4th of
July,
Trinity Park.
And
the boys from the casino dance with their shirts open
like Latin lovers on the shore Chasin' all them silly
New York virgins by the score.
Brooklyn Downtown, NYC, 4
Luglio 2014.
Brooklyn è la trama intricata di una tela disfatta e ritessuta più
volte.
Dove c’era una bocca di porto frequentata da prostituite c’è un parco
con la vista sul Ponte dove le coppiette si immortalano nei selfie degli smartphone.
Il quartiere operaio è diventato un centro direzionale che compete con Lower Manhattan, dalla via principale non si diramano più
viuzze strette solcate da file di panni stesi e non ci sono più ragazzi che
chiamano le proprie fidanzate lanciando sassolini contro i vetri delle finestre
o casalinghe che si urlano ricette in italiano e non c’è più il tram che perde
pezzi di carbone durante le curve, che quando era piccolo cercava sempre di
raccoglierne qualche pezzo da usare nella stufa di casa, ma non era il solo a
farlo e gli altri bambini erano più forti ed ugualmente affamati.
Ma quando era piccolo c’era Bucky, che aveva
fatto un occhio nero al figlio del ciabattino per lui. C’era Bucky che faceva lo strillone dei giornali e aveva la voce
ed il fiato di un atleta olimpionico, e lo si poteva sentire da dietro le
finestre chiuse in pieno inverno, figurarsi in estate.
“Se mi reggi questo pacco dividiamo la paga” gli diceva ad ogni alba,
quando il furgoncino sconquassato del Times buttava i
giornali impacchettati con lo spago ai loro piedi e loro dovevano venderli
tutti prima di andare a scuola, a parte le sei copie per gli insegnanti che non
compravano il Times da nessuno tranne che da Bucky. Ci metteva poco, pochissimo, così poco tempo che
Steve riusciva a reggere il pacco senza stramazzare a terra in preda ad un
attacco d’asma.
C’era Bucky che ogni dannato Quattro Luglio,
davanti alle girandole scoppiettanti delle bancarelle, sosteneva che “Il
Presidente dovrebbe pagare tutti quelli che sono nati oggi. Dannazione, sei più
americano di Washington!” e che con il terzo stipendio della fabbrica l’aveva
trascinato a Coney Island per il suo compleanno.
“Buck, non è necessario che offri tu. Andiamo,
un lavoro ce l’ho anch’io!”
“Lo chiami lavoro quello di disegnare cartoline satiriche per la
tipografia? Con quello che ti pagano…”
“Di questi tempi è già qualcosa, no?”
“No.” Bucky aveva sorriso e scostato il ciuffo
ribelle dalla fronte con un colpo di testa: “Tu meriti di meglio. Noi meritiamo
di meglio.”
Steve era inciampato in una pecca del marciapiede ed era quasi finito
per terra. Aveva ripreso equilibrio e contegno fingendo indifferenza ed
allungato la gamba per tenere il passo del suo amico: “E cosa meritiamo?” Quasi
era andato a sbattere contro la sua schiena quando si era fermato
improvvisamente a guardare un manifesto appeso ad una staccionata; lo Zio Sam
puntava il dito esattamente al centro del petto rachitico di Steve.
“Meritiamo di essere eroi.” Bucky gli aveva passato il braccio attorno alle spalle:
“Voglio arruolarmi.”
“Anch’io!”
L’aveva guardato con un sorriso: il ragazzone dalle braccia tornite che
alzava casse e pesi quasi senza sforzo e il suo rachitico amico perennemente
malaticcio. Ma come ogni volta, come in ogni sfida che insisteva per
intraprendere, Bucky non aveva neppure provato a
smorzare la sua volontà: “Perché no? L’America ha bisogno della sua gioventù
migliore, no?” e poi l’aveva trascinato via dal manifesto, tra la folla
colorata di Coney Island, a prendere una di quelle
mele candite che Steve mangiava malvolentieri perché gli spaccavano la mascella
– e metti pure anche un dente, che forse era l’unica cosa che aveva di sano.
