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Autore: Vatican Cameos    18/06/2014    1 recensioni
Era forte, il moro. Così forte che era riuscito a non piangere durante tutto quel tempo.
Adesso però, quella patina ghiacciata che si era creata intorno al suo cuore, un’autodifesa dal dolore che minacciava di invaderlo, iniziava a creparsi e la pena tanto temuta gli strinse il cuore in un pugno serrato.
Si alzò, accecato dall’angoscia, gli occhi adesso mostravano le loro venature rosse nel disperato tentativo di evitare di piangere.
Aveva voglia di urlare, di rompere qualcosa contro il muro, con l’orrendo pensiero che quello effettivamente non avrebbe portato indietro, tra le sue braccia, il suo amato Goku.
Genere: Drammatico, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Goku, Vegeta | Coppie: Goku/Vegeta
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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When you’re gone.
A Silvia, ancora buon compleanno.
 

La casa era silenziosa, sin troppo. Sembrava che nessuno abitasse più in quella dimora, così candida dall’esterno.
La calma regnava padrona, e la figura, raggomitolata e immobile dinnanzi ai vetri trasparenti dell’ampia finestra che mostrava al salone la bellezza del giardino esterno, non sembrava altro che  parte dell’innaturale perfezione che l’abitazione mostrava esternamente.
Eppure Vegeta si sentiva così oppresso dalla preoccupazione, l’oscurità del suo umore così incoerente con il bianco terso di cui la struttura era dipinta.
Poche vesti indossava, scelte accuratamente tra gli abiti di Lui. Quel profumo, il soffice cotone della canotta arancione che ricopriva le sue membra impercettibilmente tremanti non facevano altro che stringergli il cuore in una morsa.
L’ultima lettera mandata da Lui,che era partito in guerra, che lo aveva distrutto lasciandolo solo, che  “ L’America ha bisogno di me” aveva detto, comunicava, con una buone dose di dolcezza che lo contraddistingueva sempre, il suo possibile e definitivo ritorno entro il termine del mese.
Gli mancava laggiù, in quegli accampamenti sporchi, in quei luoghi caratterizzati da tritolo e odore di cadavere.
Aveva paura, Vegeta, dello stato mentale in cui sarebbe tornato.
Temeva ancor più quel “se”, che fingeva di non vedere, anche sentendone la pesante presenza che gravava ostinata sulle spalle stanche.
E se non fosse tornato?
Così, sempre rifiutandosi di dar spazio nella sua  mente a quella domanda, si sedeva lì ogni pomeriggio da una settimana a quella parte, davanti alla finestra, con un libro e una coperta in mano fino a notte fonda, illudendosi di poter stare più calmo con essi, magari che il romanzo l’avrebbe distolto dalla sua preoccupazione principale. Il lunedì però passò inerme, seguito da un martedì immobile e un mercoledì angosciante; e così, come petali nel vento, la speranza di Vegeta veniva spazzata fino all’ultima briciola, l’ultimo spicchio di illusione coperto da una nuvola di pessimismo, l’ultima traccia di colore cancellata da lacrime sfuggite al suo controllo .
Ormai, quel pomeriggio settembrino stava per volgere al termine, concludendo così quel mese assieme all’attesa, adesso considerata inutile.
Quella sera l’uomo muscoloso, ridotto a poco più di una vittima martoriata ma che ancora di morire non ne voleva sapere, assumendosi inoltre tutti i dolori che questo significava, avrebbe dormito ancora una volta solo, abbracciato alle vesti che ancora odoravano del soldato.
Era forte, il moro. Così forte che era riuscito a non piangere durante tutto quel tempo.
Adesso però, quella patina ghiacciata che si era creata intorno al suo cuore, un’autodifesa dal dolore che minacciava di invaderlo, iniziava a creparsi e la pena tanto temuta gli strinse il cuore in un pugno serrato.
Si alzò, accecato dall’angoscia, gli occhi adesso mostravano le loro venature rosse nel disperato tentativo di evitare di piangere.
Aveva voglia di urlare, di rompere qualcosa contro il muro, con l’orrendo pensiero che quello effettivamente non avrebbe portato indietro, tra le sue braccia, il suo amato Goku.
Goku.
Aveva evitato anche di pensare al suo nome, il dolore l’avrebbe reso preda di quella stessa pazzia che adesso non riusciva a controllare.
