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Autore: kanagawa    09/06/2014    1 recensioni
L'infanzia di Kenji
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kenji Fujima
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il giornale recava la data del 24 maggio 1982.
Una mano frettolosa eluse le testate di cronaca mondiale sulle recenti tensioni in Libano, accantonando le sfumature celate tra le righe di un imminente conflitto civile, portò lo sguardo sulla pagina sportiva:

BEAT L.A. sugli spalti del Garden. La sconfitta dei Celtics a 106/120 per mano del Philadelphia. Red Auerbach: sono orgoglioso di questa squadra. Non ho dimenticato le 63 vittorie, e so che in una serie o in una partita può accadere di tutto. Però nessuno può accusarci di aver perso la gara che contava: in passato ne abbiamo vinte tante, di quelle.”

Sospirò e chiuse il giornale.
-Siamo arrivati, signore.- L’autista gli fece il segno picchiettando le nocche sul plexiglass del divisore.
Lui pagò la corsa e scese.
Dolce e inebriante, una nota di glicine inondò la sua figura elegantemente dismesso dal fuso orario. Dalle narici risalì fino allo specchio sinestetico della memoria. Evanescente, si diluiva nell’aria della sera estiva: aroma di casa.
-Tadaima! - Si annunciò sulla soglia.
Una donna uscì dal varco che dava sulla stanza accanto. Sollevò una striscia di tenda noren che celava le attività della cucina al crepuscolo e si affacciò. Un paio di Jeans scuri e una maglietta bianca. La sobria bellezza di Mifune Fujima, riassunta nel delicato nodo del grembiule che le cingeva la vita, si intrecciò a un sorriso alleviando la spossatezza del marito.
-Bentornato, Takehiko.-
Lui scaricò la valigia e arieggiò intonando un acuta delusione, mentre si levava il soprabito. - I Celtics hanno perso…-   La signora Fujima accolse i suoi indumenti e le sue cattive novelle, indugiando su una piega ironica della bocca. -Tre mesi che non ti vedo e la prima cosa che mi dici è sul basket?-
Il marito rise rinnegando il dispiacere. –Perdonami, cara … Ma è più forte di me!-
Si voltò lei, mentre ritornava ai fornelli allertata dal fischio del bollitore d’acqua. –Non sei l’unico in questa casa … -
Lui affondò la testa mora nella fessura delle tende alte, seguendo la figura che l’aveva preceduto. –Di chi parli?-
La moglie non gli degnò di uno sguardo, spegnendo velocemente il fuoco sotto la pentola del miso. Le mani agili passarono alle verdure sul tagliere, riprendendo il ritmo dell’azione che aveva interrotto poco prima. La sua voce giunse tra il rumore degli intervalli repentini della lama.
- Kenji! Chi altro, se no?-
Gli occhi socchiusi teneramente, Takehiko sorrise. -Capisco. Allora ti devo chiedere scusa sul serio.-
Il figlio di Takehiko aveva quasi 7 anni. Un bambino sveglio ed educato, come attestato nella sua prima pagella.
Prima di partire per l’ennesimo viaggio d’affari, un po’ di tempo fa, il padre gli aveva concesso le cassette delle partite della NBA tanto agognate, che lui collezionava fin da giovane. Non sapeva quando fosse cominciata e come fosse nata quell’insolita fissazione del figlio. Un giorno scese in salotto e si ritrovò Kenji, torreggiante nella risolutezza dei suoi 65 cm, che lo impuntava ostinato per poter avere accesso ai preziosi video di basket. Si era meravigliato, anche se non gli dispiacque affatto.
Suo figlio non era mai stato “atletico” ai suoi occhi, e quella passione improvvisa non trovava dunque retroscena logica.

Kenji …

Era gracile, un’essenza eterea.
Dopo una nascita travagliata, i genitori gli diedero questo nome come fosse un amuleto divinatorio, proteggendolo dalla sua immanente fragilità e profetizzando la forza del suo divenire.
Un viso delicato che si scioglieva nel pallore dell’epidermide immacolata. I capelli serici ereditati dalla madre, avevano una lieve sfumatura occidentale; così come quegli occhi blu, che si stagliavano profondi, divergendo quell’acerba temperanza dalla dolcezza dei lineamenti giapponesi.
Un sospiro labile che fremeva accanto a un fuoco celato …

