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Autore: BloodyRoad    27/06/2014    2 recensioni
"Quando era piccolo, la sua Obaasan gli diceva che ‘Le gocce di pioggia sono le lacrime delle anime disperse.’. E Lea iniziò a credere che quella notte del 15 agosto dall’oltretomba le anime stessero piangendo tutta la loro tristezza."
[AU. OOC. Lea/Isa. Come li vediamo in KH3D, avete presente?
Dedicata a te che riempi le mie giornate con un sorriso. Sempre.]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Axel, Saix
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Altro contesto
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Piccole note prima di cominciare.
Nonostante studi giapponese e la storia giapponese, potrebbero esserci imprecisioni in ciò che scrivo. Come indicazione storica si prenda l’era Tokugawa.
Mi scuso per eventuali inesattezze che potrebbero offendere chi studia/si interessa di queste cose, come me.
Mi scuso anche solo di averla scritta, questa cosa.
Scritta di getto. In realtà, è un ‘regalo’.
Tanti auguri. So che capirai.

 

Ueda Akinari scrisse nel 1768  gli ‘Ugetsu Monogatari’, i racconti di pioggia e luna.
Ambientati proprio il 15 agosto.
E’ tradizione giapponese credere che la notte del quindici agosto, con la luna piena e la pioggia, gli spiriti si manifestino e raccontino la loro storia.

 

 

 

 

八月。十五 日。

夜から、覚ます。

満月を探し ます。

 

Hachigatsu. Juu-go nichi.
yoru kara, reikon ga samasu.
Mangetsu o sagashimasu.

 

15 agosto.
Dalla notte in poi, gli spiriti si risvegliano.
Cercano la luna piena.

 

Pioveva.
Quando era piccolo, la sua Obaasan gli diceva che ‘Le gocce di pioggia sono le lacrime delle anime disperse.’. E Lea iniziò a credere che quella notte del 15 agosto dall’oltretomba le anime stessero piangendo tutta la loro tristezza.
Accadeva ogni estate, nel momento esatto in cui, tra le nubi della notte, la dea luminosa si mostrava timida tra le coltri del cielo.
Non c’era modo di non vederla, anche con le gocce scroscianti.
Non aveva un ombrello, Lea. Non aveva voluto portarlo con sé.
In effetti, la sensazione bagnata sulla pelle lo faceva star bene. Lavava via quell’alone di morte che impregnava lui, il suo yukata leggero e tutta la sua famiglia.
Loro vivevano nella morte.
Nel loro sangue scorreva il dono di poter attraversare quel ponte effimero che collegava la carne al puro spirito.
Loro avevano il potere di sentire le voci di chi non c’era più.
E per questo, venivano trattati con onore e rispetto. Con una lieve nota di venerazione, la gente del villaggio si rivolgeva a loro. Per parlare con un caro defunto. Per sapere cosa le anime del Purgatorio avevano scoperto riguardo certi complotti.
Per cacciare via gli yuurei.

 

Quello era un incarico gravoso. Pericoloso ed ingrato.
E Lea si chiedeva perché fosse toccato proprio a lui come prima commissione, appena finito il suo apprendistato al tempio.
Una vera e propria eccezione. Uno dei pochi uomini accolti assieme alle miko.
La sua Obaasan lo teneva in eccelsa considerazione.

‘Hai un grande potenziale…’ gli sussurrava sempre, nell’atmosfera quasi onirica e semicosciente provocata dall’odore forte ed intossicante dell’incenso.
Si poteva credere, forse, che un uomo potesse turbare la calma delle fanciulle all’interno del tempio, o addirittura, potesse ambire alla loro purezza.
Ma mai Lea aveva tradito la fiducia di chi lo aveva raccolto da terra, scambiandolo per un cencio sporco.
E ora, per un ingente somma di denaro, toccava a lui cacciare via dalla dimora del Daimyo del suo han lo spirito amareggiato di quello che in vita fu forse un figlio del popolo sofferente e disilluso.
Lea non immaginava neppure.

“La sua presenza ci onora.” Gli disse il servo del Daimyo, con un inchino servile. Un inchino che Lea seppe ricambiare, seppur con estremo imbarazzo.
La vita sociale non sembrava fatta per lui. Ma in quel mondo fluttuante di gesti e riverenze, Lea non era altro che un prigioniero senza alcuna via d’uscita.
“Non dica così…sono qui solo per compiere il mio dovere.” Protestò gentilmente. “…posso vedere il padrone di casa, vero?”
Il servo esitò. Con molto imbarazzo, disse che il padrone era estremamente impegnato in quel momento.
Non ci voleva certo un sensitivo, per capire.
“Ma non se ne curi adesso. E’ bagnato ed affamato. Ci permetta l’onore di rifocillarla.”
Lea avrebbe fatto di tutto, pur di farlo stare zitto.

