Basata
sul seguente prompt (per cui ringrazio ancora la Fede, spacciatrice
universale di angst): Charles/Erik,
tre anni dopo XMFC (e otto prima di DOFP): 'If someone said three years
from now / you'd be long gone / I'd stand up and punch them out /
'cause they're all wrong and / that last kiss I'll cherish / until we
meet again / and time makes it harder'.
Un grazie enorme e speciale anche a Elena, in assoluto la migliore
beta-reader – nonché amica a distanza – che si possa desiderare ♥
Per ulteriori note, ci rivediamo alla fine!
Haunt (to old happenings and things that are done).
Charles
si sveglia in una mattina di fine ottobre, e semplicemente sa.
Non ha bisogno di consultare il calendario (necessità che in ogni caso
non avverte più da molto) o chiedere a Hank: il tempo sarà anche
diventato un concetto vago in cui ogni giorno scorre via uguale al
precedente, eppure certi giorni sembrano fatti per rimanere addosso
come cicatrici, ossa fratturate che tornano a far male prima di uno
scrollone di pioggia. In quei casi non c'è volontà che tenga. E Charles
si sveglia e lo sente nel petto, nella rigidità insensibile delle
gambe, in un punto impreciso della testa – è arrivato. È quel giorno.
Sono passati tre anni.
*
“Hai
un aspetto terrificante.”
Un po' perché la mancanza di sonno lo rende incline a trasalire con
facilità a ogni suono, un po' perché l'altro è apparso sulla soglia
della cucina senza il minimo rumore ad annunciarlo, Charles sobbalza
nell'udire la voce di Erik, mancando per un soffio lo spigolo della
dispensa.
“Buongiorno a te” replica in un mugugno, massaggiandosi le palpebre tra
pollice e indice. “Non sei stato tu a dover ripulire fino a notte fonda
il disastro che Alex ha lasciato nel seminterrato.”
Il lampo di divertimento negli occhi di Erik dura poco, subito
rimpiazzato da un'espressione più aspra. “Avresti dovuto lasciare che
fosse lui a farlo. Allenarsi senza responsabilizzarsi non basta. Questi
ragazzi sono abbastanza cresciuti per rimediare ai loro danni.”
“E io sono abbastanza certo che questo orario non sia appropriato per
affrontare certi discorsi, Erik” risponde Charles, soffocando in uno
sbadiglio il suo nome e aprendo ante a caso in cerca di qualcosa che
non riesce a trovare.
“Sembra che tu abbia bisogno di un caffè.”
“Decisamente, ma non-”
“Siediti. Faccio io.”
Senza lasciargli il tempo di replicare, Erik si limita a muovere un
dito; uno sportello si apre e si chiude, e la caffettiera è lì sul
ripiano cucina, pronta ad essere riempita. Nel vederlo poi trafficare
in cerca del caffè macinato e del resto dell'occorrente, apparentemente
non intenzionato a utilizzare oltre i propri poteri, Charles non riesce
a trattenersi: “Non usi i-” inizia, ma Erik lo interrompe alzando gli
occhi al cielo:
“Charles. Ho detto siediti. Non ti farò esplodere la cucina.”
Sorridendo alla punta di esasperazione nel suo tono e alzando le mani
senza dire una parola, Charles obbedisce. In effetti è stanco fin nelle
ossa, e qualche minuto di riposo prima che tutta la casa si risvegli e
una nuova giornata dai ritmi serrati abbia inizio non è un'opzione
spiacevole. Per alcuni istanti si gode l'atmosfera distesa della
cucina, l'alba che lascia il posto al giorno entrando dalle finestre in
forma di un sole insolito per quel periodo dell'anno, la calma che
proviene dall'intera tenuta ancora addormentata e – soprattutto – dalla
mente di Erik. Charles percepisce la sua coscienza senza essere
intrusivo, sfiorandola appena per un riflesso involontario della
propria mutazione e ritraendosi quasi subito, e ciò che avverte è
qualcosa che Erik non aveva ancora manifestato prima. Qualcosa che non
è serenità, ma che a suo modo vi si avvicina – una quiete placida, come
di un mare reduce dalla tempesta. Il cielo che lo sovrasta non è ancora
rischiarato, eppure i tumulti peggiori sembrano essere passati.
Il mento poggiato sul palmo della mano, Charles si ritrova a sorridere
alla finestra.
“Forse hai ragione”, concede. “Forse sono un po' troppo indulgente coi
ragazzi.”
“Non era mia intenzione mettere in dubbio i tuoi metodi. Stanno
funzionando, dopotutto” risponde Erik dopo una breve esitazione. “Ma
sai che se posso darti un consiglio, lo faccio volentieri.”
