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Autore: LilithJow    28/06/2014    0 recensioni
«Siamo normali, no?».
«Siamo normali».
Quelle parole rimbombarono nella mia testa come un eco senza fine. Mi costrinsi a marchiarle in modo permanente: non potevo permettere che la paura di qualcosa o i fantasmi del passato mi rendessero la vita impossibile.
Il sovrannaturale era lontano.
A Parigi eravamo soltanto un ragazzo e una ragazza che affrontavano il mondo adulto.
E nulla più.
(SEGUITO DI LULLABIES E CRYSTALIZED)
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 7
"Confusion"

 

Simon


La confusione è definita come uno stato psicologico in cui il soggetto non riesce ad organizzare ciò che percepisce nella realtà ed è colpito da impulsi ravvicinati e contraddittori che, spesso, non conducono a nessuna conclusione logica.
Avevo sperimentato già innumerevoli volte tale sensazione, non era qualcosa di assolutamente nuovo con la quale non riuscivo a rapportarmi.
Eppure, in quel particolare caso, mi sembrava di esser finito per davvero in una sorta di dimensione parallela alla quale non credevo di appartenere.
Era come se il mio intero mondo fosse stato messo a soqquadro e adesso non riuscisse più a tornare allo stadio originario.

 

Ero bloccato in un letto d'ospedale, mi faceva male dappertutto. Avevo sonno, ma ogni qualvolta che tentavo di chiudere gli occhi, gli ultimi catastrofici avvenimenti tornavano a popolare la mia testa e mi impedivano di dormire.
Avrei soltanto voluto uscire da quel maledetto luogo e... Non sapevo cosa. Non avevo la benché minima idea di cosa fare, di come comportarmi.
Quando mi ero svegliato, dopo un'operazione che, a quanto avevo capito, era durata ore, al mio fianco avevo trovato Lexie. Aveva un'espressione dispiaciuta stampata in faccia e fu enigmatica quando mi spiegò cosa Hazel le aveva detto. Mi chiese qualche spiegazione a riguardo, ma non fui in grado di aggiungere dell'altro, un po' perché effettivamente non sapevo cosa fosse successo, un po' perché non volevo dirglielo.
Tacqui anche con degli agenti di polizia che mi riempirono di domande. Inventai una bugia colossale, dando la colpa a degli aggressori fittizi. Non che la mia storia reggesse molto, tuttavia avevamo poco e niente di valore in casa, per cui avrei potuto tirar giù una lista immaginaria di elementi mancanti.
Una parte di me si era pentita di aver nascosto la verità, ma forse non riuscivo a dirla ad alta voce. Era complicato persino ammetterla a me stesso.
Il punto era che non credevo che quella fosse la pura verità.
Qualcosa era successo.
Qualcosa di strano, privo di logica e assurdo.
In quella stanza, non c'eravamo io ed Hazel. Non la mia Hazel, perché la mia Hazel non avrebbe mai compiuto un simile gesto.
Di ciò ero sicuro e niente mi avrebbe fatto cambiare idea.
Avrei potuto risultare fuori da ogni logica, come uno che nega l'evidenza, ma... Era così. Non una sola parte del mio cervello era convinta del contrario e mi dannai per aver creduto che fosse solo qualche disagio mentale dovuto agli avvenimenti che avevano caratterizzato la nostra esistenza nell'ultimo anno.


 

«Si può?».

Lexie si preoccupò di bussare alla porta della stanza sebbene vi fosse praticamente già entrata. Era sua abitudine agire in quel modo. Replicai con lieve cenno della testa, ma la mia bocca rimase sigillata. Lei abbozzò un sorriso e mosse qualche passo fino a compiere il giro completo del letto e sedersi proprio al mio fianco su di una sedia apparentemente molto scomoda.
«Come ti senti?» chiese. Non risposi neanche a ciò. Il mio sguardo era perso nel vuoto, io ero del tutto assente. Il mio corpo era lì, dolorante e mal conciato, e la mia mente altrove.