Dopo un bagno caldo ed una cena importante, Lea ottenne finalmente di poter parlare col padrone.
Sapeva già cosa aspettarsi nel momento stesso in cui avrebbe messo piede nella stanza.
Una sontuosa sala da tè, arredata da cuscini e sete pregiate, un tavolo al centro colmo di sakè e donne avvenenti che lo servivano a chi vi era seduto accanto.
Lea trattenne un moto di disgusto.
Questa era una persona oltraggiata da uno spirito?
Accettò di sedersi al tavolo, ma nemmeno guardò le due donne, né accettò un solo goccio di sakè.
E con pazienza, e sopportando il puzzo dell’alcool, ascoltò quanto avesse da dire il padrone, con la sua voce da beone felice.
“Ogni notte, ogni notte di luna piena!” si lamentava, tra un goccio e l’altro, tra una carezza poco consona ora alla donna di destra, ora a quella alla sua sinistra. “Sento la sua voce, le sue urla, i suoi lamenti. E se mi becca sveglio…! Una volta mi lanciò contro un intero servizio da tè, costosissimo, tra l’altro!”. Un sussulto provocato dal troppo bere, una risata sguaiata. Il vecchio continuò coi dettagli. Quel fantasma era piuttosto violento.
Le urla ed il lancio di tazze non erano niente. Ben tre servi erano morti soffocati davanti agli occhi spaventati delle damigelle, senza che qualcosa effettivamente li ferisse o li stringesse.
Ma potevano vedere il loro collo ridursi e striminzirsi come una corda, tra le urla di terrore.
Altre volte, con falci dorate, strappava arti agli altri domestici, lasciandoli sparpagliati per casa.
La consorte del daimyo era impazzita, e si era tolta la vita. Perderò tutto, perderò tutto! Piagnucolava, spaventata. E poi si gettò dal tetto del palazzo. Con suo figlio in grembo.

“…ma per fortuna, gli dei mi hanno protetto, e sono vivo, no? A differenza dei poveri altri disgraziati!”.
Un’altra risata. Lea si rammaricò che il fantasma non avesse fatto il suo dannato dovere ed ucciso quell’essere ripugnante.
Ma prese mentalmente appunti. Realizzò, schiudendo di più gli occhi.
Un onryo?
“Ha idea di chi si possa trattare?” domandò, iniziando ad agitarsi per la scomoda posizione assunta sulle ginocchia. Il Daimyo scrollò un po’ le spalle, bevve un altro bicchiere di sakè, e commentò “Mah, forse uno dei miei vecchi samurai…uno dei traditori della mia dimora.”

L’hai ucciso tu, dunque, vecchio porco?

Lea scattò in piedi, senza nemmeno chiedere il permesso.
“Andate tutti a letto, devo esaminare le stanze in silenzio.”
Il Daimyo si indignò davanti a quell’impudenza.
Ma in fin dei conti, cosa costava andare a dormire un po’ prima?
Si sarebbe rifatto la notte successiva, disse. “Una notte senza fantasmi! Solo belle donne, zuppa e sakè!” e via un’altra risata divertita, mentre si ritirava nella sua stanza da letto personale, soffiando su tutte le candele che ispiravano un lieve torpore.
Lea non era più sicuro di voler aiutare quell’uomo.

Ma pensò alle altre persone che vivevano lì.
Quello spirito va calmato. Subito.

Le cicale piangevano nella notte, accompagnando il suono disperato del pianto del cielo.
Lea camminava al buio, tra i corridoi stretti e silenziosi del palazzo.
Camminava lento, gli occhi chiusi, il respiro calmo.
Attento al minimo segno, alla più piccola presenza, al suono più sottile…
Nulla.
Solo il suono dei suoi passi sordi.
Solo il vento che soffiava forte, fuori.
Solo un respiro…

un respiro.
Lea spalancò gli occhi, voltandosi improvvisamente, il cuore a mille.
Aveva assunto un atteggiamento stoico, fino ad ora, ma il pensiero di trovarsi per davvero con uno spirito, senza l’aiuto della sua Obaasan, lo aveva gettato nel panico.
Osservò a lungo il corridoio illuminato dalla luna.
Un immenso sentiero di oscurità. Si chiese come avesse fatto a percorrerlo.
Il suo cuore si calmò mentre il suo sguardo attento non riusciva ad intravedere nulla di pericoloso.
Buio, buio e solo buio.
Prese un profondo sospiro. Non c’era niente, niente.
Non c’era niente.
Si voltò di nuovo, per tornare sui suoi passi.

Occhi dorati, figli della luna nelle tenebre.
C’era lui.