-Takehiko.- Lo chiamò nuovamente la moglie. –Capisco che tu sia appena tornato, ma ti dispiacerebbe andare a cercare Kenji? È quasi ora di cena … - Fece lei, accigliandosi lievemente. Lui sollevò lo sguardo dal resoconto dell’ultima stagione di basket americano.
–Ma come? Non è ancora tornato?- Mifune gli picchiettò il mestolo su una spalla, con aria accusatoria. –Prima, almeno, se ne stava incollato allo schermo, e trafficava con i tuoi video in casa. Ma ultimamente, se ne va chissà dove … -
Suo marito guardò il lucernario sbuffando accondiscendente. -Vado.-

Fujima vagò un po’ intorno al quartiere residenziale. Nei pressi non c’erano parchi per bambini, essendo una zona di antico assetto architettonico, perciò si diresse verso le strade principali nella speranza di incrociare i passi del figlio.
La luce stava calando tra i bagliori di una nuova oscurità. Ma lui non era in ansia, nonostante l’apparenza delicata e ingenua, confidava nell’innato giudizio del figlio. Rammentando, tuttavia, una dovuta ramanzina paterna, girò a un angolo ricoperto da una fitta siepe.
Tonfi leggeri. Una rete di metallo che strideva. Dei passi veloci che laceravano striscianti l’udito: scarpe da basket sul cemento di un campo recintato.
Takehiko sostò accanto ad osservare quei ragazzi. Non erano molto abili, né molto alti. Probabilmente dei germogli appena promossi a matricole delle scuole superiori. Sorrise nostalgico alla loro tenace goffaggine, rievocando i ricordi di un lontano se stesso perseverante nella stessa passione.
Dall’altra parte del campo, notò una piccola figura immobile. Se ne stava con lo sguardo fisso a mirare le performance dei giovani atleti, ma sembrava assente. Gli occhi blu scuro che volavano lontani …
Li aveva scorti solo poche volte. Eppure in quei rari frangenti, quando lo sorprendeva in quello stato di estasi incarnata, riusciva a intuire i vasti orizzonti che il suo sguardo sfiorava.
Suo figlio, cascato fortuitamente tra le braccia di un inatteso genitore, era certamente una creatura passeggera di questo mondo.
Un corpo esile e un’essenza effimera che risuonavano allarmando dolorosamente la coscienza del padre.
Takehiko lo aveva sempre difeso, dalle intemperie del mondo e dall’ineffabile Fato, timoroso che quella piccola fiamma potesse un giorno spegnersi tra i sospiri della vita.
Ma accanto a quel cosciente patimento, sapeva a quale dimensione apparteneva Kenji.
Ne poteva mirare solo gli angoli smussati, della visione di quel bambino. Dispiegate al di là di ciò che le ingenue parole erano incapaci di descrivere, quelle terre aeriformi erano calpestate solo dai suoi piedi.

Cosa intravedevano i suoi occhi, ora? Si chiese lui …
Forse era un campo di basket, o forse le mani che intrecciavano la palla rossa sfuggente in aria …

In lui, il padre percepì, stavano sorgendo le vibrazioni di un desiderio.

 


 

Lay down your head and I'll sing you a lullaby
Back to the years of loo-li lai-lay
And I'll sing you to sleep and I'll sing you tomorrow
Bless you with love for the road that you go


May you sail far to the far fields of  fortune
With diamonds and pearls at your head and your feet
And may you need never to banish misfortune
May you find kindness in all that you meet

May there always be angels to watch over you
To guide you each step of the way
To guard you and keep you safe from all harm

May you bring love and may you bring happiness
Be loved in return to the end of your days
Now fall off to sleep, I'm not meaning to keep you
I'll just sit for a while and sing loo-li, lai-lay
(Secret Garden, Sleepsong)

 


 
 
Quando Toru conobbe Fujima, ne fu palesemente intimorito.
Un ragazzo di appena 12 anni, dal viso serafico. Una schiena silenziosa che gli sedeva davanti.
Ogni passo che compiva, nell’intangibile velo di eleganza, pareva smisuratamente studiato.
Retto in un equilibrio impossibile, levitando per i corridoi di un ordinario edificio scolastico. Il busto statico ormeggiava nell’oscillazione delle due fluide braccia, armoniose che seguivano la cadenza delle gambe, accarezzando l’attrito.
Più la rievocava e più quell’immagine sembrava sfuggirgli …
Una parola terribile gli lambiva la ragione: Perfezione.
Gli occhiali accanto alla goffaggine, Toru Hanagata non si poteva dire una cima. Erano altri tempi …
Osservando questo compagno di classe dalle movenze tanto dignitose da risultare quasi irridenti per un adolescente, non poté che rimanerne affascinato. Un fascino sublime che si insinuava nel territorio della paura.
Chissà quanto tempo passò a evitare quella schiena … Ore che si espandevano in giorni e in mesi.
Quando si iscrisse al club di basket della scuola, senza premonizioni, si ritrovò accanto a lui.
Testardamente attonito, non osò neppure dislocare lo sguardo dalla direzione frontale in cui si era inabissato.
Una voce nelle prossimità lo fece rinvenire.
-Sono Kenji Fujima, frequento il primo anno. È la prima volta che gioco in un club di basket. Posso contribuire come ala piccola o guardia.-
Ogni sillaba arditamente cucita nella determinazione della sintassi. Toru si rese conto di non aver mai considerato la sua voce, obiettivamente incassato nella propria tesi disdicente.

