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Autore: Alley    22/06/2014    6 recensioni
"Chiedimelo."
A volte basta una domanda per ricominciare.
[pre-slash]
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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È un attimo: apre la porta e il pugno parte senza attendere le disposizioni del cervello, s’abbatte contro il mento di Sherlock e contro due anni di strazio e d’attesa – perché l’ha aspettato, non ha mai smesso di aspettarlo, malgrado fosse conscio di quanto inutile e stupido fosse.

Si è commiserato e biasimato e finanche maledetto, ma non ha mai trovato il coraggio di recidere il cordone che lo legava ad un ricordo divenuto ormai tossico; s’era ormai rassegnato a trascorrere la vita anelando il ritorno di un fantasma.

Peccato che i fantasmi non suonino il campanello e non perdano sangue.

John s’aspetta sollievo, il conforto rabbioso di chi ha consumato una piccola vendetta, ma l’unica cosa ad arrivare è il dolore alle nocche. Non è più avvezzo al combattimento, non sa più colpire senza subirne le conseguenze – il bruciore alle dita è quella che meno teme.
 
Guarda Sherlock riacquistare l’equilibrio dopo aver barcollato leggermente, lo osserva mentre solleva il viso e si strofina il labbro spaccato con il dorso della mano. In ogni sua movenza c’è una calma piatta e misurata che gli fa tremare i pugni ancor più forte, perché non puoi risorgere e ostentare indifferenza, non puoi far pacatamente crollare l’unica certezza rimasta ad un uomo andato avanti per inerzia.
 
Quel dato secco e incontestabile – il mio miglior amico, Sherlock Holmes…è morto - è stato il suo unico appiglio in due anni passati a precipitare e vederselo strappare è…destabilizzante, come un assalto improvviso, col nemico che ti coglie totalmente sguarnito.
 
Sherlock non dice nulla e forse è meglio così, perché un altro pugno è l’unica replica che John potrebbe fornirgli; lo supera – solo in quel momento John s’accorge d’essere indietreggiato per liberare la soglia - in religioso silenzio e s’inoltra nel piccolo appartamento, dirigendosi verso una stanza che sa essere ancora sua.
 
E se mi fossi trovato un altro coinquilino?
Se avessi voltato pagina?
Se non ti volessi?

 
Domande troppo stupide – troppo ovvie - per uno come Sherlock Holmes.
 
*
 
Una settimana dopo John si decide a rivolgergli la parola, sperando che una domanda posta a voce alta basti a zittire quella che gli martella nella testa.
 
Hai…?
 
Troppo sentimentale, si dice, ma la verità è che preferisce eludere una risposta che potrebbe non piacergli. Non vuole subire altri colpi; non sa se sarebbe in grado di reggerli.  
 
“Perché non me l’hai detto?”
 
Sherlock replica con il piattume di chi elargisce un’informazione di servizio. “Per la tua sicurezza.”
 
“Molly lo sapeva.”
 
John ha scoperto che l’ha aiutato a imbastire la messinscena. Il come non è stato svelato e lui non intende indagare.
 
“Ho avuto bisogno della sua collaborazione.”
 
Nessuno dei due aggiunge altro.
 
*
 
Due settimane dopo John le vede per la prima volta, attraverso lo spiraglio tracciato dalla porta socchiusa.

Spia spesso Sherlock da quando è tornato, quasi avesse bisogno d’accertarsi che sia davvero lì, che non si sia dissolto come hanno fatto i sogni e le allucinazioni che ha accumulato durante la sua assenza.
 
Nel momento in cui si sporge per sbirciare dalla fenditura e adocchia la schiena di Sherlock, il cuore gli si blocca nel petto: le cicatrici disegnano un unico, intricato intreccio che sfigura la pelle dalle spalle alla vita, una trama di linee sottile e cordoni in rilievo che non possono che essere un lascito del tempo trascorso lontano da Baker Street. 
 
Lontano da lui.
 
Ognuna di quelle cicatrici racconta una storia che non conosce; sono storie che Sherlock ha accettato di farsi scrivere addosso per un'unica, dolorosa ragione, e John vorrebbe essere abbastanza egoista da farselo bastare.
 
Per la tua sicurezza
 
 
*
 
“Cosa ti è successo?”
 