“Lo so. E lo apprezzo molto.”
Charles non ha bisogno di voltarsi per avere la certezza che anche Erik
abbia abbozzato un sorriso. Ciò che non si aspetta è quello che gli
sente dire subito dopo.
“Non lo facevo da tempo.”
Sulle prime Charles non capisce, ed è solo il rumore del filtro che
inizia a gorgogliare a dare un senso a quelle parole, sospese a metà
tra una spiegazione e una giustificazione.
Una casa. Una routine. Uno scopo. Qualcuno con cui condividere cose che
forse nessun altro capirebbe – idee, debolezze, dubbi, obiettivi. E
perché no, magari anche qualche istante di pace in cucina all'inizio
della giornata.
Se solo poche settimane prima gli avessero detto che di lì a poco la
sua casa – sempre troppo grande e sempre troppo vuota – si sarebbe
popolata di una squadra di giovani mutanti, di un'agente della CIA e
della persona a sé più affine incontrata in una vita intera, non ci
avrebbe creduto. Se ora gli dicessero che tutto questo è destinato a
non funzionare, ci crederebbe ancora meno.
Alle sue spalle, Erik è alle prese con tazze e cucchiaini.
Charles deve praticamente affondare il viso nella mano per impedirsi di
sorridere ancora di più.
*
Erano
state giornate di fatica e sudore, ma anche di gratificazione e di
successi. La fiducia e l'ottimismo che l'avevano animato in quella
settimana erano qualcosa che non aveva più provato con tale intensità.
A Cuba le sorti del mondo erano appese a un filo, ma lì, in
quell'angolo di mondo che finalmente poteva condividere con qualcun
altro, Charles credeva fermamente nelle possibilità di tutti loro. E in
Erik, che si era lasciato guidare e l'aveva guidato a sua volta.
Poi la realtà aveva di nuovo fatto irruzione nelle loro vite,
mettendoli di fronte alla prova per cui si erano preparati così
duramente. E anche allora, malgrado tutto, Charles aveva creduto di non
avere abbastanza motivi per pensare che qualcosa potesse andare per il
verso sbagliato.
*
“Vai,
forza. Ti prometto che non ci farà precipitare.”
Con una pacca e un cenno di incoraggiamento, Charles osserva Banshee
salire riluttante la scaletta dell'aereo di Hank. I ragazzi sono già
tutti a bordo – mancano solo lui e Erik, che si accinge a salire a sua
volta.
“Erik?” La voce gli esce molto meno distaccata di quanto vorrebbe. “Hai
un attimo?”
Già con un piede sul secondo gradino, Erik si volta e lo guarda. Poi,
allargando le braccia, gli scocca un sorriso beffardo. “Credevo non me
l'avresti mai chiesto. È da stamattina che mi parli a monosillabi, e
non mi dispiacerebbe saperne il motivo” sottolinea, scendendo dalla
scaletta.
Qualcosa nella sua voce, qualcosa di fastidiosamente canzonatorio,
unito alla tensione generale e alla notte passata in bianco, fa
scattare Charles. Il discorso che ha abbozzato dentro la propria testa
nel corso della mattinata è dimenticato in un attimo, e le parole che
gli escono dalla bocca non sono quelle che aveva programmato.
“Che è successo tra te e Raven?”
Non ha neppure finito di pronunciare il nome di lei che si ritrova a
chiudere gli occhi e scuotere la testa, come se ciò potesse cancellare
quanto appena detto. “Voglio dire, non intendevo, non...” aggiunge in
tutta fretta, alzando appena una mano come per bloccare ogni cosa – ma
Erik è lì davanti a lui, e a giudicare dal modo in cui il suo ghigno si
è allargato ha ovviamente deciso di cogliere solo il lato equivoco
della domanda.
“Charles, non stiamo per affrontare questo discorso, vero? Il mondo è
sull'orlo della terza guerra mondiale e tu pensi di poterti permettere
di fare il ge-”
“Non-dirlo”, sibila Charles, che – superato il
momento iniziale in cui avrebbe voluto strapparsi la lingua a mani nude
– sta riacquistando il controllo della situazione. “Sai benissimo cosa
intendo. E proprio perché esiste la possibilità che scoppi una guerra
non posso permettere che tu le metta strane idee in testa e... e-”
“E?” lo incalza Erik. Sulle sue labbra serrate non c'è più traccia del
sorriso di poco prima, e Charles quasi rabbrividisce nel constatare
quanto glaciali e privi di ogni emozione sembrino in quel momento i
suoi occhi.