«Simon...».

«L'hai sentita?». Emisi qualche suono soltanto per porre quella domanda che ormai avevo iniziato a fare ogni giorno, anche più volte, e che mai aveva avuto una risposta positiva.

«No» sospirò Lexie. Fece una breve pausa, forse aspettandosi che io aggiungessi qualcosa o che, semplicemente, trovassi il coraggio di guardarla negli occhi. Non feci nessuna delle due cose.

«Se ne è andata, Simon» disse, allora.

«Non se ne è semplice andata» esclamai. Alzai il tono di voce e ciò mi costò una fitta di dolore all'addome. Dovetti trattenere il respiro per un attimo per farlo passare. Spostai lo sguardo su Lexie e lo feci solo allora, dopo tre giorni. «Non se ne è semplicemente andata» ribadii, cercando di essere più calmo. «Non senza una spiegazione».

«Allora perché non è qui?».

Serrai la mascella. Fu come andare a sbattere contro un muro perché a quello non sapevo replicare. Non sapevo cosa era passato nella testa di Hazel quando aveva deciso di andarsene via da me. Probabilmente i sensi di colpa l'avevano consumata a tal punto di spingerla a quella conclusione.
Come biasimarla? Razionalmente, avrei dovuto addirittura smettere di pensarla, dimenticarla perché mi aveva quasi ucciso, eppure... Eppure non ci riuscivo.
Lexie mi fissò per qualche istante, dopo di che spostò lo sguardo altrove, sospirando. Aveva cercato in ogni modo di tirarmi su di morale in quei giorni e io avevo sempre smontato ogni suo tentativo. Un po' mi dispiaceva, dal momento che lei era lì solo per aiutarmi e il mio comportamento, di certo, non fungeva da giusto ringraziamento.
Tuttavia, non fui in grado di aggiungere dell'altro alla nostra conversazione che non ebbe alcun seguito. Ci fu soltanto silenzio fino alla fine dell'orario di visita. Poi Lexie se ne andò, congedandosi con un freddo «Ci vediamo domani».
Fui nuovamente solo, col rischio di annegare tra i miei pensieri.
La stanza era calata nel buio. Solo il lieve filtro di luce di qualche lampione traspariva dalle finestre.
Mi ero rifiutato di mangiare la cena che l'ospedale mi aveva fornito – una disgustosa zuppa di verdure e altro che neanche riconobbi. L'infermiera che me l'aveva portata mi aveva rimproverato, quasi fossi un bambino, ma furono parole che mi scivolarono addosso abbastanza rapidamente.
In quel momento, il cibo non risultava essenziale. Niente lo era, finché la mia confusione persisteva.
Dovevo ottenere delle risposte, dovevo avere qualcosa a cui aggrapparmi o un muro da andarci a sbattere contro. Volevo una spiegazione che fosse logica e avrei anche accettato una cruda e amara verità, pur di ottenere un risultato.

