Devo essere saggia, non posso fare tutto per conto mio e lasciare che la natura
faccia il suo corso… O forse sì?
Mi sfilai reggiseno e mutandine ed entrai con un brivido nell’acqua gelida,
apparentemente lattea, dato che rivelava il colore della vasca.
Perché voler ritornare al passato? Non è la stessa mania che mi ha dilaniata,
quella spietata nostalgia di innocenza? È poi così diversa? È pur sempre una
brama di passato…
L’acqua gelida ribolliva sulla mia epidermide sottoforma di pelle d’oca. La
schiena non ancora bagnata dal candido liquido si incurvò quando il freddo
raggiunse l’addome, facendo contrarre improvvisamente gli addominali.
… Cos’è in fondo il passato? Non è ciò che siamo? E il futuro non è ciò che
saremo?
Con immane fatica mi azzardai ad immergere la schiena nell’acqua ghiacciata,
piano piano, con estrema ed estenuante lentezza, contando i centimetri di pelle
asciutta mancanti, mentre le gambe già si erano abituate al gelo… o a tal punto
desensibilizzate da non poterne più percepire la consistenza.
Noi siamo le decorazioni del passato e l’impalcatura del futuro. Quindi, secondo
tale ragionamento, questo mio desiderio sarebbe giustificato. Oh no, anche la
ragione è dalla mia parte… Per una volta che istinto e ragione concordano, ecco
che la coscienza e il senno di poi coprono il cielo, le nuvole, il sole e le
altre stelle con i loro corpi massicci, muscolosi, erculei. Due macisti
inespugnabili e insormontabili.
Poggiai il capo sul bordo più alto della vasca e osservai le mattonelle che si
disegnavano in figure squadrate e regolari dinnanzi a me, intenta a rilassare i
muscoli irrigiditi dal freddo e dallo sforzo di non sentirlo.
Non posso ritornare a quel passato. Non posso ritornare a
nessun passato: è sbagliato, amorale,
incoerente, insoddisfacente. Oh, no, insoddisfacente proprio no: altrimenti come
potrei anelare un atto così imbarazzante e sciocco?
Premetti con irruenza la pancia della bottiglia di bagnoschiuma per farle
vomitare il fluido denso e trasparente che conteneva da quella bocca tonda,
quasi un’espressione stupita e abbagliata.
Potrebbe anche essere insoddisfacente, perché no? Anche la mia vendetta lo è
stata, sebbene fossi pazzamente certa che avrebbe magicamente risolto tutti miei
problemi, che mi avrebbe riempita così smaniosamente di compiacimento da farmi
morire in una poltiglia di sangue, schegge d’ossa e carne trita come un
palloncino empio d’aria punto da un ragionevole spillo.
Qualche istante dopo della candida e glaciale schiuma mi incorniciava il viso
come un cuscino di neve, paragone possibile più per il gelo che per la
consistenza.
Ma che importanza ha? La vendetta era ingiusta, ma io la volevo e la vorrei
anche ora se la ragione me l’avesse permesso. Ma che senso ha? La nostalgia del
mio passato è uno spettro mai marginale, tutt’altro che trasparente, un’ombra
che seguivo come una giovane cieca rapita dal buio. Un cielo terso e vuoto,
solare e accecante, ceruleo e insignificante. Perché quale significato poteva
assumere l’anelito di un passato distrutto e non con tanto rimpianto, non con
l’immensa mestizia che mi sarei aspettata, non con la mordace correità negata. E
allora? Devo far differenza fra un passato e l’altro? Che importanza ha? Che
senso ha?
Ammirai i miei capelli castani diventare color mogano sotto la superficie
dell’acqua, ormai quasi completamente coperta da morbidi e marcescibili iceberg
di bollicine. L’odore tenue di menta penetrò prima il naso, poi lentamente mi
sferzò e tagliò gli occhi come vetri affilati e defilati infilati con
aggressività e impeto nelle mie lacrimanti pupille.
Non posso costringere ancora qualcuno a sottostare ai miei vani e superflui
desideri. Non posso costringere
lui.
È così semplice e, in fondo, è l’unico freno che posso intervallare fra ciò che
avventatamente bramo e ciò di cui ragionevolmente – no, non ragionevolmente: il
raziocinio mi sostiene strenuamente – , naturalmente necessito.
La spugna, pregna di acqua ghiacciata semitrasparente e bagnoschiuma in nette
nuvole nevose, mi strofinava con la sua ruvida pelle gelida, lavando via e
affievolendo ogni minimo accenno di pensiero, emozione, immagine, fantasia,
ragionamento.