“...e rischi di rovinare tutto” sospira, come liberandosi di un peso.
“Non è che non mi fidi di te, Erik” precisa, prima che l'altro possa
travisare di nuovo le sue parole, “ma siamo in una situazione
delicatissima, e non puoi biasimarmi se ho bisogno di... certezze.”
Il silenzio di Erik sembra durare in eterno. “Cosa vuoi che faccia?”
chiede infine. La sua voce non è rabbiosa né fredda – solo piatta.
Improvvisamente, Charles si sente spossato. Il peso degli ultimi giorni
gli si riversa addosso in blocco, e per un tremendo istante sente
vacillare ogni sicurezza. Nessuno gli garantisce che Erik o chi per lui
non manderà all'aria ogni cosa – nessuno gli garantisce che ciò che
hanno basterà a tenerli fianco a fianco fino alla fine. “Non lo so,
davvero, non lo so...”
“Vuoi entrare nella mia mente?”
“No!”, Charles quasi sbotta, “sai che non lo farei mai a meno che non
sia necessario, e non voglio che sia necessario ora,
ma ti prego di capirmi, stiamo andando incontro a qualcosa che potrebbe
essere fatale e... Erik?”
A furia di gesticolare e parlare a raffica, Charles non si è accorto di
quanto Erik si sia avvicinato. E di come la propria posizione, con la
schiena poggiata contro il corrimano della scaletta, non offra grandi
scappatoie.
“Erik?” ripete, ed è come se l'altro colga i suoi pensieri – buffo, non
dovrebbe essere il contrario? – perché allunga un braccio
verso il corrimano metallico intrappolandolo praticamente tra il
proprio corpo e la scaletta.
“Charles.” Adesso torreggia su di lui, e Charles può sentire
distintamente il suo respiro sul viso.
“Cosa stai...” inizia in un soffio, ma di nuovo, Erik lo precede.
“Cerco di convincerti.”
La sua fronte tocca quella di Charles e per un momento Erik indugia su
quel contatto, sfiorandogli la punta del naso con la propria. Charles
asseconda d'istinto il movimento, gli occhi semichiusi, eppure non
crede sia il momento adatto, non crede sia giusto dare a Erik
l'impressione di potersela cavare con così poco. Deve attingere a tutta
la determinazione rimastagli per mettere in fila poche parole.
“Erik, se pensi che-”
“Mein Gott, Charles, sta' zitto.”
Se c'è una lezione che Charles continua a non imparare è quella
sull'imprevedibilità di Erik. Perché quando si aspetta che faccia una
cosa lui puntualmente ne fa un'altra che c'entra ben poco, se non
addirittura niente. E quindi il fatto che, mantenendo quella distanza
millimetrica dal suo viso, gli prenda una mano e se la porti alla
tempia, è qualcosa che lascia basito Charles – almeno fino a che nella
sua testa non balena una specie di esplosione.
I pensieri di Erik lo investono come un torrente – immagini, luci,
colori in cui Charles non tarda a trovare un denominatore comune: se
stesso. Sono stralci di quell'ultimo periodo, così breve, a pensarci
razionalmente, eppure così simile a un'eternità per tutti gli
avvenimenti che vi si sono susseguiti. Ricordi che Charles conosce
bene, perché nelle settimane passate non c'è stato giorno che abbiano
trascorso separati, ma che al tempo stesso ora gli appaiono del tutto
nuovi perché visti attraverso una prospettiva che non è più la sua,
bensì quella di Erik.
C'è davvero ogni cosa, dalla sensazione di spaesamento e diffidenza
dopo il loro primo, turbolento incontro, alla presa di coscienza di non
essere più solo; e poi una successione vorticosa di incertezza,
vulnerabilità, eccitazione, desiderio, fino ad arrivare al momento in
cui Charles l'aveva visto più esposto e fragile che mai – dopo aver
spostato quella parabola, quando Erik l'aveva rincorso sotto il portico
prima di rientrare in casa e, ancora trafelato e scosso da quanto era
appena riuscito a fare, l'aveva afferrato e baciato fino a lasciare
entrambi senza respiro. Quest'ultima immagine è la più intensa e vivida
di tutte, forse perché legata al momento in cui, al di là delle
declinazioni molto più fisiche assunte dal loro rapporto negli ultimi
giorni, si sono toccati per
davvero, e nel modo più completo.
