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Autore: francy91    14/08/2008    2 recensioni
Ciao a tutti! Questa storia sembrerebbe la vicenda di un amore qualunque, ma come può essere stabile il rapporto fra una dolce, tenera e leale ragazzina e uno scontroso, ironico e, tuttavia, bellissimo ragazzo? E' difficile seguire il proprio cuore e, fra ricordi, sogni e malintesi, un amore non può diventare sereno e stabile. Un nuovo Shaoran, moooolto strano! Se volete saperne di più, leggete e commentate anche negativamente! :)
Genere: Commedia, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un pò tutti
Note: OOC, What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Senza nome 1

Devo essere saggia, non posso fare tutto per conto mio e lasciare che la natura faccia il suo corso… O forse sì?

Mi sfilai reggiseno e mutandine ed entrai con un brivido nell’acqua gelida, apparentemente lattea, dato che rivelava il colore della vasca.

Perché voler ritornare al passato? Non è la stessa mania che mi ha dilaniata, quella spietata nostalgia di innocenza? È poi così diversa? È pur sempre una brama di passato…

L’acqua gelida ribolliva sulla mia epidermide sottoforma di pelle d’oca. La schiena non ancora bagnata dal candido liquido si incurvò quando il freddo raggiunse l’addome, facendo contrarre improvvisamente gli addominali.

… Cos’è in fondo il passato? Non è ciò che siamo? E il futuro non è ciò che saremo?

Con immane fatica mi azzardai ad immergere la schiena nell’acqua ghiacciata, piano piano, con estrema ed estenuante lentezza, contando i centimetri di pelle asciutta mancanti, mentre le gambe già si erano abituate al gelo… o a tal punto desensibilizzate da non poterne più percepire la consistenza.

Noi siamo le decorazioni del passato e l’impalcatura del futuro. Quindi, secondo tale ragionamento, questo mio desiderio sarebbe giustificato. Oh no, anche la ragione è dalla mia parte… Per una volta che istinto e ragione concordano, ecco che la coscienza e il senno di poi coprono il cielo, le nuvole, il sole e le altre stelle con i loro corpi massicci, muscolosi, erculei. Due macisti inespugnabili e insormontabili.

Poggiai il capo sul bordo più alto della vasca e osservai le mattonelle che si disegnavano in figure squadrate e regolari dinnanzi a me, intenta a rilassare i muscoli irrigiditi dal freddo e dallo sforzo di non sentirlo.

Non posso ritornare a quel passato. Non posso ritornare a nessun passato: è sbagliato, amorale, incoerente, insoddisfacente. Oh, no, insoddisfacente proprio no: altrimenti come potrei anelare un atto così imbarazzante e sciocco?

Premetti con irruenza la pancia della bottiglia di bagnoschiuma per farle vomitare il fluido denso e trasparente che conteneva da quella bocca tonda, quasi un’espressione stupita e abbagliata.

Potrebbe anche essere insoddisfacente, perché no? Anche la mia vendetta lo è stata, sebbene fossi pazzamente certa che avrebbe magicamente risolto tutti miei problemi, che mi avrebbe riempita così smaniosamente di compiacimento da farmi morire in una poltiglia di sangue, schegge d’ossa e carne trita come un palloncino empio d’aria punto da un ragionevole spillo.

Qualche istante dopo della candida e glaciale schiuma mi incorniciava il viso come un cuscino di neve, paragone possibile più per il gelo che per la consistenza.

Ma che importanza ha? La vendetta era ingiusta, ma io la volevo e la vorrei anche ora se la ragione me l’avesse permesso. Ma che senso ha? La nostalgia del mio passato è uno spettro mai marginale, tutt’altro che trasparente, un’ombra che seguivo come una giovane cieca rapita dal buio. Un cielo terso e vuoto, solare e accecante, ceruleo e insignificante. Perché quale significato poteva assumere l’anelito di un passato distrutto e non con tanto rimpianto, non con l’immensa mestizia che mi sarei aspettata, non con la mordace correità negata. E allora? Devo far differenza fra un passato e l’altro? Che importanza ha? Che senso ha?

Ammirai i miei capelli castani diventare color mogano sotto la superficie dell’acqua, ormai quasi completamente coperta da morbidi e marcescibili iceberg di bollicine. L’odore tenue di menta penetrò prima il naso, poi lentamente mi sferzò e tagliò gli occhi come vetri affilati e defilati infilati con aggressività e impeto nelle mie lacrimanti pupille.

