Libri > Storia di una ladra di libri
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Autore: ester_potter    29/06/2014    0 recensioni
Saaalve, questa è la mia seconda fanfiction. Praticamente riscrivo il film TUTTO dal punto di vista di Liesel, quindi sarà più introspettivo. Sono attaccatissima sia al libro che al film, per cui vi posso assicurare che rimarrò fedele il più possibile e cercherò di non sfociare mai nell'OOC con i personaggi. Buona lettura :)
[Estratto dal capitolo 37:
È iniziato tutto con la morte di mio fratello: lì, per la prima volta, mi sono ritrovata a rubare un libro. È capitato altre volte, in contesti diversi, ma c’era sempre una costante.
Sentivo l’instabilità della vita. Ogni volta che mi capitava di rubare un libro, sentivo tutto talmente fragile e instabile, da aver bisogno di qualcosa che rimanesse per sempre con me (...)
Un libro sarebbe rimasto sempre mio. Nessuno me l’avrebbe mai portato via. Gli scrittori sono immortali perché sono immortali le loro opere. Ancora oggi ci ricordiamo di persone come Shakespeare, Victor Hugo, Lev Tolstoj, Mark Twain, e sono sicura che fra cent’anni il mondo di ricorderà ancora di loro. Perfino il Mein Kampf resterà sugli scaffali delle librerie. Forse è questo, il motivo che mi ha sempre spinta a rubare libri.]
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Liesel Meminger
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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III

La mia vita è definitivamente cambiata per sempre. Non lo credevo possibile, ma sono rimasta sola. Mia madre mi ha detto che sarei stata con un’altra famiglia per un po’. Una famiglia più “stabile”. Ma che vuol dire stabile? Più ricca? Più numerosa? Più nobile? Io non lo so. Fatto sta che non so quando rivedrò la mamma. Lei ha pianto molto prima di lasciarmi, mi ha abbracciata e mi ha detto di stare tranquilla, che non era un addio.
Io non ho pianto. Non mi viene da piangere nemmeno ora, mentre avanzo in macchina verso Molching, un sobborgo di Monaco.
Con me ho solo il libro rubato al becchino. E una foto rovinata di mio fratello. Nessuno ha visto né l'uno né l'altro, a dire il vero, e io stessa non ho intenzione di mostrarle ad anima viva.
“Ti avrebbe tenuta se avesse potuto” mi dice per la terza volta la signora seduta accanto all’autista. Lei si occupa delle adozioni, ed è a lei che si era rivolta la mamma prima di lasciarmi. Ma se pensa di consolarmi si sbaglia di grosso. Immagino che sia vero, perché mamma non mi avrebbe mai lasciato senza un motivo serio. Ma almeno qualcuno poteva darmi una spiegazione.

“Lo sai, non è vero?” continua lei. Io abbasso lo sguardo. Ora mi sono chiusa a riccio. Continuo a starmene muta come una tomba e non rispondo nemmeno se mi fanno domande. Nessuno insiste, comunque. Non sono mai stata amichevole con nessuno già da piccola, prima che succedesse tutto questo, figuriamoci ora.
Siamo in macchina da un’ora e io vorrei che il viaggio non finisse mai più. Mi starebbe bene, starmene 
seduta qui dietro, persa nei miei pensieri, con la foto di Verner e il mio libro ben nascosti. E non devo neanche rispondere per forza alla signora.
Ma soprattutto, c'è il motivo principale: che non ci tengo proprio a vedere la mia ‘nuova famiglia’.
Io non voglio una nuova famiglia. Rivoglio la mia vecchia. L’unica cosa che so di quella
nuova è che si tratta di una coppia senza figli: l’uomo fa l’imbianchino e la donna fa il bucato agli estranei. Che strani mestieri. Si chiamano Hans e Rosa Hubermann.
Noto che ha cominciato a nevicare lievemente, appena entriamo a Molching. Sembra un posto carino.
La macchina si ferma davanti a una casa dalla quale escono un uomo e una donna sotto un ombrello. Oh, no, devono essere loro.
La signora delle adozioni si gira a guardarmi e accenna un sorriso: “Siamo arrivati” mi dice. “Vieni, Liesel. Ti presento i tuoi nuovi genitori”
Ah, no, se lo può scordare. Io non scendo. Voglio mia madre.