Non ero nulla, ero chiunque. Anonima in un mondo di personalità distratte e
derubate, tradite e impaurite, nascoste e spavalde.
Neanche il freddo striava e levigava brutalmente le mie membrane senza nome,
popolate da tanti altri esseri che forse possedevano un’anima incoerente,
incompleta, solitaria, diversa, razionale, cinica, egoista, riformatrice come la
mia. Ognuna viveva una propria piccola vita, minuscola, minima come la loro
esigua dimensione, ma non per questo priva di significato. Ogni mia cellula, pur
identica che fosse ad altre mille, era unica nella sua posizione, nella sua
umile e nodale funzione, nells sua solitudine. Le cellule erano gli esseri – se
così potevano essere chiamati – più introversi sulla faccia della Terra: non
avevano bisogno di nessuno per amare, per odiare, semplicemente perché non
sapevano farlo, non conoscevano la comunicazione; si riproducevano
sperdutamente, senza bisogno di seconde entità: sacrificavano il loro corpo per
crearne altri due, più giovani, più utili e sempre più prossimi alla morte.
Yamazaki mi sta contagiando…
Quell’unico pensiero mi fece sobbalzare, dopo il mortale silenzio che aveva
trascritto i miei ragionamenti sull’aria viaggiatrice e volubile, facendoli
volar via nel cielo, in quel regno vuoto e lugubre dove terminano le riflessioni
perse, dimenticate, oscure, abbandonate senza un motivo o, semplicemente,
gettate via dai loro proprietari dopo essere stati abusati sulle nuvole scomode
e atemporali, destinate a morire in gocce di pioggia succulente per la fertile
terra.
Le orecchie mi fischiavano con uno stridio roboante, così, appena finito di
lavarmi il corpo e i capelli, mi alzai nella vasca con l’acqua che mi sfiorava
le caviglie e uscii poggiando i piedi fradici sull’asciugamano immacolato che
avevo precedentemente steso a terra.
Non posso mica chiedergli se è d’accordo… Sarebbe a dir poco squallido.
Come un boomerang, i pensieri che avevo accartocciato e cestinato nel cielo
ritornarono, spiegati ma con i segni del mio abbandono. Nemmeno l’aria li
accettava; ma non erano almeno migliori dei miei precedenti, insanguinati di
vendetta e imbevuti di scorticante odio? Non li rinnegavo, ma li avevo comunque
gettati via, in quanto non mi erano più utili e, inoltre, perché non volevo più
contarne le pile incolonnate nel mio cervello, occupanti spazio prezioso ed
eventualmente fruibile.
Voglio farlo.
Sospirai compatendomi e cercai di ricordare la causa scatenante di quel lungo
monologo interiore riguardo all’eventualità di baciare ancora una volta
Yamazaki, come era accaduto poco più di un mese prima: sebbene lo sforzo, non la
visualizzai.
***
Bruciante. Cosa sarebbe potuto esserlo? Un fiore essiccato dalla furia di quel
sole di cui si fidava, ma che l’aveva impietosamente distrutto? La sabbia che
avvolgeva i venti di scirocco in un mezzogiorno estivo? Le lacrime di rabbia che
rendevano le guance palpitanti, tremanti e scottanti di vergogna per quella
temeraria proposta di penetrazione nel proprio animo? Le unghie che graffiavano
il corpo altrui, indesiderato, troppo violento e pesante per essere scostato,
assurdamente ponderoso nella sua bieca agilità? L’inferno che torvo attendeva i
malvagi, intrappolato in una fantasia infantile e capricciosa di vendetta?
L’immoralità che denudava l’umanità ai suoi stessi occhi come un uccello implume
e incapace di volare, ignominia per sé stesso e per gli altri, vergogna della
società, pudore violato, fonte sgorgante di fluido e denso imbarazzo, epifania
dell’oscenità nascosta in ogni delicatezza vivente?
In quel momento l’unica cosa che bruciava erano le mie guance sotto un sole
bollente, feroce, ferino e siderale. Basta illudersi: ero infiammata dal
desiderio di baciarlo, di poter aggrapparmi e pendere dalle sue labbra e non
riuscivo a evaderne.
Evadere, sì, se ce l’avessi fatta mi sarei sentita molto meglio e non avrei
fantasticato languidamente di quella bocca che tanto bramavo… Oh, sto cadendo
nell’erotico…
Meglio evadere anche da questo, decisamente: non mi era mai stato d’aiuto,
benché fosse uno dei pochissimi ricordi piacevoli del fidanzamento con Shaoran
di due anni prima che serbassi nei miei occhi e sulla mia pelle, sulla lingua e
nel naso, nelle orecchie e… no, nell’anima no e nemmeno nel cuore. Solo sensi,
importanti, ma mai e poi mai fondamentali.
