, alcolizzati o delinquenti perché a nessuno interessava veramente. Stavano bene insieme ed era quello l’importante. Tutto il resto veniva dopo.
Stando con loro Emis si era ripreso un attimo: rimase sempre magro sfinito, ma si ritagliò i capelli, nel suo solito taglio ribelle e sbarazzino, li ritinse di nero, facendoli diventare lucidi e bellissimi e si comprò un nuovo paio di lenti a contatto nere da tenere costantemente su. Con i vestiti nuovi e non più strappati, sempre a maniche rigorosamente lunghe per coprire le cicatrici, la carnagione ormai diventata bianchissima e pallida, poteva quasi sembrare un modello appena uscito da qualche agenzia. Certo, se ci si fermava a guardarlo meglio si vedeva il suo lato malato e malsano ma per chiunque lo guardasse così, a cuor leggero, era semplicemente un ragazzo perfetto.
Anche il carattere cambiò radicalmente: imparò a chiudersi in se stesso, respingendo chiunque e schernendo tutti quelli che cercavano di avvicinarglisi con l’ironia e senza mettere un filtro tra ciò che pensava e ciò che diceva. L’unico con cui si apriva un po’ di più era Deris ma anche con lui rimaneva sempre molto distaccato, seppur riconoscente per quello che aveva fatto per lui.

Quella mattina era in giro senza un motivo preciso. Semplicemente non aveva voglia di stare in casa e girare quando nessuno era in giro era la cosa migliore.
Con la sigaretta tra le dita sottili e coperte fino alle nocche da una maglietta nera, si era seduto sul marciapiede ad aspettare che il tempo passasse, così, a vuoto.
Non si sentiva felice, al contrario, ma sorrideva sempre e comunque, perché ormai aveva capito l’unica regola del gioco e l’aveva capita in fretta: se mostravi alla gente quanto soffrivi, quanto faceva male, era finita.
Come diceva sempre Emis, si soffre da soli, dentro una stanza vuota, al buio, per non guardarti mentre muori.
In fondo è giusto così.

   
 
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