Raccolse un vaso: il vetro lucente rifletteva quelle iridi infuocate di follia prima che si scontrasse contro il muro dove in un numero infinito di occasioni Goku l’aveva spinto mentre le loro labbra si univano in un momento di profonda passione.
Ogni parete, ogni centimetro quadrato di casa gli riportava in mente istanti della sua vita passata.
Su quella mattonella, durante il loro trasloco, si era fermato e “Urca,” aveva esclamato “c’è un sacco di lavoro da fare!”.
In cucina, il giorno del suo compleanno, lo aveva silenziosamente scoperto mentre cercava di cucinargli dei pancake come piccolo presente. La situazione lo aveva così intenerito da non volergli rovinare la sorpresa:  nella stessa quiete era riuscito a salire gli scalini e rimettersi a letto, aspettandolo con il vassoio e il tentativo culinario ancora fumante e bruciacchiato nel piatto.
Davanti alle scale gli aveva urlato contro durante uno dei litigi prima dell’arruolamento, per poi correre in camera, chiudendosi a chiave e rompendo uno specchio.
Sul giaciglio del portone d’ingresso gli aveva lasciato un ultimo bacio prima che partisse, due anni precedenti.
Quella tristezza, divenuta rabbia e infine disperazione violenta, scemò all’improvviso, lasciandolo crollare indebolito sulle ginocchia.
Si distese, i singulti di un nuovo pianto senza lacrime che gli montavano nel petto, gli occhi appena socchiusi dalla stanchezza.
In quella posizione rimase per un tempo prolungato: secondi, minuti o forse ore, mesi, anni, ascoltando qualsiasi cosa lo circondasse.
Il miagolio di un gatto, quello dei vicini probabilmente, che chiedeva cibo.
La risata di un bambino, l’incespicare dei suoi passi.
E il motore di una macchina che si fermava dinnanzi alla sua dimora. Lo sportello che si apriva, e delle scarpe che toccavano terra.
Prima che i suoi stessi sensi se ne accorgessero, era in piedi a fissare nello spioncino della porta, a vedere chi fosse.
Dei capelli corvini, il sorriso vispo e dolce e gli occhi appena attorniati di rughe si rivelarono allo vista di Vegeta, le pupille assottigliate dallo stupore tanto da ricordare degli spilli color onice, attraverso la minuscola finestrella, mentre la mano tremante cercava a tentoni la maniglia della porta, spalancandola il prima possibile appena raggiunta, il timore che, se il pannello di legno che serrava ermeticamente la casa fosse stato chiuso troppo a lungo, l’uomo che se ne stava impacciato sotto il portico sarebbe scomparso in una nuvola di fumo.
Eccolo ancora lì invece, e i suoi ricordi non gli facevano giustizia.
Nelle sue reminiscenze quelle lentiggini non erano così marcate, gli occhi appena più tristi e i capelli non così folti. La guerra aveva portato in lui qualche cambiamento: il corpo più muscoloso di prima, dopo aver gettato in terra le borse, lo stringeva a sé così forte da fargli perdere il respiro; o anche il suo viso, che riportava qualche cicatrice leggera. Nello sguardo, però, c’era il mutamento più evidente: quello sguardo non sarebbe mai stato lo stesso del bambino troppo cresciuto che era un tempo; aveva visto la gente soffrire, magari a causa delle sue stesse mani. Neonati, appena infanti, erano morti e lui aveva posato le sue iridi sui cadaveri martoriati, se ne era sporcato le mani senza versare una lacrima. Chi piange è debole, diceva il loro capitano. E spesso, anche se gli occhi pungevano, nessuno si permetteva di farlo.
“ Kakaroth.” mormorò Vegeta,  finalmente non singhiozzando più.
Goku sciolse il loro abbraccio per osservare i contorni del viso dell’uomo basso che, di nuovo, tornava a fargli battere il cuore come un’adolescente.
E, mentre si chinava verso le sue labbra “Svegliati, Vegeta. Lasciami andare.” sussurrò dolcemente. E il campanello suonò.
 
Urlò, ridestandosi di soprassalto.
La schiena a pezzi gli rivelò che effettivamente aveva dormito sul pavimento per tutta la notte.
E qualcuno davvero aveva spinto il pulsante del citofono ma, ritenendo la casa fosse vuota, aveva lasciato la lettera nella buca apposita.
Così una busta gialla, una formale scritta a macchina e il timbro delle forze armate americane stampati sopra ad essa, scivolarono all’interno della casa con un tristissimo fruscio, planando brevemente come l‘ultima foglia che cade da un albero in una mattina autunnale.
 
 

 
  
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