Non posso costringere ancora qualcuno a sottostare ai miei vani e superflui desideri. Non posso costringere  lui. È così semplice e, in fondo, è l’unico freno che posso intervallare fra ciò che avventatamente bramo e ciò di cui ragionevolmente – no, non ragionevolmente: il raziocinio mi sostiene strenuamente – , naturalmente necessito.

La spugna, pregna di acqua ghiacciata semitrasparente e bagnoschiuma in nette nuvole nevose, mi strofinava con la sua ruvida pelle gelida, lavando via e affievolendo ogni minimo accenno di pensiero, emozione, immagine, fantasia, ragionamento.

Non ero nulla, ero chiunque. Anonima in un mondo di personalità distratte e derubate, tradite e impaurite, nascoste e spavalde.

Neanche il freddo striava e levigava brutalmente le mie membrane senza nome, popolate da tanti altri esseri che forse possedevano un’anima incoerente, incompleta, solitaria, diversa, razionale, cinica, egoista, riformatrice come la mia. Ognuna viveva una propria piccola vita, minuscola, minima come la loro esigua dimensione, ma non per questo priva di significato. Ogni mia cellula, pur identica che fosse ad altre mille, era unica nella sua posizione, nella sua umile e nodale funzione, nells sua solitudine. Le cellule erano gli esseri – se così potevano essere chiamati – più introversi sulla faccia della Terra: non avevano bisogno di nessuno per amare, per odiare, semplicemente perché non sapevano farlo, non conoscevano la comunicazione; si riproducevano sperdutamente, senza bisogno di seconde entità: sacrificavano il loro corpo per crearne altri due, più giovani, più utili e sempre più prossimi alla morte.

Yamazaki mi sta contagiando…

Quell’unico pensiero mi fece sobbalzare, dopo il mortale silenzio che aveva trascritto i miei ragionamenti sull’aria viaggiatrice e volubile, facendoli volar via nel cielo, in quel regno vuoto e lugubre dove terminano le riflessioni perse, dimenticate, oscure, abbandonate senza un motivo o, semplicemente, gettate via dai loro proprietari dopo essere stati abusati sulle nuvole scomode e atemporali, destinate a morire in gocce di pioggia succulente per la fertile terra.

Le orecchie mi fischiavano con uno stridio roboante, così, appena finito di lavarmi il corpo e i capelli, mi alzai nella vasca con l’acqua che mi sfiorava le caviglie e uscii poggiando i piedi fradici sull’asciugamano immacolato che avevo precedentemente steso a terra.

Non posso mica chiedergli se è d’accordo… Sarebbe a dir poco squallido.

Come un boomerang, i pensieri che avevo accartocciato e cestinato nel cielo ritornarono, spiegati ma con i segni del mio abbandono. Nemmeno l’aria li accettava; ma non erano almeno migliori dei miei precedenti, insanguinati di vendetta e imbevuti di scorticante odio? Non li rinnegavo, ma li avevo comunque gettati via, in quanto non mi erano più utili e, inoltre, perché non volevo più contarne le pile incolonnate nel mio cervello, occupanti spazio prezioso ed eventualmente fruibile.

Voglio farlo.

Sospirai compatendomi e cercai di ricordare la causa scatenante di quel lungo monologo interiore riguardo all’eventualità di baciare ancora una volta Yamazaki, come era accaduto poco più di un mese prima: sebbene lo sforzo, non la visualizzai.

 

***

Bruciante. Cosa sarebbe potuto esserlo? Un fiore essiccato dalla furia di quel sole di cui si fidava, ma che l’aveva impietosamente distrutto? La sabbia che avvolgeva i venti di scirocco in un mezzogiorno estivo? Le lacrime di rabbia che rendevano le guance palpitanti, tremanti e scottanti di vergogna per quella temeraria proposta di penetrazione nel proprio animo? Le unghie che graffiavano il corpo altrui, indesiderato, troppo violento e pesante per essere scostato, assurdamente ponderoso nella sua bieca agilità? L’inferno che torvo attendeva i malvagi, intrappolato in una fantasia infantile e capricciosa di vendetta? L’immoralità che denudava l’umanità ai suoi stessi occhi come un uccello implume e incapace di volare, ignominia per sé stesso e per gli altri, vergogna della società, pudore violato, fonte sgorgante di fluido e denso imbarazzo, epifania dell’oscenità nascosta in ogni delicatezza vivente?

In quel momento l’unica cosa che bruciava erano le mie guance sotto un sole bollente, feroce, ferino e siderale. Basta illudersi: ero infiammata dal desiderio di baciarlo, di poter aggrapparmi e pendere dalle sue labbra e non riuscivo a evaderne.

