Avvertenza: la seguente storia è ispirata alla fanfiction "Sharper than a switchblade" di Some kind of sociopath.
The three Great Masters of the Templars.
Si sentiva come rinato.
Era eccitato e iperattivo, percepiva nettamente una
strana energia scorrergli nelle vene, era una sensazione nuova e gli piaceva.
Eccome se gli piaceva. Era invaso da adrenalina.
Avrebbe potuto affrontare tutto l'esercito Inglese da
solo, senza l'aiuto di quel vecchio pazzo sconclusionato di un Kenway o di quell'inetto di Washington, il quale credeva
ancora nella loro alleanza. Idiota, non aveva ancora capito che il suo era un
comportamento opportunistico e che, alla prima occasione, avrebbe fatto fuori
anche lui?
Avrebbe fatto tutto da solo, mancava poco. Finalmente
avrebbe agito di testa sua, senza sottostare agli ordini di qualcun altro. No,
non era nella sua indole, l'obbedienza.
Nell'avanzare diede una spallata ad una giubba rossa
che, inveendo contro di lui, gli diede una spinta. Ma Lee non si scompose, si
limitò a mantenere l'equilibrio e ad alzare una mano per farsi perdonare
mantenendo gli occhi bassi. Non voleva grane o contrattempi, biascicò delle
scuse sperando di cavarsela con poco e di allontanarsi in pace. Non era un
lavoro che poteva aspettare, il suo.
Barcollò per qualche metro. Lo stava facendo davvero?
Ne aveva seriamente il coraggio, dopo tutti quegli anni?
Una fitta gli attraversò il cervello, facendolo
fermare di colpo e piegare dal dolore. Strinse le mani attorno alle tempie e
stringeva, stringeva sempre più forte sperando di alleviare quella tortura. Doveva. Doveva farlo. Era questione di
un secondo.
Un rivolo di saliva gli scese lungo il mento per poi
schiantarsi a terra, chiuse la bocca e riprese a camminare. Le dita sempre
aggrovigliate tra i capelli, la gente lo evitava credendolo pazzo. O forse lo
era.
Intravide le mura di Fort George che a malapena
distingueva dal cielo grigio di New York.
Si allargò il colletto della camicia, divenuto
improvvisamente troppo stretto, temeva quasi lo soffocasse. Il collo era
bagnato di sudore, aveva ansia?
Si obbligò a mantenere un'aria sicura e apparentemente
normale o sana, la schiena dritta. Deglutì quando raggiunse le guardie
all'entrata del forte, le quali lo riconobbero subito e lo lasciarono passare
senza domandare nulla. Charles continuava a mantenere lo sguardo sui suoi
stivali, temendo che chiunque avrebbe potuto leggere le sue intenzioni se solo
l'avesse guardato negli occhi.
Trattenne il fiato quando imboccò le scale per il
primo piano, quello degli alloggi del Gran Maestro. Camminava così velocemente
da andare di pari passo col suo cuore, che batteva all'impazzata. Sembrava
volesse uscire dal petto e scappare, abbandonare il suo corpo, perché quello
che stava per fare era un'azione degna solo di un uomo apatico e folle. E Lee
non era mai stato nulla di tutto questo. Era sempre stato fedele a
quell'Inglese, così composto e serio.
Raggiunse la porta che tanto cercava, cosciente che
una volta aperta, tutto sarebbe cambiato, tutto sarebbe diventato
irrimediabile.
Fallo.
Deglutì, sentendosi pesante come se alle caviglie
avesse legate due incudini pronte a trascinarlo sul fondo degli abissi. Era da
folli.
Fallo.
Un'altra fitta gli attivò i neuroni, come una scarica
elettrica. La mano si mosse da sola, sfiorando il pomello metallico.
Una goccia di sudore gli colò lungo la basetta
sinistra, le labbra si dischiusero, tremando.
Fallo.
In fondo era solo un uomo, proprio come tutti gli
altri. Aveva spezzato così tante vite che nemmeno le ricordava, una in più non
avrebbe fatto differenza, giusto?
Fallo.