Ma che senso aveva scivolare su quei viscidi viaggi mentali per distrarmi?
Perché era nato quel maledetto desiderio?
Erano passati tre giorni dalla gita al mare, era domenica, una domenica
opprimente come tutte le altre, decorata di fronzoli e volute per sembrare
gradevole, ma sempre con lo stesso odore di aria viziata e cellophane
rinsecchito nella spazzatura. Dopo aver fatto il bagno avevo deciso di fare una
passeggiata con Yamazaki, come eravamo soliti durante le mattine di festività
scolastica. Mi sarei recata io a casa sua
perché a casa tua c’è Touya di mattina, vero?, aveva giustificato. In
effetti cercava sempre in tutti i modi di evitare mio fratello, senza dubbio
troppo iperprotettivo in un modo di cui non avevo affatto bisogno, ma che in
realtà mi innervosiva e rendeva insicura, come una magnolia custodita e
soffocata sotto una campana di cristallo. Insano.
Mi trovavo ancora in strada, ma entro pochi minuti sarei giunta presso
quell’edificio di mattoni color magenta con finestre quadrate e persiane bianco
panna che rappresentava la dimora di Yamazaki. Non vi ero mai entrata.
Fissai le automobili che mi fiancheggiavano, la loro tecnologica complessità e
la precisa geometria che avrebbero sicuramente scatenato la fervida e sognante
immaginazione del mio amico. Una risata sommessa mi fece sobbalzare e vibrare.
Il mio naso si arricciò all’acre e volgare odore dello smog, che galleggiava e
levitava con innaturale grazia in leggere spirali verso le poche nuvole che
increspavano il celeste, come schiuma candida di onde marine e saporite.
Oh, ma perché tentavo ancora di distrarmi concentrandomi sui miei sensi quando
ciò che si trovava sulle rive di un torrente tumultuoso e tempestoso era la mia
mente? Perché continuare a scostarmi bruscamente…? Assurdo che ci provassi
ancora.
Tentai ancora una volta di capire da dove fosse sorto quell’irrefrenabile
desiderio, quella voglia logorante e consumante che mi scalfiva con una violenza
sorprendente. Un lampo strappò via, rapì quel ricordo da un buio tanto corposo
quanto refrattario. Ora la memoria,prima offuscata dalla mia divorante bramosia,
mi ripropose come un’estranea pellicola l’attimo in cui mi ero guardata allo
specchio, prima di fare il bagno: quelle labbra carnose ma leggermente violacee,
segmenti su un viso tondo, avevano a loro volta proiettato davanti al mio ignaro
sguardo l’ultimo bacio, quello inflitto a Yamazaki nel giorno del mio
diciottesimo compleanno. Niente di più sconvolgente, anche perché non avevo mai
davvero riflettuto sul motivo di quel mio comportamento che ora mi sembrava
completamente dissennato… almeno prima che questa scabrosa e irrecusabile voglia
mi avvolgesse e stringesse nel suo abbraccio fin troppo umano per essere reale.
Percorsi al suono del lieve fruscio dei miei pantaloni il vialetto, anch’esso di
mattoni, che portava all’economica porta dello stesso colore delle persiane.
Premetti con l’indice e il medio il tasto rosso del citofono meditando
sull’acuto e stridulo urlo che ne derivò.
Volevo davvero farlo?
Niente di più certo.
Va bene, forse la domanda era già sbagliata sin dal principio:
dovevo
proprio farlo? Non c’era modo di evitarlo?
Tutto vano: non poteva accadere altrimenti.
Rassegnata a me stessa, seguii con lo sguardo la porta aprirsi e salutai con un
cenno della mano la figura che ne sgusciò appena mi accorsi che era proprio
Yamazaki e non uno dei suoi due fratelli maggiori o genitori.
-Ehi.-, disse semplicemente con un sorriso sospirante, forse per la fretta con
cui aveva sceso le scale.
Presi un respiro profondissimo e sospirai anch’io con il naso. Ci voltammo e
cominciammo a incamminarci come sempre verso la nostra gelateria preferita,
Kinokoshin, che si trovava accanto
all’edificio scolastico.
-Scusami se ti ho costretta ad arrivare fin qui…-.
-… Ma sai quanto mi odi tuo fratello. Ho capito, non preoccuparti.-, terminai la
frase per lui: era la stessa da un anno e mezzo: incredibile, se l’era appuntata
da qualche parte per ricordarsela?
