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Autore: NotFadeAway    04/07/2014    1 recensioni
Antiche leggende narrano che le persone quando muoiono ritornano sulla terra, l'anima è la stessa, il corpo non più. Ma su sette miliardi di persone, che speranza c'è di ritrovarle?
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I monitor lanciavano suoni acuti e rapidissimi, i chirurghi si affollavano attorno al tavolo operatorio, gli infermieri sfrecciavano da una parte all’altra della sala con garze e tamponi.
-Mi serve un’altra unità di sangue! – gridò la dottoressa Marple. – Ray, anastomizza quell’arteria, prima che muoia dissanguato. Adams, aspira qui. Da dove viene tutto questo sangue?! -
-Dottoressa, il paziente è in arresto, dobbiamo richiudere! -
-Inizia il massaggio cardiaco. Dobbiamo trovare la fonte dell’emorragia! –
Sherlock rimase paralizzato sulla soglia della sala operatoria.
Come fosse uscito assieme all’aria che espirava, Sherlock gridò il suo nome.
-JOHN! -
L’attenzione dello staff medico si diresse tutta su di lui.
-Lei chi è? Che ci fa qui? – fece uno dei chirurghi.
-Signore Holmes, non so come sia entrato qui, ma deve uscire! Ora! – gridò la dottoressa Marple. – Tampona più forte! No, no! Così lo perdiamo! -
Sherlock si sentì di nuovo chiamare il nome di John, poi fu trascinato fuori, accompagnato dall’odore del sangue di John e da un “biiip” senza fine.


La luce filtrava attraverso le tendine verdi della camera d’ospedale. Il tessuto grezzo e ruvido la lasciava passare come granelli di sabbia, che si proiettavano sul muro sfocati. Era chiara e debole e, anche senza scostare la tenda, si capiva che era appena l’alba.
I letti dei pazienti stavano riemergendo lentamente dall’ombra della notte, pericolosa e temuta tra le mura di qualunque ospedale. Furba e scaltra, prima ti abbraccia nel sonno e poi ti porta via con sé, quando è buio e i medici non vedono e nessuno può sentirla. Chi era riuscito a sfuggirle, giaceva ora nella penombra, cullato dai bip dei monitor, che parevano cantare un sommesso inno di vittoria.
Tra le schiere di letti, si sentiva di tanto in tanto un fruscio di lenzuola ispide e rigide, che accompagnava per mano l’odore di plastica nuova e di disinfettante che gira sempre tra le corsie di un ospedale. Qualcuno di tanto in tanto mandava un colpo di tosse, altri graffiavano l’aria con respiri affannosi o con un improvviso russare.
Dopo un po’ si scorgeva una sorta di ritmo, che altri potrebbero definire monotonia, ma che la maggior parte non definirebbe affatto, perché quasi tutti di solito dormono.
Il letto più vicino alla porta, però, usciva dagli schemi. Dove doveva esserci un paziente in tenuta d’ospedale, c’era un uomo con cappotto e sciarpa. Dove doveva esserci un paziente addormentato, ce n’era uno sveglio.
Era seduto al centro delle coperte, che erano intatte, quasi lui non ci fosse. Aveva le ginocchia tirate al petto e le mani giunte sotto il mento, palmo contro palmo. Il volto cereo e gli occhi aperti e fissi sulla spalliera in fondo al letto.



Sherlock non poteva entrare in terapia intensiva. Sherlock non poteva nemmeno alzarsi dal letto. Sherlock non poteva nemmeno togliersi le manette di stoffa che lo legavano al suddetto letto.
Ma Sherlock non poteva nemmeno rubare embrioni morti da ginecologia o frugare tra i rifiuti biologici in cerca di emisferi cerebrali.
Distrarre l’infermiere era stato facile. Gli era bastato scollegare il paziente della stanza affianco dal monitor e lasciare che l’allarme suonasse, questo gli aveva fatto guadagnare il tempo necessario per passare davanti alla guardiola non visto e non udito. Aveva persino afferrato camice e guanti sterili, perché in quella stanza c’era John, l’unico buon motivo per rispettare stupide regole, e si era infilato dentro.