Aprì la porta senza nemmeno rendersene conto. Si
aspettava una stanza buia e silenziosa, con Haytham
sdraiato a letto e profondamente addormentato. Ma così sarebbe stato troppo
facile da uccidere e Charles meritava di guardarlo negli occhi mentre assisteva
inerme alle conseguenze delle sue azioni. Meritava di guardarlo morire per mano
sua, col volto e i vestiti macchiati del sangue del suo Mentore.
Contro ogni sua aspettativa Haytham
era sveglio, seduto alla scrivania con una candela accesa.
«Ti
stavo aspettando, Charles.» trasalì.
Come l'aveva riconosciuto? Haytham dava le spalle
all'entrata e Lee non aveva fiatato, perché se l'avesse fatto, non sarebbe
stato in grado di formulare una frase di senso compiuto.
Si chiuse delicatamente la porta alle spalle e rimase
sulla soglia, le mani tremavano, il viso era imperlato di sudore e gli occhi
erano lucidi e iniettati di sangue, folli. I nervi a fior di pelle gli
annebbiavano i sensi, perché lui? Era un bastardo gioco del destino, lo sapeva.
Era abbastanza lucido da capirlo, quello.
Haytham posò la piuma d'oca con una calma innaturale e chiuse il diario, si alzò
strisciando la sedia di lato pronto a parlare, ma fece appena in tempo a vedere
Charles scattare in avanti, correndo verso di lui e brandendo una vecchia spada
corta.
Aveva tentato di urlare per darsi coraggio e
concretizzare l'attacco, ma dalla gola, troppo secca, non uscì che un rantolo
disperato e sofferente.
Haytham non era armato, sapeva che Charles si sarebbe fermato in tempo, o almeno,
lo sperava. Glielo diceva il cuore, fiducioso del rapporto che lui e Lee
avevano sempre avuto, ma il cervello gli suggerì altro.
Il braccio sinistro si mosse autonomamente, fermando
la spada del suo ex allievo che non ebbe difficoltà nell'affondare nella carne
dell'avambraccio, schizzando sangue sulla mano di Lee.
Haytham soffocò un lamento, causato non tanto dalla ferita -che era relativamente
profonda-, quanto da chi gliela aveva procurata.
Kenway alzò lo sguardo sul suo avversario -Dio, si sentì mancare definendolo
tale-, sul ragazzo che l'aveva sempre seguito e ascoltato, notando lo sguardo
da folle e malato. Quello non era Charles Lee, l'uomo che stava tenendo la
spada ancora conficcata nella sua carne non poteva, non doveva essere lui.
Strattonò la lama dal braccio dell'uomo e prese fiato,
mentre l'Inglese portò la mano sulla ferita per bloccare il sangue. Haytham si guardò intorno alla ricerca di qualcosa con cui
difendersi, poi si ricordó di avere un pugnale nel
cassetto della scrivania. Si appoggiò al ripiano senza voltargli le spalle e
con la mano destra aprì lo scomparto, frugando all'interno con mano tremante
cercando l'elsa dell'arma.
La impugnò saldamente, non si sarebbe fatto uccidere
senza muovere un dito.
«Ti ha
mandato Reginald, non è vero?»
domanda retorica. Non era stata di certo un'iniziativa
di Charles, che non rispose alla domanda. Andò addosso all'Inglese con rabbia,
accompagnando ogni fendente con grida furiose. Aveva distrutto mezza stanza,
rovesciato la scrivania e rotto la sedia. Ignorava tutte le regole del
combattimento e gli insegnamenti che gli aveva impartito l'uomo che stava
cercando di uccidere. Nessun lavoro di gambe, né postura corretta. Attaccava
senza lucidità, con movimenti goffi e rallentati, senza mettere davvero in
difficoltà l'avversario.
Ed Haytham si limitava a
deviare i colpi senza mai infierire su Charles, anche se di occasioni per
concludere lo scontro ne aveva avute parecchie. Anche in quel momento avrebbe
potuto vincere, affondando il pugnale nel fianco scoperto di Lee.
Non lo fece.
Charles lo mise spalle al muro fissandolo con occhi
assassini.
«Combatti!»
gli fiatò contro «E ammazzami, se ci riesci.» anche
il tono di voce era strano. Stranamente acuto e isterico, decisamente insolito
per un tipo come lui.
«Non ti
voglio uccidere, Charles.»