Mi guardai attorno. Il silenzio in quel posto era opprimente e mi sembrava quasi che le pareti di quella camera mi stessero venendo contro con la sola intenzione di schiacciarmi.
Ero agitato, irrequieto e sicuramente non sarei riuscito a dormire. Non ci provai nemmeno. Seguii il mio istinto, quello che spesso era sbagliato e fuori luogo.
Mi strappai gli aghi conficcati nel dorso della mia mano destra. Mi feci male e trattenni a stento un lieve urlo di dolore. Strinsi i denti e mi preoccupai di rimuovere ogni altro segno da paziente, compreso quell'orribile camice bianco a punti blu.
Abbandonai il letto con non poca fatica e non appena i miei piedi toccarono terra, una fitta all'addome mi spezzò il respiro. Dovetti fermarmi a riprendere fiato per qualche secondo prima di poter proseguire.
Recuperai i miei vestiti in un piccolo armadietto di legno lì presente e indossai quel jeans strappato e quella felpa grigia in un tempo che parve un'eternità. Probabilmente, considerati i miei movimenti limitati e il dolore costante che la ferita mi provocava, ci impiegai davvero tantissimo tempo a portar a termine un'operazione così semplice.
Sperai di non aver fatto eccessivo rumore. Arrancai fino alla porta, la aprii e ne superai la soglia, ritrovandomi in uno dei tanti corridoi, spoglio e deserto. Mi sostenni alla parete con una mano, mentre l'altra rimase appoggiata lievemente sopra l'addome, come se fungesse per una valida precauzione contro un ulteriore fitta.
Avanzai a passi davvero lenti e goffi, tanto che fui sul punto di cadere praticamente ad ogni movimento. Mi morsi forte il labbro inferiore, ignorando ogni lamento che il mio corpo produceva.
Se ci mettevo così tanto solo per tentare di abbandonare l'edificio, non osai immagine cosa sarebbe accaduto in strada quando non avrei avuto nulla a cui aggrapparmi.
“Non fare il bambino” rimproverai me stesso. Strinsi i denti e mi sforzai per non appoggiarmi più alla parete e riuscire a stare in piedi in maniera consona.
Ebbi successo nel non cadere sul pavimento per più di qualche metro. Fui in grado di raggiungere l'ascensore, vi entrai e premetti il pulsante del piano-terra.
Tirai un sospiro di sollievo, mentre l'abitacolo iniziò a muoversi, anche se... Beh, la fortuna non era mai stata mia compagna e quasi mi venne da ridere – istericamente – quando la mia discesa si bloccò tra il terzo e il secondo piano.
«Oh, sul serio?» esclamai, esasperato. Schiacciai a caso ogni pulsante presente sul piccolo quadro metallico, ma nessuno di essi rispondeva ai miei comandi. «Andiamo!» dissi di nuovo, alzando gli occhi al cielo.

«Ecco perché è difficile sgattaiolare via dagli ospedali».

Ad un tratto, una voce acuta e femminile mi fece sobbalzare. Mi voltai di scatto, facendomi pizzicare di gran lunga la ferita. Feci una smorfia e quando fui nuovamente in grado di vedere in modo chiaro, scorsi Katie, proprio davanti a me, con le braccia incrociate sul petto e un mezzo sorriso stampato in faccia. «Dove credi di andare, tigre?» disse.
Spalancai la bocca. Ero sorpreso di vederla lì. Che ci faceva, poi? Io non l'avevo chiamata.

«Tu cosa...» balbettai.

«Oh, il tuo non saper formulare le domande mi era mancato». Scosse appena la testa e prima che me ne potessi rendere conto appoggiò una mano sulla mia spalla e lo spazio attorno a noi cambiò; tornò ad essere la mia maledetta camera spoglia, col letto disfatto e la poca luce.
E così tutti i miei sforzi vennero vanificati.
A Katie bastò spingermi appena con due dita per farmi finire seduto sul materasso, mentre lei rimase in piedi su quei tacchi alti e, a mio parere, del tutto scomodi.

«Che ci fai qui?» domandai, finalmente, cercando di rendere meno evidente il mio fastidio. Insomma, ce l'avevo quasi fatta, ero quasi fuori.

«Hai bisogno d'aiuto, no?» replicò.

«Sì, ma... Chi ti ha chiamato? Cioè, io...».

«Ho i miei informatori».

«I tuoi informatori?».

«Credevi davvero che vi lasciassi andare alla deriva con la possibilità di perdere qualsiasi contatto con chi è direttamente collegato al Creatore e... Beh, la sua compagna?».

Spalancai gli occhi. «Ci hai seguiti?».

«Hai perso parte del discorso. Vi ho fatti seguire».

«Da chi?».

«La risposta è abbastanza ovvia. Davvero non ci arrivi?».