 

Le labbra di Lea si schiusero, per far scappare l’urlo di terrore più disperato che i suoi poveri polmoni avessero mai avuto la necessità di emettere.
Cadde all’indietro, senza distogliere gli occhi da …Lui.
Tremando e respirando come se non avesse mai assaporato l’ossigeno, Lea rimase disteso a terra, bloccato.
Poteva vederlo perfettamente. I suoi occhi erano allenati a questo.
Quei capelli lunghi, del colore del fiume di notte.
L’aria imponente, di chi aveva combattuto infinite battaglie.
Lo sguardo del guerriero.

Una croce in mezzo al volto.
L’abito bianco dei defunti che ricadeva lungo il corpo perfetto.
Lea avrebbe ammirato all’infinito quella figura spettrale ed inquietantemente bella.
Se solo non avesse saputo che avrebbe potuto essere l’ultima cosa che i suoi occhi avrebbero visto.

In preda alla paura, e non esattamente come un sensitivo dovrebbe agire, Lea scattò di nuovo in piedi, per correre in direzione opposta a quella dello spettro.
Che non aveva intenzione di lasciarlo andare.
Perderai tutto.

 

La corsa di Lea era tanto disperata quanto inutile.
Sentiva il respiro della morte proprio accanto a sé.
Ovunque tentasse di voltarsi, lo spettro era lì ad attenderlo, allungando le sue mani fredde su di lui.
A nulla valsero le lacrime di terrore, a nulla servì ordinargli di lasciarlo in pace.
Qualsiasi porta aprisse, lui era lì.
ed era come se fossero rimasti loro due da soli, senza alcun servo, senza alcuna prostituta, senza il padrone del palazzo. Lo avrebbe confortato perfino la sua presenza!

Lo spettro sembrava avere la sua delizia nel terrorizzarlo così. Una forte risata rimbombava nelle orecchie di Lea, di tanto in tanto. Inutile coprirsi coi palmi delle mani, la sentiva scoppiare nella sua testa, facendolo rannicchiare sotto alla finestra in un corridoio, tremante.
Perdonami, obaasan. Non ci riesco!

Cominciò a piangere disperato, dannandosi di aver avuto quel dono fin da piccolo, dannando anche la sua fortuna nell’essere stato ritrovato proprio dalla sacerdotessa di un tempio.
Cominciò anche ad accettare, in qualche modo, l’idea che sarebbe morto nel modo più atroce possibile.
E magari avrebbe risparmiato il lavoro allo spettro, se solo…
…se solo quella porta…

Lea aprì gli occhi, respirando tremante, ed osservando con lo sguardo offuscato davanti a sé una porta.
L’unica illuminata dalla luce della luna, tra tante porte oscurate.
Una luce dolce e serena, che sembrava invitarlo.
Apri.

Apri, e ti salverò io.

Con l’aria sorpresa, Lea riuscì ad alzarsi.
Non sapeva quanto potesse fidarsi di quella voce.
Non era la sua…voce?

Solo…più calma…più…dolce…

Con fare cauto, passi lenti, Lea arrivò alla maniglia della porta. Era fredda.
Ma non esitò troppo a lungo.
Aprì.
E non poté credere ai suoi occhi.

Nella stanza, un uomo dai capelli blu e gli occhi dorati giaceva in mezzo, senza alcun indumento, le carni lacerate da frustate continue date da un ometto insignificante.
Un ometto che Lea conosceva bene.
Il Daimyo?

“Questo ti insegnerà ad intrometterti nei miei affari…” sibilò quello in piedi, dando un’altra frustata all’uomo per terra. Altre due guardie, dietro, ridevano beffarde.
Ma dalla bocca della vittima non usciva alcun suono.
Lo sguardo fiero di un uomo che poteva sopportare il dolore.

“Che peccato, Isa. Eri uno dei miei uomini migliori. E hai voluto per forza perdere tutto.” Un’altra frustata. Non un solo gemito. Una nota di disappunto nel daimyo. “…potevi dar fuoco a quel villaggio.”

“Il fuoco non è fatto per ferire.”

Una  frustata.

“…mi irriti. Implorami pietà, e ti lascerò stare.”

Non un solo suono dalla bocca di Isa.
Un’altra frustata.

“Basta…”
Isa non aveva aperto bocca nemmeno in quel momento, lasciando che il sangue scorresse su quel corpo che sembrava scolpito da Amaterasu in persona.

Sembrava un’opera d’arte.

L’incarnazione del dolore.
Dell’onore.

“chiedimi perdono!”

Silenzio.

“Verme insubordinato!”

“Ho detto basta…!”

“Perderai tutto. Ti disonorerò, lo sai?”

La frusta sibilò ancora.
Il viso di Isa era pietra.
“Vi prego no…!”

“Morirai solo. Ti lascerò sanguinare qui, finchè del tuo corpo non resterà che un cencio pallido! Ti resterà la luna come testimone, consolati…!”