Cosa ti hanno fatto?
 
È passata un’altra settimana. Da quando Sherlock è tornato il tempo scorre veloce come l’acqua di un fiume in piena. È difficile farci l’abitudine dopo due anni vissuti a rallentatore. Ogni istante di quei settecentotrenta giorni è stato eterno, un’agonia lunghissima; interminabile.
 
“Niente che non potessi sopportare.”
 
Sherlock gli risponde senza guardarlo e John ha l’impressione che gli abbia letto nella mente.
 
Come sempre.
Come
prima.                                                                          
 
No. Prima non aveva quella voragine nel petto, né un dubbio conficcato nella testa come un tarlo. 

Prima è qualcosa che vorrebbe disperatamente riavere ma che, per adesso, resta una chimera da domare.
 
*
 
John spalanca gli occhi e il buio della stanza l’avvolge come un sudario. Lascia andare le lenzuola che ha artigliato inconsapevolmente, si solleva appena e cerca di regolarizzare il respiro - operazioni così abituali da avere il sapore di un rito.  
 
Gli incubi sono sempre stati una costante, una compagna fedele che non ha mai cessato di affiancarlo. Prima avevano il volto feroce della guerra, poi hanno assunto le sembianze di un salto nel vuoto e di un cadavere riverso sull’asfalto.

Adesso hanno perso forma e consistenza, sono un buco nero che lo inghiotte e lo schiaccia fino a quando non si sveglia con il cuore che sbraita nel petto, la fronte imperlata di sudore e un nome stampato sulle labbra – ma non lo pronuncia. Non lo pronuncia mai.
 
C’è stata solo una fase della sua vita in cui gli incubi hanno smesso di guastargli il sonno, ma è finita sepolta sotto le ceneri di una menzogna che non riesce a superare.
 
Se in passato aprire gli occhi era un sollievo, ora è tornare a fare i conti con una situazione che non sa nemmeno decifrare.
 
John appoggia le spalle alla testiera e fissa la porta, blandamente illuminata dal bagliore che filtra attraverso le imposte. È sicuro che Sherlock sia appostato lì fuori. Non è la prima volta che ha quella sensazione e, pur non avendola mai verificata, è certo che sia fondata.

Come ogni notte spera che entri: sa che non lo farà e che, seppure lo facesse, lui lo manderebbe via.
 
Hai…?
 
Vorrebbe che quella porta fosse davvero l’unica cosa che li divide.
 
*
 
Il mattino dopo John trova Sherlock immerso nel frigorifero, intento a sistemare al fresco chissà quale organo o arto tagliuzzato.
 
Sarà colpa della sonnolenza non ancora smaltita, ma la visione risulta fumosa, quasi onirica, la proiezione di una vecchia immagine riemersa dall’abisso di un passato sbiadito.

La signora Hudson potrebbe impressionarsi
Non tirare in ballo la signora Hudson, John. Sei tu la donnicciola svenevole, non lei


Per un istante ha la sensazione che nulla sia cambiato, e invece, nulla è quello che è rimasto uguale.
 
Hai…?
 
Ma forse è così soltanto per lui.
 
*
 
John è immerso nella lettura di un quotidiano quando Sherlock comincia a suonare.
 
Per un momento, smette di respirare: è il momento in cui pezzi di memoria gli piombano addosso e si conficcano nella carne, mentre la musica, quella musica che per due anni ha continuato a suonare imperterrita nella sua testa, acuisce un dolore che è una ferita aperta e sanguinante.
 
Le doti taumaturgiche del tempo sono una favola che ti racconti quando non hai più nemmeno la speranza a cui aggrapparti; il tempo non ha sanato quella ferita e l’unica cosa che John credeva in grado di cicatrizzarla – te lo dico io cosa fare. Smetti di essere morto – ha finito per allargarla.
 
La realtà frantuma desideri e aspettative, li riduce in brandelli in cui non riesci più a riconoscere te stesso; la realtà è sempre un’altra storia e impattarvi contro non produce mai gli effetti che t’aspettavi.
 
Hai…?
 
Per la prima volta John è sul punto di chiederglielo davvero, ma, alla fine, le parole gli muoiono in gola.

Forse è stata la musica ad ucciderle.  
*
 
“Chiedimelo.”
 