Ci pensai un attimo su. L'ovvietà di Katie era piuttosto relativa. Avrebbe potuto essere qualcuno di estremamente scontato, come qualcuno lontano anni luce da ogni mio sospetto.
Di fatti, non riuscii a trarre nessuna conclusione nei minuti che seguirono. La Divoratrice sbuffò. «Simon, puoi anche essere il ragazzo più adorabile del mondo» esclamò «ma quando si parla di farti nuovi amici, sei davvero pessimo. Il fatto che una ragazza molto carina e simpatica ti parlasse senza molti problemi o senza che scappasse, non ti ha insospettito nemmeno un po'?».

Abbozzai un sorriso, ironico e privo d'entusiasmo. Sì, la sua ovvietà in quel caso fu più comune del solito. «Lexie» sospirai.

«Già, Lexie».

«Ti ha detto di catapultarti qui perché la situazione stava precipitando?».

«All'incirca. Le ho chiesto di avvertirmi se accadeva qualcosa di strano e... Beh, tu sei stato pugnalato, Hazel è scappata... Direi che è piuttosto strano, oltre al fatto che mi ha detto che continui a mentire a chiunque». Fece una breve pausa, spostando le mani sui fianchi. «Allora?» proseguii. «Vuoi raccontarmi cosa è successo davvero?».

La fissai per un breve istante. Con lei potevo parlare liberamente, senza celare alcuni dettagli e... In realtà, stando a quanto appena sentito, avrei potuto farlo anche con Lexie e, forse, non sarebbe successo ciò che era successo.

«E' stata Hazel» sussurrai. «E' stata lei a ferirmi».

Katie fece una smorfia. Non seppi dire se fosse perplessa, incredula o che altro. «Cosa?» chiese, con tono fiacco.

«Le sono capitate delle cose, ultimamente» spiegai. «Aveva gli incubi, continui sbalzi d'umore. Ho pensato che fosse dovuto a ciò che aveva passato. Sai, la morte di Martha, quella di Thomàs, la sua. Insomma, quando io sono tornato, ero diverso e... E anche io avevo incubi ed ero a disagio in molte situazioni. Ho pensato fosse qualcosa di passeggero e volevo soltanto aiutarla a superarlo. Invece... Invece le cose sono degenerate. Stavamo litigando per una sciocchezza e lei ha... Ha dato di matto».

«Dare di matto non è una giustificazione per fare ciò che ha fatto. Lo so persino io».

«Ma non era lei. Non completamente». Mi morsi piano il labbro inferiore. Dallo sguardo che mi rivolgeva Katie, capii in che modo mi stesse fissando, come un pazzo delirante che si ostina a respingere la realtà per paura di soffrire troppo. Tuttavia, come già affermato in precedenza, ero del tutto convinto di ciò che stavo dicendo.

«Ho visto qualcosa nei suoi occhi» proseguii. «Qualcosa di diverso, una specie di... Di riflesso, così come accadeva quando era una Divoratrice. Però non era rosso, era di un altro colore, simile al cobalto».

Katie mi ascoltò con attenzione, sebbene continuasse ad essere titubante, ma, perlomeno, aveva smesso di guardarmi come se fossi fuori di testa. «Credi sia sotto l'influenza di qualcosa?» domandò.
Scossi leggermente la testa. «Non lo so» dissi, a bassa voce. «A parte i Divoratori, non ho molta esperienza con altri fattori sovrannaturali, ma c'è... C'è qualcosa di sbagliato in lei, lo so, ne sono sicuro. Hazel non... Non mi avrebbe mai fatto del male».

«Quindi stavi scappando per cercarla?».

«Ci stavo provando».

«Non penso sia una buona idea».

«Perché no?».

«Perché, per sua volontà o meno, ti ha pugnalato. Potrebbe capitare di nuovo, non puoi saperlo».

«Non capiterà». Feci cenno di no con il capo. «Ma devo parlarle».

