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Autore: Role    05/07/2014    6 recensioni
John trasse un respiro profondo.
-Sai, credo di essere pronto. -
Disse stringendosi nelle sue stesse spalle.
-Pronto per cosa? –
Il biondo percepì nuovamente i brividi che risalivano il suo corpo scuotendolo.
Inspiegabilmente una frase si fece largo nella sua mente.
Il vento dell’est sta arrivando. Sta venendo a prenderti.
-Voglio sapere come l’hai fatto. Come sei sopravvissuto. –
Sherlock si girò e sorrise.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Coming back to life.

 
John Watson si era sempre definito un medico.
Amava farlo.
Credeva che quell’epiteto lo rendesse migliore agli occhi della gente.
Conferendogli un’aria gentile e sapiente.
Si sentiva legato a coloro che curava.
I loro successi potevano essere i suoi, i loro dolori potevano essere paragonati ai propri, rendendoli minimi.
Ogni loro respiro avveniva per merito suo, e gli permetteva di combattere la guerra che infuriava, non solo all’esterno della sua tenda, ma anche dentro di se.
 
Dopo la morte di Sherlock, iniziò a riconoscersi come soldato.
Nello specchio, gli occhi duri e freddi del capitano John Watson gli restituivano lo sguardo, con impareggiabile severità.
Aveva smesso di combattere.
Si limitava ad attraversare la trincea del lutto.
Calpestando i cadaveri delle convenzioni sociali.
Ricevendo in pieno petto i colpi della sua assenza che, tristemente, traspariva da ogni gesto.
Per ogni thè che aveva preparato con lo zucchero, come lo prendeva lui, un brandello del suo petto gli veniva portato via.
Per ogni volta che si era seduto nella sua poltrona, cercando il suo odore, un arto si accasciava a terra, pronto ad essere putrefatto dall’attesa.
Concedeva a Mary solo brevi frammenti del suo essere.
L’uomo gentile ed estremamente educato.
Non avrebbe più concesso a nessuno di conoscerlo così bene, di capirlo.
Non poteva.
Avrebbe unicamente fornito gli strumenti per annientarlo.
Le armi per sconfiggerlo in guerra.
 
 
Non credeva in Dio, quanto aveva visto in gioventù glielo impediva.
Eppure qualcuno, dal cielo, aveva voluto concedergli di rivedere Sherlock.
Di potersi beare di quegli sguardi che, ormai lo aveva capito, rivolgeva soltanto a lui.
Non riusciva ad essere arrabbiato. Checché ne dicesse.
Aveva finto, per proteggerlo.
E lo aveva ancora lì con se.
Intento ad annoiarsi in salotto, rendendogli impossibile il concentrarsi su qualsivoglia altra cosa.
Non aveva voluto sapere come, non gli importava.
Era semplicemente giusto così.
Per una singola volta la vita era stata giusta.
Era la fine delle lunghe giornate di agonia nelle quali si limitava a concentrarsi sul lavoro, sperando di non dover mai tornare a casa.
Sperando di non dover camminare tra persone che a tratti lo riconoscevano e gli lanciavano sguardi impietositi.
Come se riuscissero a capirlo. Pensava amaramente.
Come se avessero mai capito Sherlock.
Ogni giorno i suoi occhi lo esaminavano attentamente, chiedendosi se fosse davvero lui.
Beandosi della sua espressione accigliata e del suo profilo.
Osservando i giochi di luce che i suoi zigomi compievano.
Tutto di lui implorava di essere guardato nella sua quieta indifferenza, affermandosi come centro della vita di John.
Posto, che l’uomo era stato ben lieto di concedergli.
Come se non lo fosse sempre stato. Aggiungeva a volte il suo subconscio.
E John non lo negava.
 