«Non ne
sei in grado?» rise
mostrando i denti, ma Haytham fece scivolare il
braccio destro tra le mani di Lee, ben salde sulla redingote del più anziano.
La punta del pugnale di Haytham
gli sfiorava il collo, così fradicio e lucido da sembrare di cera.
«Avrei
potuto ucciderti sei o sette volte, Charles, ma non l'ho fatto.»
si rigirò l'arma tra le dita fino a puntare la lama
verso di sé, poi lo afferrò per il colletto invertendo la situazione. Gli
bloccò ogni via d'uscita mettendo una gamba tra le sue e appoggiando
l'avambraccio destro, quello sano, sul suo collo.
«Credevi
che entrare qui dentro e uccidermi fosse tanto semplice? Eppure dovresti
conoscermi bene.» ma
Charles scattò in avanti, colpendolo sul naso con la fronte. La testata lo
stordì per qualche attimo facendolo finire a terra, mentre gli occhi bruciavano
e lacrimavano per reazione involontaria. Sentì un liquido caldo colargli sulle
labbra e poi sul mento, e tentò di fermare il flusso mettendo una mano sotto le
labbra e premendo, con l'altra, alla base del naso.
Lo travolse un senso di nausea: la bocca era impastata
di sangue, i denti impiastricciati e il sapore metallico gli era sceso fino in
gola, che bruciava così tanto che credeva sarebbe andata a fuoco.
Cercò di rialzarsi, gli occhi erano serrati dal dolore
e il palmo sporco di sangue scivolò sul pavimento, facendogli perdere
l'equilibrio.
«Cazzo.»
gli aveva rotto il naso, poco ma sicuro. Respirava a
fatica e continuava a sanguinare, le mani erano completamente imbrattate, la
vista annebbiata, il volto era una maschera di sangue dalle narici in giù.
Un calcio nel costato lo ributtò a terra prima che potesse
rimettersi in piedi, ma a Charles non bastò vedere Haytham
senza fiato, affatto.
Lo guardava dall'alto, godendosi la scena con un
ghigno malvagio stampato sul viso. Vederlo a terra, tossire per il colpo appena
ricevuto, dolorante e impotente, aveva lo stesso effetto di un telo rosso
sventolato davanti ad un toro. I muscoli erano tanto tesi da farlo tremare, le
vene sul collo ingrossate, gli occhi pulsavano per il troppo sangue affluito
alla testa. Stava diventando una bestia pericolosa.
Gli si avvicinò e lo colpì ancora, accompagnando ogni
scatto d'ira con urla e grugniti.
Colpiva il petto, il fianco, le costole e urlava,
urlava come un folle, come se si stesse sfogando sulla causa delle sue
disgrazie.
Il Gran Maestro, ormai privo di forze, smise di coprirsi
il fianco con le braccia. Rimase impassibile anche quando Lee gli si
inginocchiò sopra e gli sollevò il busto tenendolo dal colletto, ghignando
follemente.
«Spero
ti serva a qualcosa, la mia morte.» mormorò senza fiato mostrando i denti macchiati di rosso. Charles non
rispose, portò una mano alla cinta estraendo la pistola. Sarebbe morto senza
soffrire, almeno questo lo rincuorava, ma quando si trovò faccia a faccia con
la canna dell'arma, ebbe un brivido di paura. Non per sé, bensì per quello che Charles
era diventato, o meglio, che Birch aveva creato.
«Hai
finito di comandare, bastardo. Addio.» premette il grilletto senza alcuna esitazione, sparando in pieno viso ad Haytham.
***
"Haytham Kenway, 4 Dicembre 1725 -
16 Settembre 1781".
Più leggeva la scritta sulla lapide, meno ci credeva.
Strano, dato che l'aveva ucciso con le sue mani.
Non si curò della gente che lo guardava piangere sulla
tomba di un ex soldato, maledicendosi mentalmente per ciò che aveva fatto. Era
svenuto poco dopo averlo ucciso, era stato Connor a
trovarlo privo di sensi, sdraiato affianco al cadavere del padre.
Aveva assunto droga, questo sosteneva il medico di
Fort George che l'aveva visitato.