«Non esiste. Tu resti qui».

Abbozzai una risata, ironica. «Non prendo ordini, Katie». Lei sorrise appena. Non disse nulla in replica, ma fece un solo passo avanti e premette con due dita sopra la mia ferita all'addome che, ovviamente, a causa della pressione, finì per riaprirsi e io sanguinai di nuovo.
Trattenni a stento un urlo, mordendomi forte il labbro inferiore e fulminai Katie con lo sguardo.
«Oh, tu guarda» esclamò, soddisfatta. «I punti sono saltati. Dovranno tenerti qui qualche giorno in più». Fece un sorriso, allargando di poco le braccia. «Un vero peccato».
Si congedò in quel modo e sparì dalla stanza senza darmi il tempo di replicare.


***


Rinunciai all'idea di tentare di fuggire di nuovo. Sarebbe stato inutile, almeno quella notte, e il mio corpo, di certo, non avrebbe retto.
Cercai di prendere sonno e riposarmi per qualche ora, dopo che un'infermiera richiuse per bene la mia ferita. Non ne fui davvero in grado, riuscii a dormire per solo mezz'ora o forse meno, ma non risultò un problema poiché l'alba fu imminente e i lievi raggi del sole iniziarono presto a inondare la stanza, così come l'odore della colazione disgustosa che mi avrebbero servito da lì a poco.
A quel punto, scappare era tornata ad essere un opzione, se non fosse stato per l'arrivo di Lexie.
Si presentò alle sette e trenta in punto, come ogni mattina. Entrò nella camera e non si scomodò a salutarmi, forse perché ben cosciente del fatto che anche quella volta non le avrei risposto. Si accomodò accanto al letto, su quella sedia di metallo tanto scomoda. La fissai per un secondo, poi distolsi lo sguardo.
«Avresti dovuto dirmelo» sussurrai. Lei abbozzò una risata. «Che sono stata assoldata per stalkerarti?» esclamò. «Certo, come no».

«Beh, dopo tutto il tempo passato a proclamarti mia amica, un lieve accenno non mi sarebbe dispiaciuto».

«Io sono tua amica, Simon».

«A me non pare proprio».

Lexie sospirò e la intravidi scuotere appena la testa. «Tu non avresti neanche dovuto scoprirlo» disse. «Se le cose non fossero degenerate, non avrei rivelato nulla a Katie. Avrei continuato a dirle che tutto andava bene».

«Non è quello il punto».

«E allora qual è?».

Lasciai quella domanda in sospeso. C'era davvero, poi, un punto? Non sapevo come sentirmi a riguardo.
Consideravo Lexie come una persona importante, un appoggio per me, un sostegno e scoprire che se Katie non le avesse ordinato di avvicinarsi a me, lei non ci sarebbe stata, mi provocava un vuoto nel petto difficile da colmare.
Forse era una stupidaggine. Forse, in fondo, Lexie era davvero mia amica come si proclamava e non lo stava facendo per un insulso accordo con una Divoratrice.
Il problema era che non ero a conoscenza di come le cose fossero andate e mi impauriva scoprirlo.

«Lascia perdere» conclusi. Non mi andava di proseguire quel discorso e, considerato il suo silenzio, non andava neanche a lei.