“Hey ragazze!” Due amiche si erano voltate
subito, le labbra rosse per la mela che addentavano ed i capelli mossi dalla
brezza dell’Oceano: “Che ne dite di far ballare il mio amico? È il suo
compleanno!””
Avevano entrambe riso senza staccare gli occhi da Bucky,
poi la più carina aveva piegato la testa e pigolato un “Ed il tuo, di
compleanno, quand’è?”
Ormai ci aveva fatto il callo, Steve. In fondo era il prezzo da pagare
per andarsene sempre a zonzo in compagnia di uno come Bucky:
tra il perdere lui per cercare di mettersi in mostra con le ragazze
corteggiandole con i suoi disegni e rimanere nell’ombra sì, ma di quella del
suo migliore amico beh, preferiva la seconda.
Ma quella era una vita prima. Una vita in cui un siero non l’aveva
ancora trasformato in un uomo nuovo ed in cui una guerra non gli aveva ancora
strappato quanto di bello c’era per l’uomo vecchio.
Coney Island è un’attrazione per turisti stranieri e
Brooklyn è caotica e distaccata quanto Manhattan. Ci sono edicole con tante
riviste e barboni per strada che vendono cartoline del Ponte disegnate a
carboncino. E l’aria malsana di Downtown è meno irrespirabile, e le strade si
aprono su squarci di verde curato e panchine di legno.
Al posto della fabbrica di colla dove lavorava il padre di Bucky – Buck Senior, si faceva
chiamare, l’uomo che finiva una sigaretta in un solo tiro – c’è Trinity Park, dove la gente fa jogging alla mattina –
tante, tantissime ragazze in pantaloni attillati che incrociano il suo sguardo
e rallentano l’andatura per permettergli un saluto che lui non porge mai – e
gli anziani siedono sulle panchine e si lamentano dei prezzi sempre più cari, e
dogsitter che portano a spasso una decina di cani per
volta, esibendosi in complicate contorsioni per chinarsi a terra e raccoglierne
gli escrementi senza lasciare i guinzagli.
Il proprietario della fabbrica di colla aveva una miriade di cani da
caccia e spesso li faceva portare fuori da Bucky: “Se
porti tu questi due più piccoli ti do parte della paga.” Ma poi non si
fermavano a raccogliere quello che lasciavano, a parte quando Bucky voleva fare uno scherzo al macellaio del quartiere
che alzava troppo i prezzi e faceva cagare l’alano dentro ad un sacchetto di
carta e lo abbandonava incendiato davanti alla sua porta di casa, dopo aver
suonato il campanello e corso a nascondersi.
È tutto diverso e tutto uguale, in certi casi.
Il cielo bigio il Quattro Luglio era una rarità anche settant’anni
prima.
Il parco è quasi deserto, il tempo instabile non deve aver intaccato la
tradizione del barbecue – c’è profumo di carne alla griglia nell’aria, forse
qualcuno lo sta facendo proprio lì vicino – ed è ora di pranzo, lo stomaco di
Steve si fa sentire ed in genere è la sua fame compete con quella di Thor
quindi non è esattamente saggio
digiunare.
Ritorna sui suoi passi e pensa che prenderà la metropolitana e tornerà
alla Tower, dove Pepper
avrà sicuramente organizzato qualcosa – l’ha vista confabulare con Natasha – e Tony si esibirà in una qualche pedante
sceneggiata prendendolo in giro in cinquanta modi diversi e Bruce si barricherà
nella sua stanza insonorizzata quando Clint darà il via al suo personale
spettacolo pirotecnico – si spera fuori dalla finestra e non sul divano come a
Capodanno.
È tutto diverso e non per forza più brutto.
Solo diverso. C’è qualcosa in più e qualcosa in meno.
E ci sono giorni in la mancanza di quel qualcosa - no,
di quel qualcuno – si fa sentire con una prepotenza insopportabile.
Ogni Quattro Luglio.
Questo in particolare.
Due paia di scarpe da corsa femminili si avvicinano e rallentano, Steve
alza lo sguardo da terra ed incontra gli occhi invitanti di due ragazze.