La signora delle adozioni va a stringere la mano ai signori Hubermann e subito dopo il signore si avvicina alla macchina. Cosa vuole? Sono troppo incuriosit di lui, perciò mi decido a guardarlo. Lui si china sul finestrino, sorride e mi saluta con la mano. Sembra fin troppo gentile.
A quel punto lui torna dalla moglie e lei si avvicina a guardarmi. Ecco, lei invece ha un’aria tutt’altro che affabile. Sembra il contrario del marito. Forse è per questo che si sono sposati. Mi guarda come se fossi una pecora a sei zampe, poi sbircia nei sedili anteriori e infine si gira furiosa verso la signora delle adozioni.
“Dov’è il maschietto?” sbotta.
Voglio proprio vedere cosa le rispondono.
“E’ morto” sospira la signora delle adozioni, allargando le braccia.
“Che significa?” chiede il signor Hubermann, incredulo. La moglie si avvicina a loro, con aria altrettanto allibita.
“Durante il viaggio” continua la signora delle adozioni. “Hanno dovuto seppellirlo vicino alle rotaie.”
“Ci hanno promesso due figli, con due sussidi!” specifica la signora Hubermann, con veemenza.
“Rosa, non puoi incolpare il ragazzo se è morto!” cerca di farla ragionare il marito.
“No, la colpa è della madre!” ribatte sua moglie. “Trascinarli per tutto il paese denutriti, non lavati!”
Ma cosa ne sai lei? Vorrei uscire dalla macchina e urlarle contro tutta la mia rabbia e la mia frustrazione. Solo la stanchezza mi ferma. Ma forse è meglio così. Magari ora mi rimanderanno indietro, se sono rimasti delusi dal fatto che sono arrivata solo io.
“Fuggiva per salvarsi la vita!” le ricorda intanto il signor Hubermann.
Ma bene. A quanto pare sono l'unica a non sapere cosa ci faccio qui. Quando mamma prese me e Verner in fretta e furia affinché prendemmo il primo treno per non so dove, sapevo che la cosa era grave, e che questa cosa aveva a che fare con la guerra imminente, con i contrasti tra la Germania e l'Europa, col fatto che io e la mia famiglia non potevamo più frequentare luoghi che avevano degli strani cartelli alla loro entrata, cartelli che dicevano cose tipo “VIETATO AI COMUNISTI”.
Non ho mai capito cosa significasse questa parola, ma in giro la sentivo sempre più spesso. Mamma non mi ha mai voluto dire il significato, e io ho notato che 
diventava strana ogni volta che glielo chiedevo. Alla fine, sono giunta alla conclusione più ovvia: noi eravamo i comunisti. Certo, questo non mi ha mai aiutato in alcun modo, considerando che continuavo a non sapere cosa volesse dire, né lo so tutt'ora. Ricordo che smisi addirittura di andare a scuola per volere di mamma, dopo la prima elementare. Sosteneva che l’avrei ripresa più tardi, una volta partiti per la nostra nuova casa. Mi aspettavano un sacco di cose nuove... E invece eccomi qui, da sola, sul sedile posteriore di una macchina in mezzo alla neve, a sentire un uomo e una donna litigare sulla mia vita passata e sul mio futuro.
“Hai visto quella bambina!?” continua la signora Hubermann imperterrita. “Sporca! Tutto quello che dicono dei comunisti è vero: sporca e stupida!”
Ancora quella parola. Maledettissima parola. Mi perseguita.
“Sssh!” Il signor Hubermann cerca di calmare la sua gentile signora.
“Io parlo forte quanto voglio!” ribatte lei. Torna davanti alla macchina, serissima. Oddio, fa paura. Questa mi ammazza. Tempo un paio di giorni a casa loro, e mi ammazza.
“Vieni!” mi dice, con un cenno della mano. Io, intimorita, mi stringo di più al lato opposto della macchina. “Vieni!” ripete lei, più forte. Alla fine si gira verso il marito, esasperata. “Ma che cosa le prende!?”
Il signor Hubermann la scansa e torna a guardarmi. Mi fa un lieve – ma sincero – sorriso, e mi tende la mano. “Vostra Maestà!”
Devo ammetterlo. Lui mi piace. O forse è solo la vicinanza a sua moglie che me li fa confrontare e preferire lui.
Comunque, non posso rimanere qui per sempre. Alla fine mi arrendo e il signor Hubermann mi aiuta a scendere dall’auto.
Con la coda dell’occhio vedo dei bambini in lontananza che giocano a pallone; appena scendo si fermano e guardano verso di noi. Io abbasso lo sguardo e li ignoro.