John non era ancora cosciente, era isolato al centro di una stanza  per metà vuota, per l’altra metà affollata di macchine. Era uno strano posto, come un luogo di transizione, tutto era ovattato con i toni blu e grigi della notte, che sembravano attutire anche i suoni, come se potessero oscurarli.
Non c’erano sedie, non un altro letto, ma Sherlock non aveva bisogno di sedersi, perché poteva stare in piedi anche per tre giorni in attesa che si svegliasse.

Guardare John. Sherlock avrebbe potuto scrivere un saggio sul guardare John.
Ci tanti modi per guardare John.
Guardarlo di sottecchi quando lui non sa di essere osservato è uno di questi. Era come correre in cucina e afferrare il barattolo di marmellata, che non si può aprire prima di cena, e con le dita viola color mirtillo,  affacciarsi alla finestra, per essere certi che la mamma sia ancora fuori a stendere il bucato. E leccare il coperchio, senza distogliere lo sguardo, con quel nodo allo stomaco per la paura di essere beccati, che rende il tutto più eccitante.
Guardare John dritto negli occhi è un altro paio di maniche. Lo si potrebbe descrivere come guardare un filmato fatto con una vecchia videocamera in una spiaggia del Nord Europa, quelle dove c’è sempre vento, anche quando il mare è calmo. Il fruscio dell’aria contro il microfono si traduce di un suono continuo, che diventa come quello del phon: persistente, tanto da abituarvisi e non notarlo più, ma forte, così da non sentire nulla al di fuori di esso. Ed è proprio grazie a questo rumore distorto che ci si può concentrare ancora meglio sul mare, calmo, che appare in così forte contrasto con lo stridore del vento, da dissociarvisi. Così il vento diventa una barriera dal mondo e una lente d’ingrandimento sul mare.
Ecco, questo era il suo modo preferito di guardare John.
Ma ce n’era un altro, da non sottovalutare: guardare John per caso, mentre si cammina per strada e si è intenti a fare altro. Trovarselo semplicemente per un attimo al centro del proprio campo visivo e poi lasciarlo uscire di nuovo fuori, come se nulla fosse successo. Ecco, questo è come quel momento, sulle montagne russe, in cui il tuo corpo va da una parte e i tuoi visceri dall’altra, e percepisci quel fuggevole momento di vuoto dentro e l’aria ti viene spinta a forza fuori dai polmoni.
E, infine, c’era guardare John dormire, Sherlock aveva memorizzato tutte le sue espressioni e di solito poteva arrivare ad ipotizzare cosa stesse sognando. Guardare John dormire è come guardare il Vesuvio, un maestoso vulcano assopito, con le luci della città che lo illuminano e il colore celeste che assume quando è visto da lontano, attenuandone i contorni e quasi facendoli sfumare nel cielo. Il Vesuvio non perde la sua potenza solo perché è addormentato, è ancora lì, la puoi vedere, ma così può mostrare anche un’altra parte di sé, quella che non vedremmo sotto la lava.



Dopo un po’ John mugugnò e si mosse. Respirava da solo, quindi poteva parlare, ma aveva la lingua troppo impastata per farlo. Al secondo tentativo Sherlock si scosse e si chinò su di lui.
-John! -
-Ashmrmamcrizbgr-
-Dimmi, John, che c’è? -
-Leva il piede dalla flebo, razza di idiota – riuscì a dire al quarto tentativo. Subito corrucciò la fronte, dava l’impressione di avere un forte mal di testa.
Sentire di nuovo John chiamarlo “razza di idiota” scaldò il presunto cuore del detective, che finalmente si sciolse in un sorriso.
-Vedi che succede ad andare a prendere il latte? -


Il fruscio del suo respiro era amplificato dalla mascherina che gli copriva metà della faccia. La plastica trasparente si appannava ritmicamente e dava all’aria un sapore artificiale.
Un fischiettio raccolse la sua  attenzione, John diresse il suo sguardo verso la fonte del rumore e vide un rettangolo luminoso trasparire da sotto le lenzuola.