Sorridono, si guardano, ed ognuno prosegue per la sua strada.
In fondo al vialetto resta solo un uomo con addosso una giacca di jeans
impolverata ed un berretto da baseball sdrucito. Sembra quasi un barbone, Steve
non lo può vedere in faccia perché è voltato di spalle, ma pensa che se gli
chiederà uno spicciolo non glielo negherà – e chissenefrega
se lo spenderà in alcool, beato lui che può ubriacarsi – ma che se non dirà
nulla passerà oltre e prenderà la metropolitana.
“Tu.”
La voce del barbone è un sussurro roco ed impastato, come se non fosse
più abituato ad usarla. Steve si volta ed incontra i suoi occhi tra le ciocche
castane dei suoi capelli sporchi.
“Tu.”
Ne riconosce il colore, le pieghe della fronte corrugata, la forma delle
labbra arricciate tra la barba incolta.
“Tu.” Ripete per la terza volta l’uomo. Che del barbone ha solo l’aspetto,
ma per Steve ha un nome che è più caro del suo.
Ma non riesce ad aggiungere nulla: la voce a lui è scomparsa del tutto,
risucchiata dal battito che il suo cuore ha mancato. Boccheggia e pensa
irrazionalmente che il vecchio Bucky gli avrebbe
detto di smetterla di fare quella figura da pesce tonto. Il nuovo, invece, gli
punta addosso i suoi occhi vuoti.
“Bucky” riesce infine a sussurrare Steve.
L’altro indietreggia quando fa un passo avanti. Si ferma, alza le mani per
fargli vedere che è disarmato, che non ha intenzioni ostili. “Sei James Buchanan Barnes – Bucky per tutti quanti.”
“Lo so.” Dice semplicemente, impastando le sillabe e mordendosi le
labbra.
“Lo ricordi?”
Scuote la testa: “Lo so.”
“E ti ricordi chi sono io?”
Bucky distoglie lo sguardo, ruota gli occhi attorno
e poi li riposa su di lui: “La mia missione? No.” Si umetta le labbra ed
aggrotta il viso per lo sforzo: “Sei Captain
America. Steve Rogers.”
Steve annuisce velocemente: “Allora ti ricordi.”
“No, lo so solo e basta.”
“Come stai?” Che domanda stupida: ha davanti un uomo pallido ed
emaciato, con vestiti laceri e sporchi e negli occhi il nulla assoluto. Si
sforza di fare appello alla sua razionalità, di aggrapparsi a qualcosa che
anche Bucky possa ricordare, che possa accendere
qualcosa nella sua mente.
“Hai fame, zuccone?” Glielo chiedeva ogni
volta che varcava la soglia di casa sua, praticamente ogni giorno: “Ma’, c’è ancora quel pasticcio di patate?” E
la Signora Barnes glielo metteva nel piatto con un
bel pezzo di formaggio, senza attendere una sua reale risposta.
“Hai fame, Bucky?” Dall’altro lato dell’area
bimbi c’è un chiosco ancora aperto. Steve glielo indica con lo sguardo ma Bucky scuote appena la testa: “Vado a prenderti un boccone,
che ne dici?”
Bucky resta a fissarlo, immobile. Quando Steve si
allontana appena lo vede sedersi su una panchina, fissare il vuoto oltre gli
alberi ed il parco giochi, il cielo bigio che diventa ancora più scuro e la
pioggia che incombe.
L’uomo del chiosco ha la radio accesa e giusto un paio di hot dog a
cuocere: “Con questo tempo non c’è nessuno in giro” precisa il palese tagliando
il pane: “Mostarda o Ketchup?”
Steve non ne ha idea: “Uno con mostarda e uno con ketchup. E una
Coca-Cola.” Pensa alla voce impastata di Bucky e alle
sue labbra secche e tagliate: “Due. Grandi.” Attende che gli hot dog si
scaldino saltellando su un piede solo, gettando occhiate dietro si è in
direzione di Bucky, a controllare che sia ancora
sulla panchina – sì, lo è, e non sembra aver mosso un muscolo – e a cercare di
raccogliere le idee per un discorso.