Quando esplose in campo, l’agilità di Fujima sciolse anche i suoi antecedenti.
Era veloce. Dio, se lo era …
Sempre un passo avanti, mentre sfrecciava, di lui Hanagata scorgeva solo i lampi abbaglianti sotto la chioma al vento.
Una fronte limpida, quando atterrò davanti a lui e rise spensierato.
-Hanagata-kun! Le tue pupille tra poco cascano fuori dalle orbite!-

“Hanagata-kun …”
Era finita.
Cadde, e soverchiò le sue avversità, completamente abbattuto dal disarmante cielo che l’etereo ragazzo portava con se.
Kenji gli passò quella palla rossa. Silenziosamente. Ed essa suggellò la loro amicizia.

Da allora erano passati cinque anni.
1.97 cm, Toru Hanagata. Lui era rimasto candidamente lo stesso, mentre Kenji era cambiato …
Una triste trama già ordita da tempo.
Fin da piccolo, Kenji era stato sottoposto all’imperativo della responsabilità.
Il padre, un uomo d’affari in continui pellegrinaggi di lavoro, era spesso assente. Le ombre della lontananza le aveva sempre scorte sul volto della madre. Come per risollevarne il peso, quel bambino prendeva su di se il carico emotivo della famiglia. Incurante della sua stessa fragilità, passo dopo passo, acquisì sempre più forza nelle avversità dei giorni.
1.78 cm, Kenji Fujima. Matricola rivelazione, numero 13. Playmaker, numero 9. Capitano, numero 4.
Allenatore. Il punto zero della scalata.
Ripida e sfolgorante, irrimediabilmente eresse lo “Shoyo di Fujima” sotto di se.
Un tempo consumato alla velocità della luce. La vita in un soffio.

Mentre lo osservava sul bordo del campo all’aperto avvolto dall’oscurità ridiscesa nel crepuscolo, Hanagata rintracciò i delicati lineamenti di quel primo Kenji che conobbe.
Le mani, che si erano irrobustite, serravano ostinatamente quella stessa palla da basket. Un singolo tassello dell’anima consunto che recava su di se i segni del tempo e delle passioni. E ora, stava registrando le vibrazioni della sua prima delusione.
Toru sorrise. Una piccola intermittenza del cuore.
Un tiro indicibilmente preciso. Un gesto infinito memorizzato nel suo corpo, ormai pienamente consapevole della propria latitudine nel mondo.
Da quando la prese in mano, 10 anni fa, in lui si era incendiata una volontà sconosciuta.
La posa della prima pietra scandita da una gioia innocente, il divenire di Kenji si legò a quel rosso.
Una mattina di giugno, Takehiko lo svegliò all’alba. Trascinandolo giù dal letto e rivestendolo con la costanza di un padre frettoloso, lo portò al campetto.
Kenji si stropicciò gli occhi assonnati, guardando con ostilità il padre che non proferiva spiegazione.
Lui aprì la borsa, e da lì estrasse una palla da basket.
Il bambino spalancò gli occhi, completamente sveglio.
Takehiko sorrise a quel viso dipinto dai colori esterrefatti del sole nascente.
-Dimmi, ti piacerebbe giocare a basket?-
Raccolse le sue parole concise e cominciò a palleggiare. Corse verso il canestro e spiccò in aria …
Il braccio scivolò vicino alla rete bianca.
La mano vigorosa schiacciò la palla nell’anello. Il tabellone tremò sotto il suo peso.
Kenji. Estasi.
Ormai disperso nel mare traboccante dei suoi occhi, in un’espressione che suo padre non dimenticò più negli anni a venire.
La bocca aperta, non per gridare, bensì per lasciar fuggire l’immane stupore.
Si inginocchiò davanti a lui e gli porse la palla rossa lucente. -Buon compleanno, Ken.-

Kenji accarezzò quella pelle ruvida, il segno scarlatto del suo nome inciso. Sorrise al padre.

-Voglio giocare a basket.-






 


Questa one-shot si ricollega al capitolo 13 "Il supplizio del tempo". (link incorporato) 


 
  
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