Una risata sguaiata.

Ancora, e ancora, e ancora…
Nemmeno un singolo sussulto…

Ho detto basta…! Ho detto basta…!”

“Perderai tutto, Isa!”

“HO DETTO BASTA!”

 

Lea ansimava, le lacrime che sgorgavano copiose sul viso ora pallido.
Non aveva idea di cosa avesse visto, ma all’improvviso, come sabbia nel vento, tutto era sparito.
Ora, al centro della stanza, c’era solo lui.
seduto in silenzio, lo sguardo chino.
Isa.

 

Lea scordò tutto il terrore provato fino a poco fa, il dolore che quello stesso spettro gli aveva provocato.
Lo stesso spettro che lo aveva salvato.
Piangendo disperato, si fece carico di tutto il dolore 
Allungando la mano verso di lui, Lea avanzò, tra i singhiozzi e le lacrime.

Isa alzò lo sguardo. Anche i suoi occhi piangevano.
Ma il viso era lo stesso dignitoso di quel magnifico guerriero che era stato in vita.

“Isa…non…non sei solo…”
Lea si accasciò accanto a lui, sfiorandogli il viso.
Le sue mani si bagnarono delle sue lacrime.

“Non morirai solo…”

Poteva sentire il calore del suo corpo, mentre lo stringeva.

“Isa, sono qui…!”
Isa lo guardava speranzoso.

Sta dicendo sul serio?

“Isa…”
Lea si strinse forte allo spettro, singhiozzando disperato mentre le sue mani lo accarezzavano.

Non sapeva come fosse possibile, ma potevano farlo.
Lo accarezzavano dolcemente, per poi afferrargli il bordo dello yukata, facendolo scivolare piano.
Lea non protestò, sebbene il suo viso iniziò ad arrossarsi.
Iniziava a sentire anche lui caldo.
Eppure la sua obaasan gli aveva detto che in presenza degli spiriti, le ossa si gelavano.
E allora come mai?
Non ebbe il tempo di chiederselo. Le sue labbra sfiorarono quelle di Isa, coinvolgendole in un bacio disperato.
Le loro dita si intrecciarono, mentre Lea veniva accompagnato da un gesto gentile della mano di Isa a stendersi sul pavimento.
Non avrebbe mai creduto di poter sopportare tutto questo, nel silenzio spettrale della notte.
Non gli importava.
A discapito della sua prestanza fisica, il tocco di Isa era gentile e delicato, i suoi occhi teneri e protettivi, e non gli importò di mostrargli il suo corpo così com’era, mentre con gesti curiosi e quasi giocosi gli riservava lo stesso trattamento, scoprendogli il torso.
Notando tutte le sue cicatrici.
Lea si sollevò , per poterlo stringere, per permettergli di sentire il battito del suo cuore mentre lo confortava in un abbraccio quasi materno, mentre gli baciava le cicatrici, una ad una.

Ora basta soffrire, Isa…”
E Isa accolse quell’invito, stringendolo ancora, iniziando a sentire di più il calore del suo corpo.
Iniziando a completare Lea, per sentirsi completo a sua volta.

Non ha fatto male, nemmeno un po’.

Lea sussultò compiaciuto, beandosi della sensazione, sentendo come fuoco dentro di sé, tremando dal piacere.
Isa iniziò quella danza di anime disperate, con l’ausilio complice della luce della luna poteva vedere Lea sotto di sé e Lea poteva vedere lui, accarezzandolo con delicatezza estrema, come se temesse di rompere quella magnifica opera d’arte.

Gemiti.
Sussulti.
Il suono dei loro respiri persi nell’aria fredda della notte.

Ancora una volta, la luna fu testimone.
Stavolta, non di una morte dolorosa.
Ma di una unione dolcissima.

Un onirico spettacolo di anime sole, ora vicine. Nessuno lo avrebbe mai saputo.
C’erano solo loro. Isa e Lea.
Mano nella mano, tutti e due, lo avevano raggiunto.
Il loro piccolo angolo di paradiso…
Finalmente, Isa gli disse qualcosa.
Il suo tono così profondo, così rassicurante…

Perché sei venuto con me?”

Lea aveva realizzato solo in quel momento.
Ma non aveva paura.

“Non volevo soffrissi da solo.”

Il suo compagno lo guardò intenerito, accarezzandogli la testa, dolcemente.

“Hai i capelli rossi, Lea.”

Lea sollevò il viso, sorridendogli tra le amare testimoni della sua tristezza.

“Sì…”

“Come il fuoco.”

Sì, ti piacciono?”

Le mani dell’uomo tornarono ad accarezzarlo, mentre i due svanivano così, alle luci dell’alba.
Portati via dal candore della luna.

“Lo sapevo che il fuoco non è fatto per ferire…”

   
 
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