Era tornato a risolvere casi, con lui.
A provare il brivido di analizzare ed essere reso partecipe di quanto avveniva nella sua mente.
Trascinato in quella perfetta melodia fatta di contrasti, che quell’uomo portava con se ovunque.
La genialità e la sregolatezza.
La perfezione e la dannazione
La giustizia e l’arroganza.
La costante dicotomia che lo portava ed essere così unico e così frainteso.
Ad essere fuori dal mondo, conoscendolo meglio di chiunque altro.
A volte sentiva il bisogno di toccarlo, per sapere che era lì per davvero.
Poteva essere un piccolo scontro accidentale, mentre entrava in cucina.
Una minima testimonianza fisica del calore che lo aveva riportato in vita, sottraendolo all’oblio.
Tutto era tornato a scorrere.
Veloce, come in un sogno.
Ogni dettaglio si imprimeva dentro di lui con colori vividi e irrealistici, conducendolo in un sentiero lastricato di irripetibili momenti.
Istanti che attendeva e che, quasi magicamente, si materializzavano davanti a lui.
Finalmente si sentiva padrone della sua vita.
Gli incubi non lo perseguitavano più.
Ogni sera chiudeva gli occhi e, semplicemente, li riapriva il giorno dopo, ricolmo di aspettative.
Risolvevano i casi, ma si sentiva come se non lo facesse per davvero.
Era come ripercorrere qualcosa di letto su un libro.
Nonostante ciò, non gli importava.
Era tornato alla sua routine.
A volte parlava con Sherlock.
Gli raccontava dei due anni trascorsi, e lui, semplicemente, si limitava a criticare il suo sentimentalismo.
Ed era più di quanto John avesse mai desiderato nella sua esistenza.
Il tempo passava e si era riabituato alla sua presenza.
Ormai la dava quasi per scontata.
Fu durante un caso che, per la prima volta, sentì il bisogno di un chiarimento.
L’avvicinarsi delle nozze con Mary lo aveva portato a porsi numerose domande, domande a cui, per quanto brillante, Sherlock non poteva rispondere.
Fino ad allora, si era limitato ad annegare le sue indecisioni nel turbinio di adrenalina che soltanto un indagine intricata poteva donargli.
Eppure, aspettando il momento migliore per agire, davanti a Buckingham Palace, sembrava che il suo mondo stesse rallentando.
Per la prima volta, dal ritorno di Sherlock, le cose si concretizzavano e sembravano pienamente reali.
Seduto su quella panchina, poteva osservare con la coda dell’occhio il profilo dell’amico, che si stagliava contro il timido sole del marzo londinese con il capelli scossi dal vento.
I suoi occhi azzurri erano concentrati sulla guardia che aveva richiesto il loro aiuto e la sua mente lavorava a pieno ritmo.
-A volte è bello avere un po’ di normalità…-  Esordì.
Non lo pensava davvero.
Nonostante ciò sentiva il bisogno di comunicargli qualcosa, non sapeva esattamente cosa, forse voleva soltanto giustificare il suo rapporto con Mary.
-Credevo ti piacesse questa vita. - Asserì atono il consulente investigativo senza distogliere lo sguardo dal suo obbiettivo.
-È ovvio che mi piace…- Rispose.
No, non era Mary il problema.
Qualcosa cercava di comunicargli che era arrivato il momento di discuterne.
Una sensazione gelida si faceva strada attraverso il suo corpo.
Gli paralizzava le viscere in una stretta mortale.
-Allora, qual è il problema? - C’era qualcosa di distorto nella voce di Sherlock, come se parlasse sott’acqua.
Era soltanto un attacco di panico. Si ripeteva il medico.
Sarebbe passato.
-Questi due anni…sono stati molto duri per me…-
Perché stava dicendo una cosa del genere? Sentiva le sue gambe tremare.
 Sudava.
-Ho pensato al peggio…a volte… volevo raggiungerti…-
Fu travolto dal lampo degli occhi azzurri di Sherlock e la sua voce gli giunse nitida come non mai.
-Non te lo avrei mai permesso. Ti tenevo d’occhio. –
-Sarei saltato, se tu non fossi tornato. -
Il moro distolse lo sguardo guardando una piccola area del parco che, stranamente, non era occupata dai turisti.
John trasse un respiro profondo.
-Sai, credo di essere pronto. -
Disse stringendosi nelle sue stesse spalle.
-Pronto per cosa? – 
Il biondo percepì nuovamente i brividi che risalivano il suo corpo scuotendolo.
Inspiegabilmente una frase si fece largo nella sua mente.
Il vento dell’est sta arrivando. Sta venendo a prenderti.
-Voglio sapere come l’hai fatto. Come sei sopravvissuto. –
Sherlock si girò e sorrise.
-Io non sono sopravvissuto, John. -
 
E poi svanì.
 
