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Autore: Anna Wanderer Love    23/06/2014    6 recensioni
Jemima Wright è un'ex agente dello S.H.I.E.L.D, licenziatasi dopo aver subito gravissime ferite provocate dal Soldato d'Inverno nel corso di una missione segreta.
Un anno dopo di ritrova a lanciare coltelli contro quello stesso Soldato nella sua cucina.
Perché il Soldato d'Inverno è così ossessionato da lei? Perché la controlla, la segue dappertutto? E, soprattutto, perché quando Jemima guarda quegli occhi scuri non sente rabbia, ma solo compassione?
[Dal testo:]
Si chinò, inginocchiandosi. Lo guardavo con le lacrime agli occhi e la bocca piena di sangue, ma ero determinata a non cedere.
Il suo sguardo si spostò sulla mia gamba, intrappolata sotto a pezzi di cemento.
Con uno scatto si spostò vicino alla mia anca e sollevò un piccolo masso. Il sollievo che provai nel sentire quel peso non gravare più sulla mia carne fu quasi violento, ma prima che potessi muovermi o trascinarmi via da quella trappola un palo di ferro rovinò sulla gamba.
Urlai con tutto il fiato che avevo, mentre il dolore esplodeva nella mia mente.
L’ultima cosa che vidi prima di svenire fu il bagliore del suo braccio di metallo.
(Bucky/Soldatod'InvernoxNuovoPersonaggio) (StevexNatasha)
Genere: Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff, Nuovo personaggio, Steve Rogers, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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When Love arrives in the dark


( immagine di Ashqtara su Deviantart )


Il respiro usciva dalla mia bocca in rantoli spezzati. Ero piegata in due, mi mordevo la lingua così forte che sentivo in bocca il sapore ferroso del sangue.

- Jemima! - la voce di Natasha mi arrivò lontana, alle orecchie.

- Nat - la voce uscì dalla mia gola in un sussurro. La gamba pulsava e sentivo il sangue colare lungo la coscia, inzuppando il tessuto dei pantaloni. I passi rimbombavano tra le macerie dell’edificio, ma quando guardai in alto non furono gli occhi di Nat che vidi.

- No - la mia mano scattò a cercare la pistola, che avevo lasciato cadere quando mi era crollata la colonna addosso. Le mie dita l’avevano sfiorata quando lui la calciò via, torreggiando su di me. I suoi occhi erano frammenti di ghiaccio, freddo, impassibile, senza vita. Ma c’era una scintilla di curiosità in quelle iridi spente.

Si chinò, inginocchiandosi. Lo guardavo con le lacrime agli occhi e la bocca piena di sangue, ma ero determinata a non cedere. Non capivo nemmeno perché non mi avesse ancora uccisa, a dir la verità.

Il suo sguardo si spostò sulla mia gamba, intrappolata sotto a pezzi di cemento.

Con uno scatto si spostò vicino alla mia anca e sollevò un piccolo masso. Il sollievo che provai nel sentire quel peso non gravare più sulla mia carne fu quasi violento, ma prima che potessi muovermi o trascinarmi via da quella trappola un palo di ferro rovinò sulla gamba.

Urlai con tutto il fiato che avevo, mentre il dolore esplodeva nella mia mente.

L’ultima cosa che vidi prima di svenire fu il bagliore del suo braccio metallico.
 

Un anno e due mesi dopo.


Mi svegliai sudata, tremando incontrollabilmente.  Avevo sognato di nuovo quella notte, la notte in cui l’avevo visto per la prima e ultima volta.

Mi passai una mano tra i capelli, raccogliendoli in una coda spettinata per evitare che si appiccicassero al collo. Gettai un’occhiata alla sveglia sul comodino. Le lettere fosforescenti segnavano le sei e sedici minuti.

Sbuffai, scostando le lenzuola blu notte e massaggiandomi le tempie. Il mio sguardo cadde sulla gamba destra. La cicatrice era sempre lì, orribile, di un rosa più chiaro rispetto alla pelle. Era lunga circa una spanna e mezzo, grossa e dritta, che mi attraversava la coscia zigzagando in verticale.

Quando ero rinvenuta in ospedale, con i medici che dicevano che avrei anche potuto rimanere paralizzata, Natasha mi aveva detto che mi avevano ritrovato un paio di metri lontana dalle macerie. Ero arrivata a una conclusione: era stato lui a tirarmi fuori di lì. Ma perché, se poche ore prima aveva cercato di uccidermi?