È passato un mese – o forse due? – quando viene raggiunto da quell’esortazione. È la prima volta che è Sherlock a rivolgergli la parola e John non sa se la cosa gli abbia arrecato piacere o fastidio.
 
“Che cosa?”
 
“Non lo so, ma è evidente che tu non sia…” una pausa, una ruga sottile disegnata dal dubbio “…soddisfatto.”
 
Non è la parola giusta. Lo sanno entrambi, ma John non obietta e Sherlock non si corregge. È confortante, in un certo senso, perché loro sono sempre stati questo; cose dette male, nascoste dietro frasi spezzate che lasciano intendere senza mai esplicare. Il silenzio è la veste che più gli si addice, ma, a volte, il silenzio non basta. Non basta a riempire un vuoto reso soltanto più profondo da ciò che avrebbe dovuto colmarlo.   
 
“Ho risposto alle tue domande in maniera esaustiva, pertanto, non può essere quello il problema.”
 
Ottima analisi, signor Holmes. Vedo che non ha perso il suo smalto. È un pensiero che la mente sputa via con rancore, come fosse un bolo indigesto.
 
“Quando ti ho chiesto cosa ti fosse successo hai detto niente che non potessi sopportare. Davvero la reputi una risposta esaustiva?”
 
“Non è questo il punto, John.”
 
È la prima volta che Sherlock pronuncia il suo nome da quando è tornato, e John vorrebbe che non gli bastasse così poco a fargli tremare la terra sotto i piedi.
 
Ripetilo
 
“Come diavolo fai a sapere qual è il punto?”
 
Ti prego
 
“Perché ti conosco.”
 
Ripeti il mio nome
 
“Conosci quello che hai lasciato due anni fa: potrei essere cambiato.”
 
“Le persone non cambiano.”
 
“Hai ragione: tu sei rimasto il solito stronzo.”
 
Ormai il risentimento ha sfondato gli argini ed è divenuto una valanga inarrestabile. Poco male; John non intendeva provare a reprimerlo.
 
“Vuoi sapere qual è il problema? Il problema è che in questi due anni non c’è stato un giorno, un solo giorno in cui non mi sia sentito…” forse non dovrebbe dirlo; forse è troppo, è oltrepassare il confine che si sono sempre premurati di non calpestare, ma non gli importa “…a metà.”
 
Il sollievo, quello che s’era aspettato di ricevere dal pugno, arriva adesso; detona come un’esplosione, sconquassandolo fin dentro le ossa.
 
“Spunti fuori all’improvviso e ti comporti come se non fosse successo nulla, come se non…”
 
Hai…?
 
“…come se non avessi bisogno di essere perdonato.”
 
Per la prima volta la rabbia cessa di roderlo, e persino il dolore pare affievolirsi. Ci vorrà ben altro per estirparli – no, non sarà possibile, non scompariranno mai del tutto -, ma riuscire ad assopirli, addirittura a sospenderli, è un traguardo che sa di rinascita. E di vita. Come gli occhi di Sherlock – Sherlock che è lì ed vivo – fissi nei suoi.
 
 “Chiedimelo” ripete, e John tira un lungo sospiro con il quale raccoglie fiato e coraggio.
 
“Hai…sentito la mia mancanza?”
 
Cala un silenzio gravido di aspettativa; Sherlock lo spezza quasi all'istante. 
 
“Niente che non potessi sopportare.” John aggrotta la fronte senza capire. “Avrei potuto sopportare qualsiasi cosa pur di tornare.”
 
A casa.
Da te.

 
Sherlock non lo dice, ma John non ha mai avuto bisogno di parole per capire. 



















Note
So che il ritorno di Sherlock è già stato (splendidamente) raccontato in tutte le salse, ma adesso che mi son finalmente decisa a scrivere in questa sezione non potevo esimermi dal dire la mia. Non aggiungo nulla di nuovo, ne sono conscia, ma noi fanwriters abbiamo bisogno di scrivere per sfogare i feels, quindi era inevitabile che prima o poi finissi col cimentarmi con questo scenario ;__; 
Grazie a tutti coloro che hanno avuto la pazienza di arrivare fin qui. Spero li abbiate ritenuti dieci minuti ben spesi.
  
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