Charles assorbe quella piena di emozioni con lentezza, cura, rispetto,
perché in esse è racchiuso qualcosa di preziosissimo – l'umanità di
Erik. E non importa che i suoi ricordi siano filtrati, che Erik stia
tralasciando il lato più grigio di sé per mostrargli solamente ciò che
vuole: quello che Charles sta vedendo è sincero ai limiti del
disarmante, come un pezzo di anima messo a nudo.
L'ultima visione si dissolve, e solo allora Charles – a metà tra
l'elettrizzato e lo sconvolto per aver appena visto se stesso
attraverso gli occhi di Erik – si accorge di stare tenendogli il viso
con entrambe le mani, come se avesse paura di recidere quel legame. Di
nuovo, neanche avesse assimilato parte della sua mutazione, Erik sembra
leggergli nel pensiero – nel liberarsi dalla sua presa gli sfiora per
pochi istanti le labbra con le proprie, come a mitigare il distacco.
Il modo in cui si ricompone è di una rapidità sorprendente. Tenendolo
ancora per gli avambracci fa un passo indietro e lo scruta stringendo
appena le palpebre, mentre Charles è ancora concentrato sul proprio
battito accelerato.
“Spero sia stato sufficiente” è tutto ciò che dice. E senza aggiungere
altro lo oltrepassa, sale la scaletta e sparisce all'interno dell'aereo.
Ancora appoggiato al corrimano, Charles si passa una mano nei capelli e
respira profondamente. Contando fino a cinque, poi fino a dieci, si
chiede se lo sia davvero – se il modo in cui Erik lo percepisce, e
percepisce loro due insieme, possa bastare a soprassedere su quelle
divergenze di fondo che fino alla sera precedente non sono riusciti ad
appianare.
Arrivato a venti, e con Alex che si affaccia per chiedergli
“Professore, ci ha ripensato?”, la convinzione che sia stato non solo
sufficiente, ma anche più di quanto potesse sperare, non ha vacillato
neanche un po'.
*
Ripensare
al se stesso di tre anni prima è un'esperienza ogni volta alienante –
gli sembra di stare invadendo i ricordi di una vita che non gli
appartiene, di una persona con cui conserva in comune solamente
l'aspetto. All'iniziale sensazione di straniamento si sostituisce poi
una pietà che spesso sfocia nel disprezzo – Charles trova l'ingenuità
del suo vecchio sé patetica, nauseante.
Se quel giorno, salendo su quell'aereo, gli avessero detto che di lì a
poche ore una pallottola alla base della schiena gli avrebbe tolto
l'uso delle gambe, forse ci avrebbe creduto, considerando a cosa
stavano andando incontro. Se poi avessero aggiunto che su una spiaggia
scampata a una pioggia di missili la sua strada e quella di Erik si
sarebbero divise per sempre, a quello non avrebbe creduto neppure per
un attimo.
E intanto, sono passati esattamente tre anni.
*
“Professore,
se preferisce possiamo annullare la sua prossima lezione.”
La notizia della cattura di Erik Lehnsherr è trapelata da poche ore, e
già nella scuola non si parla d'altro. I media stanno facendo il
possibile per tenere sotto controllo la diffusione dell'accaduto,
poiché in un clima di isteria collettiva già gestita a stento quella
sarebbe la classica goccia che fa traboccare il vaso; ma a dispetto di
ciò tra i mutanti la notizia non ha tardato a espandersi a macchia
d'olio, e parole come 'pallottola' e 'traiettoria deviata' sono sulla
bocca di tutti. L'accusa con cui Lehnsherr (ora meglio noto
nell'ambiente come Magneto) è attualmente tenuto sotto chiave è quella
di essere responsabile dell'assassinio del Presidente Kennedy, avvenuto
da poche settimane; tra le mura della scuola non c'è un solo studente
che non abbia espresso o non stia esprimendo il proprio parere a
riguardo.
Charles lo sa: non ha bisogno di vederli parlare, perché le loro voci
sono tutte nella sua testa. Sente ciascuno di loro, dai novellini ai
più grandi, emettere sentenze e giudizi sull'argomento, ed è consumato
da due forze contrapposte – una che, se assecondata, lo spingerebbe a
scrollarli uno per uno e gridare loro che non ne sanno niente e che
farebbero bene a tacere, perché non l'hanno mai conosciuto; l'altra
che, simile a un ronzio insistente e subdolo, gli suggerisce che è
stato lui ad aver commesso l'errore più madornale della propria vita
nell'illudersi di aver non solo conosciuto, ma addirittura capito, Erik
Lehnsherr.
È solo per sfuggire temporaneamente a quel conflitto e zittire quelle
voci, e non certo per risolutezza o per un'improvvisa reviviscenza
dell'ottimismo posseduto un tempo, che si spinge con la sedia a rotelle
fino all'uscita dello studio.