Si strinse nelle spalle e continuammo a camminare fra clacson caotici e
penzolanti pini, su un marciapiede a mattonelle grigie e lastre bianco sporco ai
margini, dove un maestoso cane color mandorlo ora saltellava dolcemente e
fedelmente aggrappandosi alla stretta cintura del proprio padrone, dalla quale
torreggiava imponente e trasbordava una pancia quasi sferica.
Un contatto inaspettato squarciò la mia placida osservazione e una mano avvolta
attorno al mio polso mi strattonò verso destra con un’irruenza e un impeto
impressionanti, o forse fu l’imprevedibilità a renderli tali a mio avviso.
-Se non stai attenta ti spacchi il setto nasale contro un palo. Sarebbe
squallido, no? Insomma, è meglio avere il naso rotto per un pugno…-. Sorrise. Lo
guardai ancora smarrita, mi voltai e notai il palo reggente un segnale di
divieto di sosta che quasi avevo colpito, intenta nelle mie riflessioni riguardo
al cane: era come me, si aggrappava capricciosamente al suo padrone, ricco di
emozioni, fantasia, comprensione… Vivo, insomma. Capace di parlare, esprimersi
con naturale semplicità: un dio, per quell’animale purtroppo costretto ad un
mutismo soffocante, alla dipendenza e alla fedeltà per nutrirsi e sopravvivere.
Ero davvero questo? Che squallore misero e pesante…
Avrei voluto sciogliermi, infrangermi in miliardi di frammenti fini fino a non
essere più rintracciabile, in nessun modo, in nessun mondo.
Continuammo a passeggiare e solo allora mi accorsi che la mano di Yamazaki era
ancora calda attorno al mio immobile polso. Come un guinzaglio.
Lo fissai e lui se ne accorse qualche attimo dopo con la coda dell’occhio. Un
dejà vu spalancò il suo surreale torpore sulla mia mente, ricordandomi con uno
schiocco di dita del giorno in cui scoprii che Shaoran mi aveva sempre mentito,
all’uscita da scuola, galleggianti in un inusuale silenzio… Sbarrai gli occhi e
mi posai una mano sul petto, dove il cuore roteava pazzo, impaziente, senza
limiti, spericolato, fragoroso.
Sto paragonando Shaoran a Yamazaki? Ma cosa…? Non credevo di essere tanto
insicura da sovrapporre il vuoto al cielo, lo sporco alla catarsi, la vergogna
alla gioia?
Chi mi avrebbe assicurato che Yamazaki sarebbe stato sempre fedele? Se si
stancasse delle mie congetture contorte, dei miei penosi turbamenti non potrebbe
far altro che abbandonarmi. Nient’altro.
Non sono mai stata così superficiale e frivola da credere che tutti i maschi
fossero come Shaoran. E allora perché ora ho paura? Cosa temo?
Non paventavo il mondo maschile, solo Yamazaki. In un modo o nell’altro, ero
sempre dipendente da qualcuno, questa era l’unica certezza.
Cosa potevo fare? Mi fidavo di lui, gli avevo raccontato tutto di me, ciò che
pensavo e sentivo… a parte quella strana connessione che, nonostante tutti i
solipsismi che avrei potuto instaurare, non mi sembrava affatto malsana. Almeno
finché Yamazaki non mi avesse abbandonata.
Forse volerlo baciare si rivelava un altro segnale, un altro filo di questo
legame distorto? Non avrei saputo dirlo, non avrei potuto, né voluto.
Lo osservai ancora con malcelata insistenza: le sottili labbra rosee
sensibilmente socchiuse come la porta di una casa abbandonata… No: queste ultime
ostentavano mistero e verginità per poi tacere fra le proprie pareti il più
gretto, banale, stancante, monotono, polveroso, normale e fetido aroma
nauseabondo di chiuso e passato. Yamazaki non era così, ne ero certa: lui era
estremamente ricco, pieno senza empietà, colmo di ciò che ancora quasi non avevo
gustato né odorato, un profumo e un sapore sublimi, delicati, eleganti e
incisivi, indimenticabili, intensi.
Le sopracciglia sottili incoronavano gli occhi stretti e lunghi, quasi un taglio
arabo, fine e marcato; i capelli mori applaudivano lievemente contro il capo ad
ogni sbuffo noioso di vento, terminando su una nuca lucida e lattea, una curva
sinuosa e sensuale che precipitava in una discesa arcuata sulla schiena stretta
e perigliosa, liscia come un frammento di marmo fra sterpi e rovi spinosi.
Non potevo sopportare che un corpo così anonimo mi sfidasse attirandomi fino a
quel punto.