“Che avete da guardare, voi mocciosi!?” sbotta la signora Hubermann, rivolta ai ragazzini. “Furfanti!”
“Questa è via del Paradiso,” mi spiega il signor Hubermann, camminando con me verso casa, tenendo l’ombrello aperto sopra di noi, “la tua nuova casa!”
Appena entrati, mi fermo davanti all’ingresso, non sapendo bene cosa fare.
“Prego, accomodati!” mi incita il signor Hubermann, togliendosi la giacca.
Io entro in cucina e mi guardo intorno. Beh... Non è tanto male. È tipo la mia vecchia casa: con una rampa che porta al piano di sopra e un'altra che porta al  piano di sotto. Ha un che di accogliente. E’ tutta in legno. Noto che c'è del bucato appeso sopra alle pentole e alle padelle. Allora è vero che la signora Hubermann lava i panni degli altri.
Ecco. Parli del diavolo. Sento i suoi passi decisi e rabbiosi e mi giro a guardarla. Senza dire niente, apre il palmo della sua mano davanti a me. Ha una zolletta di zucchero. 
È per me?
“Allora?” chiede lei spazientita, come per farmi intendere che non ha tempo da perdere. “Prendila!”
Faccio per prenderla, ma subito lei ritira la mano. “Come si dice?”
Vai al diavolo. Ecco come si dice. Le sembro in vena di carinerie? Posso anche fare a meno di una stupida zolletta di zucchero; sono stata per ore su un treno senza mangiare né bere.
La signora Hubermann guarda suo marito e poi di nuovo me, con disgusto. “Ci hanno dato una muta” E se ne va.
Non andremo mai d’accordo. È cattiva. Il signor Hubermann mi appoggia una mano sulla spalla e mi sussurra: “Va’ di sopra”
Evvai. La mia camera. Potrei chiudermi dentro e non uscire mai più. Sono sicura che non importerebbe a nessuno. Nemmeno a mia madre.
La mia camera non è affatto piccola. Anzi, ha addirittura due letti. Non che il secondo serva a qualcosa, ora che mio fratello è morto. E io devo stare qui da sola. Almeno, quand’ero piccola, se avevo gli incubi potevo andare a dormire nel letto di mamma.
Il signor Hubermann appoggia sull’altro letto i pochi vestiti che ho con me, ma non li sistema nell’armadio. Pensa che lo farò io, ma si sbaglia di grosso. So già che scapperò. Prima o poi, quando le acque si saranno sistemate e nessuno se lo aspetterà. Non lo so dove andrò, o come troverò mia madre. Ma in modo o nell’altro, mi inventerò qualcosa.
A un certo punto, però, il signor Hubermann mi mostra un’altra zolletta tra le sue dita. O forse è la stessa di prima. Il viaggio in macchina mi ha fatto passare la fame, a dire il vero… O forse sono state le parole della signora Hubermann. Suo marito, comunque, sbatte i palmi sopra la mia valigetta nera e li tiene lì fermi. Ha schiacciato la zolletta, immagino. Lo guardo stupita.
“Dov’è finita?” mi chiede lui, con tono indagatore. Ah, è un gioco che facevo quando avevo l’età di mio fratello. Ma non me lo ricordavo così facile. Insomma, me l’ha fatto vedere chiaramente dove l’aveva messa!
“In quella” rispondo io, indicando la sua mano destra.
Lui tira su il palmo, ma la zolletta non c’è. Eppure mi era sembrato…
Tra su il palmo sinistro ed eccola lì. Ma come ha fatto?
Lo guardo sorpresa e involontariamente mi esce un mezzo sorriso.
“È per te” mi dice lui. La lascia sopra la mia valigia e io allungo la mano per prenderla. Per una frazione di secondo mi fermo a guardarlo, perché ho paura che possa insultarmi o riprendersela all’ultimo, come la signora Hubermann. Lui, invece, non lo fa. Sorride e basta.
È l'unico che mi abbia mai riservato un sorriso, da quando sono arrivata qui. Beh, non si conta la signora delle adozioni... Ma i suoi non erano sorrisi sinceri. Alla fine decido di prendere la zolletta.
“Hans!” sentiamo chiamare da sotto.
“Sì?” risponde lui ad alta voce. “Raggio di sole…” aggiunge poi piano, scambiando con me un’occhiata ironica. E se ne va.

È simpatico. Forse un po’ strano, ma… dolce.
   
 
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