Il vento improvvisamente iniziò a sferzare e il cielo si rabbuiò.
Al centro di quella tempesta c’era soltanto John Watson, e nessun altro.
Ogni speranza era stata portata via.
Chiedeva soltanto che la desolazione lo scarnificasse e che reclamasse gli ultimi brandelli della sua anima.
Ammesso che ne avesse ancora una.
Il vento portava voci, ricordi e orrore.
Fatemi passare.
Per favore, è un mio amico.
Un polso morto, che non avrebbe battuto mai più.
Ti prego, un ultimo miracolo, per me.
 
Correva, senza muoversi per davvero.
Urlava le cose che avrebbe voluto dirgli.
Lo colpevolizzava.
Lo accusava.
Lo reclamava.
Gli chiedeva di rimanere lì con lui.
Di tenerlo vivo in quell’inferno, perché il resto non avrebbe avuto senso.
Cadde al suolo implorando pietà.
Voleva soltanto cadere, come lui.
 
Fu allora che si svegliò.
Ed iniziò ad annegare.
 
 
                                                                 ***
Annaspando accolse nei suoi polmoni una generosa quantità d’aria, sperando di riuscire a contenere la sgradevole sensazione che era appena esplosa nel suo petto.
I suoi occhi si riabituarono lentamente all’oscurità dell’appartamento.
Non aveva bisogno di essere lucido per capirlo.
Quella piccola e squallida residenza, collocata in una zona popolare, diceva più di mille parole.
L’ordine e la totale assenza di cianfrusaglie erano il rapido monito della sua agonia e la conferma della sua condizione.
Cercò furiosamente di aggrapparsi a quello che aveva sognato.
Forse, se avesse chiuso gli occhi, non sarebbe finito.
Avrebbe potuto percepirlo.
Tese le orecchie.
Credeva che, se si fosse concentrato abbastanza, avrebbe percepito il suo respiro regolare provenire dalla stanza adiacente.
Non poteva.
Lo aveva lasciato solo, ancora una volta.
Si chiedeva se si stesse beffeggiando di lui.
Un reduce di guerra, immerso nella creazione di teorie complottistiche su una morte evidente e confermata.
Patetico.
Cercava di tenersi aggrappato a quanto aveva visto quella notte, ma non ci riusciva.
Lentamente, era stato privato di tutto.
Affondò le dita nel braccio alla ricerca di dolore.
Una scarica di qualcosa che gli mostrasse un barlume di vita nel suo corpo.
Scalfì la pelle più e più volte, senza ottenere nulla.
Percepì i brandelli della sua stessa carne insediarsi nelle sue unghie, umili imitazioni degli artigli della pazzia che lo aveva attratto a se.
Si chiese se anche lui avesse provato dolore nel buttarsi.
Non trovò una risposta, ma giunse ad una conclusione.
Era biologicamente vivo, eppure la sua anima aveva cessato di reagire, il suo cuore di battere e i suoi sensi di percepire.
L’umiliazione lo impregnò, come il suo sangue aveva fatto con le lenzuola.
 