Avevo fatto credere a tutti che ero riuscita a strisciare fuori dalle macerie da sola, ma ogni volta che lo ripetevo nessuno sembrava convincersi più di tanto.

Mia mamma e mia sorella non sapevano nemmeno che lavorassi come agente dello S.H.I.E.L.D. perciò avevo fatto credere loro di aver avuto un incidente con la macchina. Ma ogni volta che qualcuno sfiorava quell’argomento mi affrettavo a cambiare discorso, evitandolo come la peste.

Dopo i tre mesi passati in ospedale, in riabilitazione, in cui ero riuscita a camminare dopo duri sforzi, ero tornata a casa e avevo dato le dimissioni come agente. Natasha era l’unica con cui avevo mantenuto i contatti e che veniva a trovarmi sporadicamente, quando non era impegnata a salvare la pelle al mondo da tutti e tutto.

Mi morsi il labbro, prendendo un respiro profondo. La cicatrice pulsava, i muscoli della gamba erano contratti. Succedeva ogni volta che facevo quell’incubo.

Non era un incubo... semplicemente ricordavo cos’era successo quella notte. Ma ogni volta era come se fossi di nuovo lì, tra le macerie, sanguinante e dolorante, con la disperazione che prendeva lentamente il posto del sangue.

Appoggiai le mani sulla coscia e cominciai a massaggiare lentamente i muscoli. Odiavo quelle notti.

Quando finalmente riuscii a rilassarmi, mi alzai, stando attenta a non caricare il peso sulla gamba. Con un sospiro mi diressi in cucina per fare colazione, ricordandomi di dover andare al lavoro.

Fare la cameriera non procurava l’adrenalina di essere un'agente dello S.H.I.E.L.D, ma se volevi startene tranquilla senza altro da fare che dover servire alcolici e cercare di sventare gli attacchi del tuo capo al tuo fondoschiena... be’, era esattamente il lavoro che faceva per te.

Mi vestii, dopo una breve colazione -latte e una fetta di torta al cioccolato... già, avevo messo su un paio di chili da quando non dovevo più saltare e sparare a destra e manca.

La divisa del bar-ristorante era semplice e molto libera: potevi metterti qualunque cosa, bastava che indossassi il grembiule nero con la scritta bianca stampata sul petto DANTE’S.

Afferrai il sacchetto con il grembiule, indossai gli stivali e il giubbetto beige e uscii di casa, ancora assonnata e frastornata.


Quando entrai nel bar una folata di aria calda e umida mi investì. Chiusi la porta di vetro dietro di me. Il bar era completamente vuoto, le sedie erano ancora sistemate sopra ai tavoli, ma se era aperto allora Dante non doveva essere molto lontano. Probabilmente stava facendo esperimenti in cucina. Come sempre.

- Sono qui! - gridai verso la cucina, andando dietro al bancone e indossando il grembiule.

Dante apparì da dietro l’arco che faceva da passaggio in cucina. Mi sorrise. Era un ometto piccolo, con folti capelli neri sempre spettinati e sempre entusiasta di tutto e tutti.

- Tesoro! - esclamò ammiccando, mentre osservavo rassegnata le macchie di olio e verdure sulla sua divisa da chef.

- Ciao - mormorai abbozzando un sorriso stentato.

Il suo sorriso si appannò, mentre aggrottava le sopracciglia e mi fissava imbronciato.

- Ahimé, mon chéri! Che hai fatto? Quella faccia non va bene, nonono! I clienti scapperanno! Sorridi un peu - mi rimproverò col suo accento francese, mentre tornava in cucina e spadellava con fragore.

Mi lasciai scappare una risatina, mentre un frastuono di pentole che cadevano riempiva il bar. Un “ahi” piuttosto forte spazzò via l’ultima traccia di tristezza.

I primi clienti arrivarono dopo una quarantina di minuti. Era sabato mattina, perciò c’era più gente del solito, ma riuscii a cavarmela... finché non arrivò mezzogiorno. L’ora di pranzo era quella più odiata da chiunque lavorasse in un bar o in un ristorante. I clienti aumentavano, le ordinazioni si confondevano, tutti diventavano irascibili e di fretta.

- Jemima! Vai a prendere le ordinazioni al tavolo sei - gridò Louis da dietro il bancone.