È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente,
rimuginai.
Come uno Zahir, quel pensiero, da essere una fioca eco nelle mie orecchie,
divenne un urlo incontenibile e irreprimibile, ma non per questo insopportabile.
Corpo… Attrazione… Mente…
È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente.
Mi fido… Labbra… Nuca…
È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente.
Bacio… Ti fisso… Vergogna…
È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente.
Dipendenza… Dolce… Devo farlo…
È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente.
Strada... Polso... Legame…
È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua mente.
Respiro... Cane... Ho paura…
È la conseguenza dell’attrazione che mi lega alla sua
mente.
Carne…
Spirito… Lo faccio.
La fretta, l’impazienza, l’imbarazzo, quella frase che rimbalzava come una
minuscola pallina di flipper nella mia testa con tintinnii esasperanti e
acutezze folli, l’irrazionalità, il bisogno, la mia nudità di fronte a me
stessa. Furono questi i capi d’accusa che la mente allegò al mio incarceramento
per aver chiesto a Yamazaki di fermarci un attimo davanti a una vetrina, per
averlo inaspettatamente abbracciato e per aver ricoperto ancora una volta
l’amaro ruolo dell’antagonista.
Non approfittai nemmeno dell’unico attimo di cui avrei potuto godere per fissare
il suo volto contratto nello sbalordimento, gli occhi spalancati per il
disorientamento, la bocca cerchiata per lo stupore… Sapevo cosa stesse pensando,
facendo e non facendo, cose che invece ignoravo nei miei riguardi.
Inclinai la testa senza accorgermene e lo baciai. Semplicemente.
Il peso delle mie labbra fu immane per le sue, fragili e sottili, che si
arresero senza aver combattuto e seminato giusta morte. Ciò mi rese ancora più
triste e colpevole.
Criminale, tentatrice, ladra!
Lo so fin troppo bene.
A quanto pare non abbastanza, schifosa.
Non riesco a farne a meno…
Provocatrice! Assassina!
Le mie labbra screpolate scivolarono sulle sue con una flebile nota, come la
corda più acida e acuta di una chitarra grattata dal vento.
Perdonami.
Non ne sei degna, spregevole verme.
Chiesi perdono, pregai per il perdono, ma non servì a nulla: Yamazaki si arrese
con ancora più abbandonata tranquillità.
Perché un mese prima non avrei mai pianto per questo? Perché quel bacio era
diverso? Fisicamente non era altro che un insignificante strofinio di labbra,
come pietra pomice su un imperfetto foglio di pergamena, poesie sublimi che
diventavano turpi su una superficie ruvida. Emotivamente ci fu qualcosa di
differente, una puntuale punta di coltello conficcatasi nella mia pelle, una
ferita insanguinante in una notte di spasimante silenzio, ma non seppi
descriverla.
Mi guardo. Mi guardo e mi vergogno.
Sentivo una leggera scossa sotto l’ombelico; la cocca di una freccia davanti ai
miei occhi ondeggiava senza sosta.
Il suo viso mi accarezzava… Che sensazione eccelsa, dolce ma non zuccherosa,
triste ma non disperata, delicata ma non fragile… Una folata calda intiepidiva
la mia guancia, regolare, non volubile e opportunista come il vento infedele.
Vicinanza crepitante, ingenuità pensante, ignoranza occultata.
Bruciante luna di ghiaccio amaro? No, non più.
Ho vinto l’universo…
Ho vinto solo una condanna a morte.
Le stelle… Posso guardare le stelle! Ho vinto l’universo!
Non vinto niente.
Ho vinto me.
Ho vinto l’universo.
Ho vinto l’universo.
^^^^^^^^^^^^^^^
Ecco a voi il PENULTIMO CAPITOLO. Ciò logicamente significa che il prossimo sarà
l’ultimo, almeno è quello di cui sono sicura ora.
Ringrazio Sakura bethovina (come ben sai purtroppo ciò che desideri non
potrà accadere, mi dispiace), Faffy (grazie per la lunghissima
recensione, come sai le adoro, e soprattutto per i bellissimi complimenti e la
perfetta analisi. L’ho salvata sul computer, ma non penso ce ne fosse bisogno:
la ricorderò sempre, grazie infinite), Sakura182blast (dovremo rivederci
tutte le puntate dei “Pokèmon” per capirlo! Grazie per la divertentissima
recensione e anche per la presenza dello Zannuto, che capisco perfettamente…).
Scusate per i ringraziamenti telegrafici, ma non ho poco tempo a disposizione.
A presto e grazie anche a chi ha solo letto!
Francy