Non fu necessario capitolare in altri giri di parole. Dopo qualche secondo, infatti, l'arrivo di Katie nella stanza impedì ogni inizio di un altro discorso. Mi sorprese che si fosse materializzata lì senza preoccuparsi che qualcuno, da fuori, potesse vederla, ma, del resto, lei era la regina dell'essere incauta.
Sbuffò prima di dire qualsiasi altra parola. «Hazel è praticamente scomparsa» esclamò poi. «Ancora ti sorprendi che vi abbia messo qualcuno alle costole? Siete bravi a nascondervi».
Feci una smorfia. Il fatto che non l'avesse trovata non stava a significare che si fosse davvero volatilizzata. Non che potessi affermarlo con certezza, ma una delle miriadi di sensazioni che provavo mi suggeriva che Hazel non se ne fosse andata per sempre.
Sì, era vero, era brava a nascondersi. Tuttavia, io la conoscevo così bene ormai che avrei potuto tirar giù una lista di suoi rifugi e scovarla in meno di mezza giornata.
Ciò nonostante, non rivelai nulla né a Katie né a Lexie. Anzi, mi finsi disperato e triste, come se davvero non avessi idea di come ritrovarla.
Prima che potessero raggiungerla loro e sottoporla a qualche interrogatorio o che altro, dovevo intervenire io: dovevo parlare, dovevo tentare di capire cosa le fosse successo e, probabilmente, rimediare alle mie mancanze precedenti.

«Anche se la trovaste» dissi, ad un tratto, interrompendo un dialogo tra le due che mi parve privo di senso. «Che intenzioni avete?».

«Mhm, non lo so» replicò Katie, alzando appena le spalle. «Probabilmente la chiuderei in qualche cella con le sbarre di ferro, mentre cerchiamo di capire che cosa è andato storto nel suo cervello».
La fulminai con lo sguardo a quella risposta e lei spalancò gli occhi, come a intendere che non avesse detto nulla di sbagliato. «Beh, di sicuro non le offrirei una bella vacanza, tu che dici?» ribatté. «Insomma, ha aggredito te e tu sei la persona che ama. Cosa pensi possa fare con qualcuno che odia?».

«Non farà nulla di male, non...». La mia frase fu interrotta bruscamente. «Perché continui a difenderla?» esclamò Lexie. «Ti ha ferito e non è una cosa metaforica. Lo ha fatto sul serio, con un coltello. Non credi sia piuttosto logico mantenere le distanze?».

Abbozzai una risata, ironica. «Tu neanche la conosci» mormorai.

«Può darsi. Ma se qualcuno mi avesse fatto ciò che lei ha fatto te, avrei trovato un modo di fermarla e non mi sarei preoccupata del suo bene».

Mi pizzicai leggermente il labbro inferiore con i denti. Lo sguardo di Lexie era serio, fisso su di me, e la sua mascella era serrata.

«Credo che tu non abbia mai amato qualcuno sul serio, altrimenti... Altrimenti non parleresti così» conclusi.

I suoi occhi rimasero immobili su di me per qualche altro secondo. Successivamente, lei si alzò con assente delicatezza, rischiando di far cadere la sedia su cui si era accomodata. «Scusate, ho bisogno di un po' d'aria» sibilò e uscì di corsa dalla stanza.

«Sai, per essere un umano hai una delicatezza pari a zero» commentò Katie.

«Non cercavo di essere gentile, ho solo detto la verità» sbottai.

«Lexie c'è stata per te negli ultimi mesi, anche se sotto mio ordine. Credici o no, sono certa che si sia affezionata a te comunque e che... Pensa solo alla tua incolumità».

«E' un pensiero carino, davvero, ma... So badare a me stesso».

Katie rise e sembrò fosse unicamente per prendermi in giro. «Sei in un letto d'ospedale, Simon» disse. «Non credo tu sia tanto bravo da prenderti cura di te stesso».

Non replicai. In quell'edificio bianco e anonimo, io ero il prigioniero perfetto e lo odiavo.
Ero consapevole che Katie fosse mossa dalle migliori intenzioni – perlomeno, quella era l'impressione – ma io ero fin troppo distaccato per collaborare.
Una parte di me era convinta del contrario, ovviamente, ma non c'era mai stata una volta in tutta la mia vita in cui ogni angolo del mio cervello fosse immobile su una sola opinione.
In quel momento, tuttavia, andava bene così. Sarei riuscito a fuggire, avrei trovato Hazel e avrei sistemato le cose.
Ce l'avrei fatta, in un modo o nell'altro.

  
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