Feci un cenno distratto con la mano, sorridendo alla coppia a cui stavo chiedendo le ordinazioni. La ragazza era tremendamente indecisa e continuava a cambiare opinione; come tutte le volte che mi ritrovavo in quella situazione provavo un feroce istinto che mi diceva di prendere la pistola e puntargliela alla testa per risolvere il problema, ma mi limitai a sorridere e a scappare prima ancora che potesse cambiare di nuovo idea.

Finalmente, dopo mille interminabili giri tra la cucina e la sala da pranzo, i clienti diminuirono e finì il mio turno. Sospirai di sollievo, mentre mi slegavo il grembiule e lo infilavo nel sacchetto. Mi sciolsi i capelli dalla coda di cavallo e salutai Louis, Dante e gli altri tre camerieri/aiuto cuochi prima di dirigermi verso l’uscita, schivando i tavoli e le persone che chiacchieravano allegre.

Non vedevo l’ora di uscire; quel lavoro mi piaceva abbastanza, ma alla lunga mi stufavo. Niente a che fare con l’essere agente...

Mentre uscivo urtai una spalla di un uomo che stava entrando proprio i quel momento.

Feci una smorfia di dolore, portandomi la mano al braccio, colpito dal suo gomito, ma lui era ormai sparito nella calca del bar.

Alzai gli occhi al cielo, borbottando contro la maleducazione di certe persone, e uscii.

Lasciandomi alle spalle il calore del locale mi sembrò anche di lasciare indietro uno sguardo puntato sulla mia schiena, ma quando mi voltai per controllare non c’era nessuno che mi stava guardando al di là della vetrata.

Stringendomi nelle spalle mi voltai e cominciai a camminare, diretta verso casa.


Fu una settimana stressante, non solo perché cominciai ad avere incubi ogni notte, ma anche perché sentivo che c’era qualcosa che non andava.

Certo, era da un anno o poco più che non prendevo in mano una pistola, ma di sicuro mi sentivo più sicura se ne avevo una a portata di mano; perciò presi l’abitudine di dormire con la mia Beretta sul comodino.

Mi sentivo osservata, soprattutto al lavoro o quando ero a casa, perciò iniziai a restare in giro per la città fino a tarda sera. Quando rientravo avevo a malapena la forza di mangiare qualcosa e ficcarmi sotto alle coperte, temendo di fare il solito incubo, cosa che puntualmente si avverava.

Giovedì notte però mi svegliai in silenzio. Gettai un’occhiata al comodino, restando immobile e continuando a respirare profondamente. Erano le due e trenta.

Sospirai, ma quando feci per chiudere gli occhi vidi un’ombra muoversi sul pavimento, e mi immobilizzai, mentre il respiro mi si bloccava. L’ombra si fermò all’istante, ma quando non mi mossi allora la vidi spostarsi lentamente verso destra.

Chiusi gli occhi.

Qualcuno mi stava spiando dalla finestra.

Avevo due possibilità: stare ferma e aspettare che lui o lei facesse la sua mossa, o afferrare la pistola e cominciare a sparare. Non ero mai stata un tipo molto paziente, perciò decisi all’istante.

Con uno scatto mi allungai verso il comodino, afferrando la Beretta, e mi voltai di scatto.

Sparai due colpi e il vetro della finestra andò in frantumi. Grazie a Dio l’appartamento era al primo piano.

L’ombra però fu più rapida di me: si abbassò e prima che potessi fare qualsiasi cosa saltò dentro alla stanza con un balzo agile. Atterrò sul letto, e schizzai in avanti, provando a colpirlo -era un uomo, era troppo muscoloso e alto per essere una donna- ma lui mi afferrò il braccio con una presa ferrea.

Gridai dal dolore, mentre mi torceva il braccio e le mie dita si aprivano, lasciando che la pistola cadesse sul letto. Mi dimenai, mentre la mia mente registrava un dettaglio che all’improvviso mi fece fermare del tutto, mentre il cuore mi balzava in gola.

Le dita che mi stringevano il braccio -e non poi così forte- erano troppo fredde e dure per essere fatte di carne.

- Ferma - sibilò la sua voce roca, mentre si chinava verso di me. - Non voglio farti male.

Approfittai di quella vicinanza. Gli diedi una testata che gli fece perdere la presa.

Gemette, mentre io correvo via dalla stanza, terrorizzata a morte. La cicatrice pulsava e sembrava che le mie gambe fossero fatte di gelatina.

Mi ritrovai in cucina, con lui alle calcagna. Afferrai il coltello che avevo usato per affettare il pane quella mattina, e girandomi lo lanciai mirando alla sua testa. Si spostò, e la lama si conficcò nello stipite della porta.