“Ti ho riportato il cellulare” –SH

“Mi hanno legato di nuovo al letto e hanno detto che non posso venire a trovarti” –SH

“Tra mezz’ora finisce il turno di guardia dell’energumeno che ora è fuori la mia stanza e sono da te” –SH

“Non vedo l’ora” –JW

“Adesso il mio comportamento è magicamente diventato accettabile? Ammiro la tua coerenza” –SH

“E che mi manchi tanto e vorrei tanto rivedere i bellissimi occhi del mio fidanzato” –JW

“E i tuoi capelli, che ora saranno sicuramente tutti arruffati, come quelli che hai di prima mattina” –JW

“E il tuo culo. Quello non va dimenticato.” –JW

“Sei imbottito di morfina, vero?” –SH

“E’ un’ipotesi probabile, ma questo non significa che non pensi quello che ti ho detto” –JW

“Ti ho mai parlato di quanto siano belle le tue mani? Con le dita lunghe e affusolate, che possono essere così forti, ma anche così delicate e poi farfalle –JW

Farfalle, sì, John… Capisco. Che altro?” –SH


John si destò lentamente, aprendo gli occhi con calma. Mise a fuoco con fatica i contorni del suo fidanzato, che era seduto sul pavimento, accuratamente nascosto dietro al suo letto, lontano dagli occhi di medici e infermieri, e che aveva in mano la sua cartella clinica. Era assorto e non si accorse che John era ormai sveglio.
-Stare seduti per terra in un ospedale, essendovi pazienti per giunta, e di igiene dubbia. Ma ormai ho smesso di discutere di questo con te-
-John! -
Il nome di “John” era un qualcosa di straordinario in bocca a Sherlock, sembrava brillare di luce propria.
-Sei sveglio – si alzò e, sempre chino, si avvicinò al suo ragazzo per baciarlo sulla fronte.
-Sherlock, per amor del cielo, sei stato ferito al torace, non puoi andartene in giro così! -
-E tu, dopo che sei stato investito, hai riportato ferite all’addome, al torace e alla testa. -
-E infatti io sono in un letto, dove dovresti stare anche tu -
-Sei stato tu a dirmi che ti mancavo e che volevi che venissi – lo rimbeccò Sherlock.
-Cosa? Io non ti avrei mai… - Sherlock lo interruppe con lo sguardo. Scandì una sola parola, quattro sillabe:
-Cellulare -
John afferrò il proprio telefonino tra le lenzuola e si ritrovò a leggere messaggi che non ricordava di aver mai mandato. Bloccò lo schermo, guardando truce Sherlock.
-E ovviamente nessuno di questi messaggi uscirà di qui -
-E ovviamente io li ho già inviati a Lestrade perché si assicuri di trovare un posticino per loro nel suo discorso da testimone -
-A parte che Greg è il mio testimone e poi io potrei raccontare cose su di te che non ti faranno mai più mettere piede fuori di casa, non è vero, piccola ape? -
-Ma tu non hai le prove -
-Nemmeno tu, sono solo messaggi -
-John sono qui da due ore, metà delle quali tu le hai passate a descrivere la curvatura dei miei ricci sotto effetto di narcotici, io non ho solo messaggi, ho le registrazioni. -
-Io non ho bisogno delle registrazioni, ho un sito web -
-Beh, anche io ho un sito web -
-Che nessuno legge! -
-B…beh – Sherlock esitò un attimo, era particolarmente sensibile quando si trattava del suo sito web, - E io so la password del tuo -
-L’ho cambiata, non è più quella -
-Lo so, perché adesso è quella con la data del tuo arruolamento più il nome della base dove ti trovavi. La chiami una password questa? -
-Sei così antipatico che mi sono innamorato di te! -
Sherlock arrossì, colto di sorpresa, arrossiva sempre quando John parlava così, per questo lui amava farlo.
-E tu sei… sei così… che… - balbettò.
-Stai zitto, toglimi questa maschera e dammi un bacio come si deve -
-Ma John… la mascherina ti serve, come fai a respirare? -
-Tanto ci pensi sempre tu a togliermi il respiro -
Tre giorni senza baciare John erano troppi, Sherlock fece come gli fu detto. Sapeva di antibiotici, cibo d’ospedale e aria di plastica.