Credeva di aver sperimentato il dolore e il lutto con la morte di Sherlock, ma si sbagliava.
Tremendamente.
L’ inadeguatezza aveva soppiantato il sentimento originario.
Trascinava con se un bagaglio di indecisioni, alimentate da critiche, che spesso erano state create dalla sua stessa mente.
Nelle notti successive non dormì.
Il timore di essere felice nel sogno, per poi soffocare contro lo spesso muro della realtà, lo rendeva schiavo di essa.
Non sarebbe potuta andare peggio.
Di notte incespicava verso futili distrazioni, sperando di incappare in una soluzione e sentendosi ridicolo.
Chiedeva una casualità che lo salvasse da se stesso.
A volte, pregava per una fatalità, e per la scarica di emozioni che ne sarebbe conseguita.
Dopo tre notti insonni cominciò il vero declino.
Lui era ad ogni angolo.
A volte morto.
Sempre sgradevole.
Il suo sangue macchiava i suoi polpastrelli come inchiostro indelebile, costringendolo a lavarsi le mani spasmodicamente.
Lo fissava con i suoi occhi azzurri, così simili a quelli vitrei di un giocattolo.
A volte gli sorrideva complice, facendo colare ulteriormente il sangue che gli adornava il volto.
 Altre volte vedeva la delusione.
E così, John, alla fine non sei stato capace di credere in me…
Il biondo soffocava un singhiozzo e continuava a camminare.
È colpa tua.
Si stringeva nel cappotto cercando calore.
Ogni volta non riusciva a percepire alcuna sensazione.
Mi hai lasciato solo, quando avevo bisogno di te...
Accelerava il passo, cercando di scappare dal suo passato.
Il fantasma dei suoi rimpianti lo inseguiva, insinuandosi negli angoli più remoti della sua mente.
                                                                     ***
In casa si raggomitolava su se stesso, coprendosi il volto con le mani.
Sapeva che, se avesse guardato, avrebbe dovuto fronteggiare la carcassa in putrefazione della sua esistenza.
Fu durante la quinta notte che decise di agire.
 