Evadere, sì, se ce l’avessi fatta mi sarei sentita molto meglio e non avrei fantasticato languidamente di quella bocca che tanto bramavo… Oh, sto cadendo nell’erotico…

Meglio evadere anche da questo, decisamente: non mi era mai stato d’aiuto, benché fosse uno dei pochissimi ricordi piacevoli del fidanzamento con Shaoran di due anni prima che serbassi nei miei occhi e sulla mia pelle, sulla lingua e nel naso, nelle orecchie e… no, nell’anima no e nemmeno nel cuore. Solo sensi, importanti, ma mai e poi mai fondamentali.

Ma che senso aveva scivolare su quei viscidi viaggi mentali per distrarmi? Perché era nato quel maledetto desiderio?

Erano passati tre giorni dalla gita al mare, era domenica, una domenica opprimente come tutte le altre, decorata di fronzoli e volute per sembrare gradevole, ma sempre con lo stesso odore di aria viziata e cellophane rinsecchito nella spazzatura. Dopo aver fatto il bagno avevo deciso di fare una passeggiata con Yamazaki, come eravamo soliti durante le mattine di festività scolastica. Mi sarei recata io a casa sua perché a casa tua c’è Touya di mattina, vero?, aveva giustificato. In effetti cercava sempre in tutti i modi di evitare mio fratello, senza dubbio troppo iperprotettivo in un modo di cui non avevo affatto bisogno, ma che in realtà mi innervosiva e rendeva insicura, come una magnolia custodita e soffocata sotto una campana di cristallo. Insano.

Mi trovavo ancora in strada, ma entro pochi minuti sarei giunta presso quell’edificio di mattoni color magenta con finestre quadrate e persiane bianco panna che rappresentava la dimora di Yamazaki. Non vi ero mai entrata.

Fissai le automobili che mi fiancheggiavano, la loro tecnologica complessità e la precisa geometria che avrebbero sicuramente scatenato la fervida e sognante immaginazione del mio amico. Una risata sommessa mi fece sobbalzare e vibrare.

Il mio naso si arricciò all’acre e volgare odore dello smog, che galleggiava e levitava con innaturale grazia in leggere spirali verso le poche nuvole che increspavano il celeste, come schiuma candida di onde marine e saporite.

Oh, ma perché tentavo ancora di distrarmi concentrandomi sui miei sensi quando ciò che si trovava sulle rive di un torrente tumultuoso e tempestoso era la mia mente? Perché continuare a scostarmi bruscamente…? Assurdo che ci provassi ancora.

Tentai ancora una volta di capire da dove fosse sorto quell’irrefrenabile desiderio, quella voglia logorante e consumante che mi scalfiva con una violenza sorprendente. Un lampo strappò via, rapì quel ricordo da un buio tanto corposo quanto refrattario. Ora la memoria,prima offuscata dalla mia divorante bramosia, mi ripropose come un’estranea pellicola l’attimo in cui mi ero guardata allo specchio, prima di fare il bagno: quelle labbra carnose ma leggermente violacee, segmenti su un viso tondo, avevano a loro volta proiettato davanti al mio ignaro sguardo l’ultimo bacio, quello inflitto a Yamazaki nel giorno del mio diciottesimo compleanno. Niente di più sconvolgente, anche perché non avevo mai davvero riflettuto sul motivo di quel mio comportamento che ora mi sembrava completamente dissennato… almeno prima che questa scabrosa e irrecusabile voglia mi avvolgesse e stringesse nel suo abbraccio fin troppo umano per essere reale.

Percorsi al suono del lieve fruscio dei miei pantaloni il vialetto, anch’esso di mattoni, che portava all’economica porta dello stesso colore delle persiane.

Premetti con l’indice e il medio il tasto rosso del citofono meditando sull’acuto e stridulo urlo che ne derivò.

Volevo davvero farlo?

Niente di più certo.

Va bene, forse la domanda era già sbagliata sin dal principio: dovevo  proprio farlo? Non c’era modo di evitarlo?

Tutto vano: non poteva accadere altrimenti.

Rassegnata a me stessa, seguii con lo sguardo la porta aprirsi e salutai con un cenno della mano la figura che ne sgusciò appena mi accorsi che era proprio Yamazaki e non uno dei suoi due fratelli maggiori o genitori.

-Ehi.-, disse semplicemente con un sorriso sospirante, forse per la fretta con cui aveva sceso le scale.

Presi un respiro profondissimo e sospirai anch’io con il naso. Ci voltammo e cominciammo a incamminarci come sempre verso la nostra gelateria preferita, Kinokoshin, che si trovava accanto all’edificio scolastico.

-Scusami se ti ho costretta ad arrivare fin qui…-.