-Dimmi che non hai rubato un camice – la voce di John era sconsolata.
-Se pensi che l’informazione che ti verrà in questo modo fornita dalle tue orecchie potrà contraddire quella da parte dei tuoi occhi, allora va bene te lo dico: non ho rubato un camice -
Sherlock mosse alcuni passi nella stanza, sorridendo radiosamente, nel suo candido camice.
-Ti troveranno qui, ti scambieranno per un dottore e in men che non si dica ti ritroverai in una sala operatoria con un bisturi tra le mani -
Sherlock parve avere un’illuminazione.
-John! Oh mio dio, è vero! Il mio conduttore di luce che giunge sempre in mio supporto! È l’idea migliore della settimana, finalmente avrò qualcosa da fare quando dormi! -
-Sherlock, potrei per favore non doverti pagare la cauzione UN’ALTRA VOLTA?-  l’altro si fece più vicino, - Devi ringraziare che sei sexy con il camice -
Sherlock si chinò su di lui, i loro nasi si sfioravano.
-Sei di nuovo sotto oppiodi? -
John sorrise, provocantemente.
-Forse -
Lo baciò.
Adesso che John poteva respirare un po’ meglio, quello fu un bacio come si deve. Le loro bocche erano pressate l’una sull’altra, per non lasciare che neanche un rivolo d’aria si intromettesse tra loro. Le mani di John erano sulla nuca di Sherlock, le dita tra i capelli, a stringerlo stretto a lui; Sherlock si limitò a tenergli il viso tra le mani, percependo la pelle tiepida di John a contatto con la sua. Si sentivano solo suoni ovattati e i loro respiri pesanti che riscaldavano la stanza.
-Allora, John… come andiamo ogg… -
L’infermiere entrò solo per trovarsi davanti alla scena di un medico intento ad amoreggiare con un paziente, un quadretto degno di Grey’s anatomy.
-Immagino che lei sappia, dottore, che vi sono altre misure sostitutive della respirazione bocca-a-bocca – solo quando si fece molto vicino e alzò parecchio il tono della voce i due lo sentirono.
-E così salta il tuo travestimento e tutti i tuoi malefici piani – mormorò John in un sussurro.

Sette ore dopo John ricevette una foto sul cellulare. Era di un paziente chiaramente in post operatorio.
La didascalia non lasciava dubbio.
“Harold Jersey, 45 anni. Appendicectomia riuscita.” –SH

John lasciò sprofondare la mano con il cellulare sul letto, mentre si portava l’altra alla fronte.

“Non sono mai stato al carcere cittadino. Mi mandi le foto quando ci arrivi?” –JW

“A quanto pare stare in piedi per cinque ore non è consigliabile nelle mie condizioni e ho fatto saltare i punti. Sono di nuovo attaccato al drenaggio toracico. Trovo un modo per liberarmene e sono da te” –SH

“Sherlock, santo cielo, riposati e non osare alzarti da quel letto. Domani hanno detto che mi spostano in reparto”-JW

“Possiamo chiedergli di metterci in stanza assieme” –JW

John era migliorato velocemente. Le sue condizioni subito dopo l’incidente si erano presentate critiche e aveva subito due interventi, che però alla fine avevano sortito il loro effetto. Dopo una settimana era abbastanza stabile da essere spostato in reparto.
Medici, infermieri, pazienti e inservienti furono più che felici di concedere ai due piccioncini di stare nella stessa stanza, se non altro perché questo riduceva al minimo le escursioni tra le corsie del detective, che, per inciso, era ancora in ospedale, perché il numero delle volte che aveva fatto saltare i punti era salito a quattro.