Parlargli di cosa c’era prima, della fabbrica di colla. Dei cani del
padrone – quanti erano? Nove, dieci? – e di che giorno è oggi.
Perché non può essere un caso che Bucky si
trovi in quel posto in quel giorno.
Gli dirò che oggi faccio
novantasei anni e che se voleva farmi una sorpresa beh, c’è riuscito. Come
sempre.
C’è ancora il suo amico, dietro quegli occhi vuoti. C’è una piccola
parte che l’Hydra non è riuscita a massacrare e che
sa che quello è il giorno del suo compleanno e che lì c’era la fabbrica dove
lavorava Buck Senior – e magari si ricorda ancora di
come finiva le sigarette con un tiro solo e che quando ha provato a farlo lui
per poco non ci resta secco.
E se non ricorda abbastanza lo trascinerà a Coney
Island e gli farà fare il Cyclone, e riderà quando
lui vomiterà l’anima come ha fatto con lui una vita fa.
Steve allunga i cinque dollari, prende il portabicchieri
con le CocaCole ed il sacchetto con gli hot dog e si
volta.
La panchina è vuota.
Il parco è vuoto.
L’uomo del chiosco ha voltato le spalle e sta spegnendo tutto, pronto ad
andarsene a casa prima che la tempesta paventata dalla radiolina accesa arrivi
davvero.
Si guarda attorno. Percorre il parco, chiama Bucky
per nome, per soprannome e per cognome. La sua ricerca diventa frenetica ed
inutile. Si da dello stupido per non averlo tenuto vicino e per non averlo
toccato – a costo di farsi fratturare il cranio avrebbe dovuto tenerlo stretto
– per averlo lasciato andare.
La nuvola scura arriva sopra la sua testa e la pioggia inizia a cadere.
“Hey Rogers, pensavi
che ti tenessimo a stecchetto?” Che Tony lo apostrofi è prevedibile. Che lui
non risponda sbuffando lo è meno, appoggia l’involucro degli HotDog di cui non è riuscito a disfarsene perché continuava
a sperare che Bucky sarebbe ricomparso
improvvisamente e sorseggia una CocaCola sedendosi
sul divano vicino alla vetrata che domina Manhattan “Avevo voglia di uno
spuntino.” Mormora come scusa.“Un aperitivo, non si chiama così?”
“Sì, già. Il classico
aperitivo del Quattro Luglio a base di hotdog e CocaCola, quale americano potrebbe rinunciarci!”
“Tony, nessuno ti ha insegnato che non si deve sfottere la gente il
giorno del loro compleanno?” Natasha entra , ruba
l’altra CocaCola e guarda Steve con un’intensità tale
che lui si sente completamente nudo davanti ai suoi occhi chiari. “Clint ha
detto che la carne è quasi cotta e Pepper ha chiesto
il tuo aiuto per apparecchiare, Tony.”
“Non può andarci Bruce?”
“Pepper ha chiesto di te. Hai dieci secondi.”
Tony sbuffa per la mancanza di democrazia in un giorno come quello e
lascia perdere il telecomando a cui stava facendo una chissà quale modifica. Natasha si siede di fianco a Steve.
Non aggiunge altro.
Steve gliene è grato.
Partorita OGGI,
all’improvviso.
Nessuna pretesa, solo quella
di celebrare il compleanno del Cap a modo mio e il
dare forma al plotting compulsivo di quel gruppo di
disperate di cui faccio parte in questo Fandom.
Il titolo è tratto dalla
canzone 4th July, Asbury
Park (Sandy) di Bruce Springsteen (Di cui la citazione iniziale è un verso
della prima strofa) e su NYC è prevista tempesta, oggi, e Trinity
Park esiste davvero, ed essendo Downtown l’ex zona industriale di Brooklyn, è
più che plausibile che settant’anni fa ci sorgesse una fabbrica. Di colla, chissà!
Come sempre, nel caso abbiate qualche domanda vi
rimando al mio ask
e per tutto il resto c’è MasterStark.
Ecco tutto.
Happy Freedom Day!
Alla prossima, se vorrete,
EC.