“Ti ringrazio, Hank, ma non credo ce ne sarà bisogno.”
*
Da
un punto di vista prettamente numerico, tre anni corrispondono a poco
più di mille giorni, che paragonati all'intero arco di una vita sono
una fetta magari non insignificante, ma comunque di rilevanza limitata.
Non nel suo caso.
Tre anni fa Charles Xavier, ambizioso e visionario come la sua giovane
età in qualche modo esigeva, aveva tutto: una famiglia, degli ideali,
un progetto. Oggi quel tutto gli è scivolato via dalle dita pezzo dopo
pezzo – le gambe, Raven, i suoi studenti, la scuola decimata da
quell'inutile guerra combattuta dall'altra parte del mondo.
Erik.
(“Io ti voglio al mio fianco. Vogliamo la stessa cosa.”)
Si millantano grandi storie sui poteri curativi del tempo, ma la verità
è che per Charles il tempo non ha fatto che allargare e infettare
ferite già profonde. Gli anni non hanno riempito i vuoti lasciati nella
sua vita, né l'hanno fatto camminare di nuovo o hanno smorzato le voci
nella sua testa.
(“Spero sia stato sufficiente.”)
Gli anni non gli hanno restituito Erik.
(“Cerco di convincerti.”)
E Charles si rivede ancora, prima di salire sull'aereo in quella
mattina di fine ottobre del 1962 – pieno di fiducia e speranza, perché
non vi era nulla di certo nell'immediato futuro, ma ciò che Erik gli
aveva appena mostrato poteva bastare. Charles si rivede e si odia: odia
il vecchio sé, così ottimista da rasentare quasi l'arrogante (forse su
quello Erik aveva sempre avuto ragione), e odia il sé presente, perché
nonostante tutto non riesce a lasciare andare quel momento,
quell'ultimo ricordo perfetto prima che il suo mondo iniziasse ad
andare in pezzi.
Sono passati esattamente tre anni e oggi, puntellandosi sui gomiti per
compensare il peso morto delle proprie gambe, Charles si tira a sedere
sul letto. Gli sarebbe d'aiuto pensare che il gesto con cui si porta la
mano alla tempia sia deciso e fermo, ma la verità è che il tremito
delle dita è innegabile, spia di una volontà che ancora vacilla, di un
cuore che ancora non riesce a rinnegare ogni cosa.
Hank appare sulla soglia della porta dopo neanche mezzo minuto,
strizzando appena gli occhi dietro le lenti.
“Charles, mi hai chiamato?”
Grato alla penombra della stanza che impedisce al ragazzo di mettere a
fuoco la sua espressione, Charles annuisce.
(“Che cosa sai di me?”
“Tutto.”)
“Hank, sono pronto a cominciare la cura.”
____
...aaaaand this is it. Mioddio, sono troppo in agitazione perché non scrivevo da mesi e c'è voluto un po' per grattar via la ruggine, ma alla fine sono riuscita a partorire la creatura qui presente. Yay me!
Solo alcune precisazioni:
1)
spero di non aver cannato date e continuity temporale (ma ehi, anche se
fosse sono giustificata, visto che nei film stessi – e soprattutto dopo
DOFP – non è un concetto proprio trasparente);
2) NON HO LA MINIMA IDEA DEL SE E DEL COME FACESSERO IL CAFFÉ IN
AMERICA NEI 60s, OKAY XDDDD, quindi mi sono mantenuta abbastanza sul
vago. Al massimo mi sarò presa qualche licenza poetica;
3) la prossima volta che decido di scrivere una fanfiction con
l'intento di esorcizzare i feelings, FERMATEMI. Dico davvero. Dovrei
aver imparato da esperienze precedenti, e invece continuo a sbatterci
la testa: ogni volta parto in tromba dicendomi che scrivere di cose che
amo e che al tempo stesso mi fanno soffrire sarà come attraversare una
specie di catarsi spirituale, e ogni volta ciò che ottengo dopo aver
messo la parola fine è ancora più angst. Masochismo is the way, I guess;
4) il prompt è un verso di Who Knew di Pink; il titolo invece è tratto
da Haunt dei Bastille, CHE DOVETE ASCOLTARE TUTTI PERCHÉ BELLISSIMA E
IMMENSAMENTE CHERIK.
E con questo è davvero tutto e posso tornarmene a morire d'amore per questi due e magari a plottare già altro angst. Commenti, consigli, pomodori marci – qui si accetta (più o meno) di tutto.
Alla
prossima ♥
Lou.