Sherlock dormiva e il sangue gocciolava giù per il tubo del drenaggio, quando John fu trasferito. Questi poteva alzarsi ora e, con attenzione, si mosse lentamente verso il letto di Sherlock, trascinandosi l’asta della flebo. La mise vicino a quella di lui, poi si sistemò sulle coperte, steso al fianco del detective.
Sherlock si mosse, oramai era sveglio, ma era rimasto con gli occhi chiusi e aveva cercato alla cieca la mano di John. Questi gliela strinse e si fece più vicino.
-Il mio idiota… buongiorno – gli sussurrò nell’orecchio.
Le guance di Sherlock si chiazzarono di rosso e infilò la faccia nell’incavo del collo di John, dimentico di tubi e tubicini. John gli sfiorò la fronte con il naso e rimase in silenzio ad ascoltarlo respirare, era una sensazione stupenda.
Solo dopo molto tempo, Sherlock aprì gli occhi, baciò il collo di John e con voce roca ricambiò il buongiorno.
-Ti hanno trasferito qui? – le sue parole erano un sorriso.
-Sono stato eletto a guardia carceraria, sì -
Sherlock si stiracchiò il collo e si sistemò sulla spalla di John.
-Hai chiamato il giudice di pace? -
-Sì, anche il ristorante e la sartoria e ho anche fatto un salto dal fioraio. -
-Sei sarcastico -
-Come sottolinei l’ovvio tu, nessuno! -
-Hai almeno scritto le tue promesse? -
John sorrise guardando la folta chioma riccia che sentiva parlare e lamentarsi.
-Non ho bisogno di scriverle in anticipo, mi basterà guardarti, le parole verranno fuori da sé -
-Sei ancora sarcastico? – fece Sherlock, voltando la testa e stringendo gli occhi.
-Può darsi… - lo provocò John – No -
Sherlock tornò ad annidarsi sul petto del suo fidanzato.
-Io le ho scritte le tue promesse – il tono che aveva usato era dolce, ma leggermente indispettito.
-E sei andato nel panico sei volte, e hai finito per chiamare Greg. Ho un déjà-vu… -


-Oh, John, come sono contenta di rivedere anche te. Tutti questi giorni, senza notizie… Sherlock non rispondeva mai alle mie chiamate, ero preoccupata! -
-Aveva altro da fare… trapiantare reni… dare consulti ortopedici… non è vero? -
John si girò a guardare Sherlock, si erano infilati nello stesso letto, seduta su una sedia affianco c’era la signora Hudson, con Lestrade.
-Quando hai finito di dire cose che un ispettore di polizia non dovrebbe sentire, fammelo sapere -
-Eh eh, scusa, Greg -
-John, cosa ti sembra di questi?-
Il fidanzato si sporse verso Sherlock per vedere cosa gli stava indicando sullo schermo del computer.
-Uguali a quelli di prima -
Stava scegliendo i segnaposto.
-No, John, non sono uguali a quelli di prima! La filigrana della carta è molto più sottile e la sfumatura di arancio è più chiara. Bisogna considerare la quantità di luce che filtra attraverso di ogni segnaposto per accertarsi che non siano troppo opachi e non tolgano luminosità all’ambiente… -
John roteò gli occhi, dando due colpetti sulla mano di Sherlock, ma smettendo di ascoltarlo mentre continuava ad andare avanti sulla qualità dell’inchiostro che li distingueva.
-L’avete preso quel bastardo, poi? -
-Abbiamo qualche filmato dalle telecamere a circuito chiuso che riportano un’auto simile a quella che hai descritto, ma senza la targa… -
-E quell’altro bastardo? -
-Di lui ancora niente, se solo SherLOCK FOSSE DISPOSTO A DARCI UN IDENTIKIT! -
Sherlock alzò pigramente gli occhi dallo schermo.
-No, Gale, non ti darò nessun identikit. È il mio caso. Vieni di là, ho bisogno di parlarti -
-Santo cielo, Sherlock, non ti puoi alzare! – fece esasperato Lestrade.
-Sì, invece. – si mise a sedere e prese un contenitore cilindrico contenente il sangue estratto con il drenaggio toracico e lo mise in mano a Greg, - Ecco, tieni questo. Io prendo la flebo. Andiamo. -
L’ispettore lanciò un’occhiata interrogativa a John, che si limitò a rispondergli con un’espressione di impotenza e rassegnazione.
-Allora, dove vuoi che porti te e il tuo sacchetto di sangue? -
I due sparirono oltre la porta, nel corridoio.
-John, mi sembri stare molto meglio. Qualche giorno fa sono passata fuori dalla terapia intensiva… mio Dio, com’eri messo! E invece ora guardati! – esalò la signora Hudson.
-Sono stato in guerra, signora Hudson. E vivo con Sherlock Holmes da anni. Il mio corpo ha visto di peggio! – sorrise John.
Mrs Hudson si chinò, facendosi più vicina a John.
-E Sherlock come sta? È così pallido. – sussurrò.
-I medici hanno detto che se continua a farsi saltare i punti, l’utilizzo protratto del drenaggio toracico gli farà venire un’infezione. Rischia di beccarsi una polmonite, quell’idiota! -
La donna annuì.
-Oh, beh, anche lui ne ha viste di peggio… si ricorda quando Mary gli ha sparat… -
John le poggiò una mano sul polso.
-Noi non parliamo di quello -
-E invece dovremmo – intervenne Sherlock, rientrando nella stanza in processione con Lestrade. –Così poi guadagnerei il diritto di non andare a fare la spesa per due anni -
-Due anni… ti sembra un arco di tempo familiare questo? -
Sherlock si infilò di nuovo nel letto, indispettito.
-Doveva sentirli, facevano sempre così i primi tempi. Da sotto, si sentivano le urla. C’era John che gridava a Sherlock che mancavano le uova o qualcos’altro e Sherlock gli rispondeva che era occupato. Allora la risposta di John era sempre la stessa: “Due anni”, e poi si sentiva la voce di Sherlock che urlava: “Mary Morstan”. E andavano avanti così fino a che non facevano chiudere i negozi -
-E’ per questo che non ne parliamo più – concluse John.
Lestrade ridacchiò.
-Meglio così. Ho dovuto fare un sacco di tazze di tè, per cancellare il broncio che mettevate dopo -
-Okay, ora dovrebbe smetterla di parlare, signora Hudson! – la zittì Sherlock, incassando la conseguente  gomitata di John.
-No, continui pure. Sto accumulando dell’ottimo materiale per il mio discorso da testimone.-