-… Ma sai quanto mi odi tuo fratello. Ho capito, non preoccuparti.-, terminai la frase per lui: era la stessa da un anno e mezzo: incredibile, se l’era appuntata da qualche parte per ricordarsela?

Si strinse nelle spalle e continuammo a camminare fra clacson caotici e penzolanti pini, su un marciapiede a mattonelle grigie e lastre bianco sporco ai margini, dove un maestoso cane color mandorlo ora saltellava dolcemente e fedelmente aggrappandosi alla stretta cintura del proprio padrone, dalla quale torreggiava imponente e trasbordava una pancia quasi sferica.

Un contatto inaspettato squarciò la mia placida osservazione e una mano avvolta attorno al mio polso mi strattonò verso destra con un’irruenza e un impeto impressionanti, o forse fu l’imprevedibilità a renderli tali a mio avviso.

-Se non stai attenta ti spacchi il setto nasale contro un palo. Sarebbe squallido, no? Insomma, è meglio avere il naso rotto per un pugno…-. Sorrise. Lo guardai ancora smarrita, mi voltai e notai il palo reggente un segnale di divieto di sosta che quasi avevo colpito, intenta nelle mie riflessioni riguardo al cane: era come me, si aggrappava capricciosamente al suo padrone, ricco di emozioni, fantasia, comprensione… Vivo, insomma. Capace di parlare, esprimersi con naturale semplicità: un dio, per quell’animale purtroppo costretto ad un mutismo soffocante, alla dipendenza e alla fedeltà per nutrirsi e sopravvivere.

Ero davvero questo? Che squallore misero e pesante…

Avrei voluto sciogliermi, infrangermi in miliardi di frammenti fini fino a non essere più rintracciabile, in nessun modo, in nessun mondo.

Continuammo a passeggiare e solo allora mi accorsi che la mano di Yamazaki era ancora calda attorno al mio immobile polso. Come un guinzaglio.

Lo fissai e lui se ne accorse qualche attimo dopo con la coda dell’occhio. Un dejà vu spalancò il suo surreale torpore sulla mia mente, ricordandomi con uno schiocco di dita del giorno in cui scoprii che Shaoran mi aveva sempre mentito, all’uscita da scuola, galleggianti in un inusuale silenzio… Sbarrai gli occhi e mi posai una mano sul petto, dove il cuore roteava pazzo, impaziente, senza limiti, spericolato, fragoroso.

Sto paragonando Shaoran a Yamazaki? Ma cosa…? Non credevo di essere tanto insicura da sovrapporre il vuoto al cielo, lo sporco alla catarsi, la vergogna alla gioia?

Chi mi avrebbe assicurato che Yamazaki sarebbe stato sempre fedele? Se si stancasse delle mie congetture contorte, dei miei penosi turbamenti non potrebbe far altro che abbandonarmi. Nient’altro.

Non sono mai stata così superficiale e frivola da credere che tutti i maschi fossero come Shaoran. E allora perché ora ho paura? Cosa temo?

Non paventavo il mondo maschile, solo Yamazaki. In un modo o nell’altro, ero sempre dipendente da qualcuno, questa era l’unica certezza.

Cosa potevo fare? Mi fidavo di lui, gli avevo raccontato tutto di me, ciò che pensavo e sentivo… a parte quella strana connessione che, nonostante tutti i solipsismi che avrei potuto instaurare, non mi sembrava affatto malsana. Almeno finché Yamazaki non mi avesse abbandonata.

Forse volerlo baciare si rivelava un altro segnale, un altro filo di questo legame distorto? Non avrei saputo dirlo, non avrei potuto, né voluto.

Lo osservai ancora con malcelata insistenza: le sottili labbra rosee sensibilmente socchiuse come la porta di una casa abbandonata… No: queste ultime ostentavano mistero e verginità per poi tacere fra le proprie pareti il più gretto, banale, stancante, monotono, polveroso, normale e fetido aroma nauseabondo di chiuso e passato. Yamazaki non era così, ne ero certa: lui era estremamente ricco, pieno senza empietà, colmo di ciò che ancora quasi non avevo gustato né odorato, un profumo e un sapore sublimi, delicati, eleganti e incisivi, indimenticabili, intensi.

Le sopracciglia sottili incoronavano gli occhi stretti e lunghi, quasi un taglio arabo, fine e marcato; i capelli mori applaudivano lievemente contro il capo ad ogni sbuffo noioso di vento, terminando su una nuca lucida e lattea, una curva sinuosa e sensuale che precipitava in una discesa arcuata sulla schiena stretta e perigliosa, liscia come un frammento di marmo fra sterpi e rovi spinosi.