Comprese ogni cosa, affondando le mani nella terra
fredda e umida del cimitero. Era stato un piano di Reginald
sin dall'inizio. Quale modo migliore di uccidere un traditore se non quello di
usare il suo allievo? Non si era voluto nemmeno sporcare le mani, il bastardo.
Deglutì, soffrendo come un cane per il nodo alla gola
che lo stava facendo impazzire.
«Perdonatemi,
Signore. Non volevo.» lo
sussurrò più a se stesso, come a darsi sicurezza che fosse stato tutto un
incidente, che lui non c'entrava con quella tragedia. Gli scesero altre lacrime
e provò sollievo nel liberare gli occhi arrossati e gonfi.
Una mano gli si poggiò sulla spalla destra, ma Lee
sapeva già chi fosse.
«Sono
venuto a portarti questo.» Charles
si voltò leggermente a destra, verso Connor, il quale
notò con stupore, sul viso del Templare, i solchi umidi delle lacrime.
Gli stava porgendo il diario di Haytham,
ma non aveva il coraggio, né il diritto di leggere.
«Non
credo che la vita di mio padre possa interessarti, ma l'ultima pagina ti
riguarda. L'ho letta per caso, ho trovato il diario a terra.»
gli diede un'ultima pacca sulla spalla prima di
andarsene e lasciarlo solo con i suoi pensieri.
Charles fissò la copertina di pelle del diario
indeciso se violare la privacy del suo maestro, ma le parole di Connor l'avevano spinto ad andare direttamente all'ultima
pagina.
"Arriverà
presto, lo so. Non ho paura, è strano, in un certo senso sono contento di
morire per mano sua, anche se non sará il ragazzo che
ho addestrato, non è colpa sua, lo so. È diventato un uomo sicuro e capace, con
obiettivi e carisma. Sono fiero di lui, non gli porterò rancore.".
Richiuse il quaderno accorgendosi di aver bagnato la
pagina e sbavato una parola con una lacrima.
***
Quella notte non aveva chiuso occhio, e come avrebbe
potuto? Si era sforzato di ricordare qualcosa, ma la testa gli faceva ancora
male, come se stesse per esplodere.
Aveva avuto un flash di Haytham
col volto coperto di sangue e gli occhi vitrei che lo fissavano, nella mano
destra un pugnale. Nulla di più. Si era lasciato uccidere di proposito, ne era
certo. Haytham Kenway era
sempre stato un ottimo spadaccino, di gran lunga più abile di Charles che,
seppur in gamba, di certo non sarebbe stato in grado di ammazzarlo.
All'alba del giorno dopo era andato al porto , per sua
fortuna, era riuscito a trovare una zona del molo sgombra e tranquilla. Il mare
era calmo e nei dintorni non c'erano marinai o pescatori. Si guardò alle spalle
un'ultima volta, poi estrasse la pistola dal fodero alla cintura, osservando
gli anelli di piombo che aveva appeso ad essa. Non meritava una sepoltura,
voleva che il suo corpo sparisse dopo anni e non esser mai ritrovato.
Caricò l'unico colpo che aveva a disposizione e
appoggiò la canna alla tempia destra. Guardò l'orizzonte mentre gli occhi
azzurri iniziarono a bruciare, nel vano sforzo di trattenere le lacrime. Stava sbagliando
tutto, ne era consapevole. Suicidarsi non avrebbe risolto nulla, sarebbe dovuto
andare da Reginald e ammazzarlo con la stessa
violenza che Haytham aveva subito ingiustamente,
vendicando così il suo maestro che, prima di tutto, era stato un amico. Un
amico e un uomo che in lui aveva visto un successore e in cui aveva risposto
fiducia.
Ma non ne aveva la forza, né fisica né mentale. Si
sentiva un codardo.
Chiuse le palpebre e contò fino a tre, lasciando che
la sferetta di piombo gli trapassasse il cervello e lo uccidesse senza
arrecargli dolore.
Si udì l'eco di uno sparo, ma sul molo sembrava tutto
tranquillo, mentre il cadavere di Charles Lee sprofondava verso il fondale.
Tanto sarebbe morto a breve comunque per mano di Connor, se non per vendicare il padre, per le idee
politiche. Sì, era decisamente meglio il suicidio.
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