Era quasi ora di pranzo, e c’era un pigro sole che illuminava metà della camera.
Sherlock era steso in maniera teatrale sul proprio letto e guardava il soffitto. Era guardato a vista da John.
La sua nuova minaccia era semplice: era da quattro ore con il pollice a due centimetri di distanza dal pulsante per chiamare gli infermieri: non doveva neanche inseguirlo, se Sherlock si fosse alzato dal letto sarebbe bastata una leggera pressione e si sarebbe ritrovato di nuovo con le manette di stoffa ai polsi.
Sherlock non aveva neanche bisogno di calcolare la dose di sonnifero che avrebbe dovuto somministrargli per avere un po’ di pace. Sarebbe bastato che andasse in bagno e lui avrebbe avuto un paio d’ore libere per lavorare sul quel cadavere che aveva adocchiato ieri nell’obitorio.
Un rumore improvviso giunse alla stanza di Sherlock e John. Qualcosa era rovinato a terra, qualcosa di imponente e metallico.
Sherlock si drizzò a sedere.
John ridusse gli occhi a due fessure.
-Psichiatria. Ricordati del reparto di psichiatria. -
Seguirono delle urla e un gran trambusto, che sapeva di scalpiccio di piedi e corpi che urtano tra loro.
Sherlock era sempre più sulla punta del letto.
-Sherlock… - il monito di John fu coperto di nuovo dal vociare, un chiasso tremendo ondeggiava tra le mura, sempre più lontano. Sentì le scarpe di gomma degli infermieri del piano scalpicciare, mentre passavano davanti e oltre la loro porta, in direzione del baccano.
A quel punto Sherlock scattò.
Si alzò in piedi, si estrasse il drenaggio toracico, afferrò un cerotto e (non) arrestò la perdita di sangue. Sfrecciò fuori dalla stanza senza che gli scampanellii di John sortissero alcun effetto.
-Per amor del cielo, Sherlock! – gridò esasperato, diede un pugno sul letto e si lanciò all’inseguimento.