Non potevo sopportare che un corpo così anonimo mi sfidasse attirandomi fino a quel punto.

È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente, rimuginai.

Come uno Zahir, quel pensiero, da essere una fioca eco nelle mie orecchie, divenne un urlo incontenibile e irreprimibile, ma non per questo insopportabile.

Corpo… Attrazione… Mente…

È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente.

Mi fido… Labbra… Nuca…

È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente.

Bacio… Ti fisso… Vergogna…

È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente.

Dipendenza… Dolce… Devo farlo…

È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente.

Strada... Polso... Legame…

È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente.

Respiro... Cane... Ho paura…

È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente.

Carne… Spirito… Lo faccio.

La fretta, l’impazienza, l’imbarazzo, quella frase che rimbalzava come una minuscola pallina di flipper nella mia testa con tintinnii esasperanti e acutezze folli, l’irrazionalità, il bisogno, la mia nudità di fronte a me stessa. Furono questi i capi d’accusa che la mente allegò al mio incarceramento per aver chiesto a Yamazaki di fermarci un attimo davanti a una vetrina, per averlo inaspettatamente abbracciato e per aver ricoperto ancora una volta l’amaro ruolo dell’antagonista.

Non approfittai nemmeno dell’unico attimo di cui avrei potuto godere per fissare il suo volto contratto nello sbalordimento, gli occhi spalancati per il disorientamento, la bocca cerchiata per lo stupore… Sapevo cosa stesse pensando, facendo e non facendo, cose che invece ignoravo nei miei riguardi.

Inclinai la testa senza accorgermene e lo baciai. Semplicemente.

Il peso delle mie labbra fu immane per le sue, fragili e sottili, che si arresero senza aver combattuto e seminato giusta morte. Ciò mi rese ancora più triste e colpevole.

Criminale, tentatrice, ladra!

Lo so fin troppo bene.

A quanto pare non abbastanza, schifosa.

Non riesco a farne a meno…

Provocatrice! Assassina!

Le mie labbra screpolate scivolarono sulle sue con una flebile nota, come la corda più acida e acuta di una chitarra grattata dal vento.

Perdonami.

Non ne sei degna, spregevole verme.

Chiesi perdono, pregai per il perdono, ma non servì a nulla: Yamazaki si arrese con ancora più abbandonata tranquillità.

Perché un mese prima non avrei mai pianto per questo? Perché quel bacio era diverso? Fisicamente non era altro che un insignificante strofinio di labbra, come pietra pomice su un imperfetto foglio di pergamena, poesie sublimi che diventavano turpi su una superficie ruvida. Emotivamente ci fu qualcosa di differente, una puntuale punta di coltello conficcatasi nella mia pelle, una ferita insanguinante in una notte di spasimante silenzio, ma non seppi descriverla.

Mi guardo. Mi guardo e mi vergogno.

Sentivo una leggera scossa sotto l’ombelico; la cocca di una freccia davanti ai miei occhi ondeggiava senza sosta.

Il suo viso mi accarezzava… Che sensazione eccelsa, dolce ma non zuccherosa, triste ma non disperata, delicata ma non fragile… Una folata calda intiepidiva la mia guancia, regolare, non volubile e opportunista come il vento infedele.

Vicinanza crepitante, ingenuità pensante, ignoranza occultata.

Bruciante luna di ghiaccio amaro? No, non più.

Ho vinto l’universo…

Ho vinto solo una condanna a morte.

Le stelle… Posso guardare le stelle! Ho vinto l’universo!

Non vinto niente.

Ho vinto me.

Ho vinto l’universo.

Ho vinto l’universo.

 

^^^^^^^^^^^^^^^

Ecco a voi il PENULTIMO CAPITOLO. Ciò logicamente significa che il prossimo sarà l’ultimo, almeno è quello di cui sono sicura ora.

Ringrazio Sakura bethovina (come ben sai purtroppo ciò che desideri non potrà accadere, mi dispiace), Faffy (grazie per la lunghissima recensione, come sai le adoro, e soprattutto per i bellissimi complimenti e la perfetta analisi. L’ho salvata sul computer, ma non penso ce ne fosse bisogno: la ricorderò sempre, grazie infinite), Sakura182blast (dovremo rivederci tutte le puntate dei “Pokèmon” per capirlo! Grazie per la divertentissima recensione e anche per la presenza dello Zannuto, che capisco perfettamente…).

Scusate per i ringraziamenti telegrafici, ma non ho poco tempo a disposizione.

A presto e grazie anche a chi ha solo letto!

Francy

 

   
 
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