Il suo volto non era più in ombra, così ebbi la possibilità di vederlo per la prima volta, dato che quella sera di un anno prima non ci ero riuscita: due occhi scuri mi fissavano freddi, ma pieni di... qualcosa di indefinito, un misto tra odio, ammirazione e confusione. I capelli, marroni e lunghi, gli circondavano un volto che trasudava freddezza da ogni piega del viso, freddo ma pieno di perplessità. Un accenno di barba gli colorava le guance. L’avrei trovato carino, se non fosse stata la stessa persona che aveva cercato di ammazzarmi due volte.

Fece un passo in avanti e io tre indietro. Afferrai il cassetto e lo aprii, afferrando due coltelli, uno per ogni mano. Ero sempre stata brava nel lanciarli.

Lui alzò le mani, una rosa, l’altra di metallo e fredda come il ghiaccio.

- Aspet... - cominciò a dire, ma non lo lasciai finire.

Lanciai i coltelli, e lui si abbassò di scatto sulle ginocchia, correndo in avanti ed evitando che le lame gli si conficcassero in gola. Non riuscii nemmeno a fare un respiro che mi ritrovai afferrata per la gola, mentre mi buttava di schiena sul tavolo. Il dolore esplose in macchioline viola nel mio campo visivo, mentre sentivo la gola bruciare per la forza della sua presa. Allungai le mani e afferrai il bordo della sua tuta da combattimento, ansimando per lo sforzo di far entrare aria nei miei polmoni. Il suo volto era a mezzo centimetro dal mio, i suoi occhi scuri e cupi come abissi che si specchiavano nei miei.

Non si mosse, nemmeno quando tirai la stoffa dei suoi vestiti con tutte le mie forze.

- Non... respiro... - rantolai, mentre il mio corpo cominciava a tremare.

Lui assunse un’espressione sorpresa, mentre allentava la presa sulla mia gola. L’ossigeno entrò con violenza nei polmoni, facendomi tossire. Lui non si scostò, ma continuò a tenere la mano -quella naturale- sulla mia gola, aspettando che mi riprendessi.

Pochi secondi dopo sbattei le palpebre e lo vidi ancora lì.

- Chi diavolo sei? - sussurrai con voce strozzata.

I suoi occhi si rabbuiarono, mentre una ruga si formava tra le sue sopracciglia.

- Non lo so - mormorò, col fiato che si infrangeva sulle mia guance.

Lo guardai sgranando gli occhi. Quello che aveva detto era impossibile, ma non sembrava che stesse mentendo. E rimasi ancora più sorpresa quando lui si ritrasse di scatto, togliendo la mano dalla mia gola.

Mi raddrizzai con una smorfia di dolore. Lui abbassò gli occhi e rimasi impietrita, mentre la sua espressione variava da impassibilmente gelida a lievemente colpevole. Seguii il suo sguardo e mi accorsi che i pantaloncini verde mela che indossavo non mi arrivavano neanche a metà coscia, scoprendo così del tutto la brutta cicatrice.

Dopo qualche secondo tornai a guardarlo, e scoprii che mi stava fissando.

Qualche secondo dopo le parole più insensate della mia vita mi uscirono dalla bocca.

- Ti va una tazza di caffé?







ANGOLO DELLE CIAMBELLE CARNIVORE BLU:
Bene, ehm. Salve a tutti *agita la manina*
Sempre se c'è qualcuno a cui dire salve O.o
Allora, dato che ieri mi sono guardata il primo film di Cap e mi sono terribilmente innamorata di Bucky e lo amo ancora di più se penso che è il supercattivo non tanto cattivo del secondo... be', ho deciso di scrivere una fanfiction su di lui.
Jemima è una giovane ragazza con ferite fresche... povera piccola :( ok, ma non è tanto povera piccola quando lancia coltelli ovunque :D
Aaw, ma non sono teneri? Ok, mi sto s*********o davanti a tutti allegria :D
Ma ovviamente, come sempre, c'è qualcos'altro sotto. Chi sarà la misteriosa Natasha? Perché Dante combina sempre casini?
Uhm, okay, l'ultima domanda non c'entra nulla :D sono solo un po' fusa.
Ora, dato che siete arrivati fino a qui...

 
Recensite!
Sebastian apprezzerà moltissimo!



 
Bacio!
Anna
   
 
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