Stilò una lista.
Tre miseri gesti che lo separavano dall’oblio.
Alcuni ovvi, altri molto personali.
Si sorprese della freddezza e razionalità con cui assimilava quei concetti, ma in realtà, cosa aveva da perdere?
Nulla. Pensava. Lui si è già portato via tutto.
Agiva metodico, senza esitare mai, senza temere.
Scrisse un biglietto. Talmente banale e anonimo da essere indecente.
Non fece riferimenti a persone o altro.
Aveva esaurito i dolori di un’esistenza in quattro righe?
Ovviamente no, ma non importava.
Le persone lo avrebbero giudicato comunque.
Quella testimonianza serviva soltanto a placare i loro animi affamati e corrotti dal pettegolezzo.
Era impossibile pensare di poter aprire il proprio cuore a qualcuno in vita, da morto sarebbe stato soltanto penoso.
Il passo successivo fu talmente spontaneo da portarlo a chiedersi se, in realtà, non fosse premeditato da tanto tempo.
                                                            ***
Era strano osservare il proprio ultimo giorno sulla terra.
Tutto si muoveva frenetico per Pimlico Road, preannunciando l’inizio di una nuova giornata.
John sfuggiva a quell’inutilità fissando un punto davanti a se.
Camminando con decisione verso quello che aveva scelto consapevolmente.
 Varcò la soglia del cimitero con tranquillità.
Non fu necessario, nonostante fossero passati due anni, ricordare dove fosse la tomba di marmo nero.
Spiccava tra le tombe bianche, simbolo di forzata purezza per individui che non la meritavano.
Si incamminò verso di essa e, subito, percepì un leggero tremore farsi strada nel suo corpo.
Lo represse, dando la colpa alla mancanza di sonno.
Non doveva cedere.
Se lo avesse fatto, le allucinazioni sarebbero tornate.
Giunse di fronte all’ultima testimonianza di colui che gli era più caro.
Percorse con lo sguardo le lettere dorate, immaginando il suo nome, impresso lì al posto di quello di Sherlock.
No, John. Non ha senso, ti prego.
L’uomo fece un balzo all’indietro.
Quella voce…
No, no. Non poteva ascoltarlo. No.
Aveva l’istinto di fuggire, senza guardarsi indietro.
Però rimase lì.
In attesa.
Aspettò finché il riflesso sulla lapide non gli sembrò completamente distorto.
Le rughe, aggiuntesi al suo volto in quegli anni, divennero i sentieri del suo dolore, le occhiaie i pozzi di disperazione, nella maschera che, ormai, indossava perennemente.
Era un drogato, impegnato nel tentativo di disintossicarsi.
Aveva bisogno di una dose.
La sua droga era Sherlock, e lui non l’avrebbe assaggiata mai più.
Fu pericolosamente semplice distaccarsi da quella lastra di marmo.
Lì c’erano soltanto i suoi resti decomposti.
Quel posto non aveva motivo di esistere.
Arrivò in strada e chiamò un taxi.
Perfino quel piccolo gesto era doloroso.
Si sedette sul sedile posteriore.
-Al St. Bartholomew. - Disse all’autista, prima di immergersi nei suoi pensieri.
Lungo il tragitto cercò di imprimere dentro di se i luoghi che vedeva.
Ognuno di essi rappresentava un ricordo, qualcosa che non avrebbe mai più rivisto.
Una parte, dentro di lui, gioiva al pensiero.
Un’altra, che lentamente si stava svegliando, comprendeva la gravità della sua azione.
Per una volta, una singola volta nella vita, le strade di Londra non erano trafficate e giunse a destinazione.
Era orribile pensarci.
Stava uscendo dal taxi, osservando l’imponente edificio bianco che si stagliava davanti a se.
Proprio come l’ultima volta.
Si ritrovò ad osservare il tetto, sperando quasi di vederlo lì, di poter cambiare il corso degli eventi.
Non era così, e non lo sarebbe mai stato.
Fu semplice trovare la scala antincendio che conduceva al tetto.
Salì i gradini meccanicamente.
E poi fu sopra.
                                                                 ***
Raggiunse il cornicione, e lì vacillò.
Il cielo plumbeo conferiva alla città un aspetto ulteriormente claustrofobico.
Anche lui si era sentito così prima di saltare? Così inutile?
Guardò giù.
Avrebbe voluto che qualcuno fosse lì. Per lui.
-John. –
Questa volta lo vide.
Era dietro di lui.
Perfettamente vivo. Identico al momento in cui era saltato.
-Non hai nessuna ragione per fare una cosa del genere. Puoi vivere una vita lunga e normale. –
Il medico aveva sempre notato il lieve accenno di disapprovazione che Sherlock poneva sulla parola
 “Normale”, e questa volta non aveva fatto eccezione.
-Non voglio questo. – Sussurrò. Più a se stesso, che alla proiezione dell’altro.
-Non mi incontrerai dall’altra parte. Non c’è niente dopo la morte. –
-Non mi importa. - rispose il biondo fissandolo negli occhi.
-Ho pensato che fosse colpa mia, per anni, ma la verità e che non lo era. –
Stava urlando, lo sapeva, ma non riusciva a contenersi.
Il suo muro e la sua maschera di decisione stavano crollando, lasciandolo inerme di fronte alla verità.
-La colpa è tua, Sherlock, per essere la cosa più interessante che mi sia capitata. -
Sentiva le lacrime rigargli il viso.
-Ero morto, in Afghanistan, ma tu mi hai riportato in vita. Chi ti ha dato il diritto di uccidermi di nuovo? –
La sua voce trasudava disperazione.
L’allucinazione era così reale.
Allungò la mano per toccarlo.
Lui scomparve.
C’era soltanto lui a cadere.
Era un precipizio diretto verso gli inferi.
-Non voglio lasciarti un biglietto Sherlock. Questo è quello che fanno i suicidi, loro mollano. –
Prese un bel respiro.
-Io no. Sto venendo da te. –
Fece un passo avanti.
-È ora che sia io a fare un miracolo, per te, Sherlock. -
E Cadde.
                                                                    
 
 
                                                                                              ***
-Sherlock. Devi tornare immediatamente a Londra. –
-Perché? – Chiese il moro.
-John si è buttato. -











Angolo Autrice
Hola :3 era un po' che volevo scrivere questa "cosa" e...finalmente l'ho fatto, ergo, spero che vi sia piaciuta u.u
Ci tengo a dire che c'è una parte che ha decisamente preso ispirazione da una role quindi...beh è una bella cosa XD
                                                                                                                                                              Role.
  
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