Alla fine del corridoio c’era effettivamente una folla di gente, prevalentemente infermieri e medici, più qualche paziente che si sporgeva fuori dalla propria stanza.
Raggiunse Sherlock, che dall’alto del suo metro e ottanta riusciva a vedere oltre la ressa.
John si risparmiò la predica e si gustò la dolce sensazione dell’adrenalina in circolo.
-Che sta succedendo? – gli chiese.
-Sembra che un quarantenne in sovrappeso stia massacrando un vecchio. Probabilmente si stanno litigando il budino della mensa. Noioso. -
-Beh, chiediamo a qualcuno se ha visto l’accaduto – propose John.
Dopo un paio di risposte negative, trovavano la tipa che faceva al caso loro.
-Ero davanti alla stanza, stavo aspettando mia sorella, era in sala operatoria. E sono entrati nella stanza questi due vecchi signori, un uomo e una donna, vestiti come se l’armadio si fosse ribellato contro di loro. Si sono infilati in un paio di camere, prima di arrivare in quella lì. A quel punto, li ho persi di vista e so solo che quell’uomo ha aggredito il vecchio, gridando “L’ha uccisa! Tua moglie ha ucciso la mia donna!”. E ora eccoli là: lottatore di sumo contro Monaco buddista. -
Gli occhi di Sherlock si accesero, John osservò preoccupato il volto del suo ragazzo illuminarsi.
-Questo è meno noioso del previsto. – sussurrò, portandosi le mani sotto il mento.
-Oh no. Non le mani! Sherlock sei un paziente in un ospedale, non puoi seguire un caso qui e… Ovviamente non mi stai più ascoltando – la voce di John si affievolì con sconforto. Sherlock oramai era già lontano, nei meandri del suo palazzo mentale.
La ragazza, doveva avere venticinque anni al massimo, parve avere un’illuminazione.
-Ecco perché mi sembrava familiare! Lei è Sherlock Holmes! E lei deve essere il Dottor Watson! -
John fece un sorriso radioso e le porse la mano. Era genuinamente felice di brillare di luce riflessa, perché non poteva essere più orgoglioso del suo Sherlock.
-E’ fantastico conoscervi, io sono Mar… O mio dio, lui sanguina! -  
In effetti la sfavillante medicazione che Sherlock si era fatto da solo era stata gioiosa e inutile, la metà destra del suo camice traboccava di sangue.
-Ed è per questo che ora ce ne torniamo in stanza -
Completamente assorto nei suoi pensieri, Sherlock non si accorse di venire trascinato via, di nuovo nel suo letto.
-Riguardatevi! – gridò la ragazza alle loro spalle.

Il suono di vetri rotti echeggiò drammaticamente nel silenzio della notte. Dopo qualche secondo, vi fu uno schiocco e un altro rumore di vetri in frantumi.
John aprì gli occhi, confuso, la mente annebbiata dal sonnifero. Realizzò solo dopo che a lui non stavano più somministrando alcun sedativo, e che quindi qualcuno doveva averlo drogato. Ma quel pensiero fu presto soppiantato dall’immagine di Sherlock che giocava a distruggere delle fialette di vetro con una fionda.
John sbatté le palpebre e si alzò un poco.
-Si può sapere che ti prende? E dove diavolo l’hai presa una fionda? -
Sherlock lanciò un’altra di quelle che sembrano supposte e mandò il colpo a segno.
-Sgraffignata ad un bambino giù in pediatria. Mi annoio. Sono stato in traumatologia, doveva avevano portato il vecchio. È un pazzo, niente di più. Tra poco raggiungerà la moglie in psichiatria. -
-Ma… ma… l’omicidio? Il tipo ha detto che lei gli ha ucciso la moglie -
Sherlock afferrò un’altra supposta.
-John, siamo in un ospedale. Sarà stata una coincidenza. Fidati, ho scambiato due parole con il vecchio, ha solo saputo dire un mucchio di stupidaggini su anime e morte. Sarà una sorta di predicatore a cui è venuta meno la capacità di intendere e volere a furia di ripetere scempiaggini! -
Stavolta mancò il bersaglio. John rise, in qualche modo era molto divertente per lui. Era uno strano quadretto, che sapeva di casa.
-Niente caso, allora? -
-Niente caso -
E un’altra boccetta andò in frantumi al suolo.
 
   
 
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