Buonsalve
popolo di EFP! E, in particolare Sherlockians! Eccomi qui, dopo
il mio esordio con fanfiction
‘Redbeard - L'Unico Amico di Sherlock (Forse)’,
sono
tornata per cimentarmi in una Angst! Concepita una
sera di
particolare disperazione, due giorni prima del mio orale di
Maturità, sarà una
Johnlock molto Canon, ovvero di puro amore platonico, senza nulla di
esplicito,
solo tanti sentimenti portati allo scoperto!
Dedico
questa Fanfiction alle cinque persone che hanno recensito la mia
scorsa OS in questo fandom, dandomi la forza e la gioia di pubblicare
ancora!
Quindi un grandissimo grazie a AkaNagashima,
Khamsin, sofaa,
_wallflower13 e Layla Cullen.
˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜˜
Trama:
Nel 2012 Sherlock si butta dal tetto del St. Barts Hospital, davanti
agli
occhi di John.
Nel 2022 John ha una moglie, Mary, e due figli. Sherlock non
è tornato da lui
dopo il salto e John è impazzito di dolore, rimuovendo dalla
memoria ogni
ricordo riguardo Sherlock.
Si rincontreranno durante un’uggiosa giornata primaverile,
per darsi l’ultimo
saluto.
A.A.A: Per
poter leggere questa fanfiction, si deve avere una buona conoscenza
della serie in quanto, volutamente, ci saranno alcune scene e dialoghi
identici
a pezzi di qualche episodio, in modo tale da creare parallelismi tra
fanfiction
e serie.
RICORDI
SOPITI
I
die
each
time
you look away.
My heart,
my life,
will never be the same,
This love,
will take
my everything,
One breath,
one touch,
will be the end of me.
[Trading Yesterday – Love
Song Requiem]
Mycroft
guardava Sherlock con aria grave.
Il peso degli ultimi dieci anni era ben visibile sul corpo del
fratello:
qualche capello grigio tra le folte ciocche nere, minuscole rughe
intorno agli
occhi chiarissimi, sguardo stanco.
“Non
capisco.” Ripeté Sherlock, inquieto, tamburellando
con le dita il
tavolo che li divideva, seduto su una sontuosa poltrona.
“Invece
hai capito benissimo.” Rispose Mycroft, cercando di
racimolare tutta la poca
pazienza che aveva in corpo. “Non fingere di essere
più stupido di quello che
sei.”
“Non
sono stupido.” Rispose Sherlock, di scatto, in un vecchio
vizio negli anni mai
dimenticato.
Mycroft
si sistemò meglio nella poltrona e sorrise sotto i baffi.
Sapeva di averlo in
pugno.
“La
tua
presenza non è più richiesta a Londra.”
Gli spiegò, per la terza volta, posando
i gomiti sul tavolo e osservando il fratello con aria di sufficienza.
“Moriarty
si è spostato, Sherlock, ed è tuo dovere
seguirlo. L’ultima volta che non hai
accettato di ‘giocare’ con lui, ha piazzato una
bomba a Buckingham Palace, che
abbiamo disinnescato per miracolo.”
“Non
ho
alcuna intenzione di andarmene.” Soffiò Sherlock,
tra i denti, guardando
Mycroft invelenito. “Sono dieci anni che corro dietro a quel
pazzo. Avevo
smontato la sua rete, ero finalmente pronto a tornare a Londra, da
John, ed
ecco che Moriarty spunta di nuovo, vivo e vegeto, e fa saltare tutti i
miei
piani.”
“Sherlock,
lo so che è frustrante, ma…”
provò a interromperlo Mycroft, ma Sherlock era
furioso e gli parlò sopra, sbattendo violentemente le mani
sul tavolo “Tu non
sai nulla! Tu non sai come sia, ogni giorno, per dieci anni, osservare
John da
lontano, John che soffre, John che trova una moglie, che ha dei figli.
John che
va ogni giorno a trovare una tomba vuota. Per dieci anni. DIECI,
Mycroft! E io
ero pronto a tornare ben otto anni fa, e invece sono qui! Sono stufo di
dover
sempre stare dietro a quel pazzo!”
“Sherlock,
calmati. Mi dispiace, ma troppe vite sono in ballo, e sono in
mano vostra.
Io non posso fare nul-”
“Tu
sei
lo stramaledetto Governo Britannico!” lo interruppe Sherlock,
fuori di sé. “Già
è abbastanza dura dover guardare John da lontano! Ora vuoi
pure spedirmi
dall’altra parte del mondo per seguire uno squilibrato! Fai
qualcosa, Mycroft,
ti prego. Non ho alcuna intenzione di andarmene!”
Mycroft
lo guardò, come forse mai aveva fatto. Il dolore era ben
visibile sul volto
provato del fratello. Mycroft aveva saputo sin dal primo istante che
John
Watson avrebbe potuto tirare fuori o il lato migliore o quello peggiore
di
Sherlock.
Ora
non
sapeva, però, come classificarli.
John
Watson aveva reso Sherlock Holmes più umano, aveva fatto
riaffiorare vecchi
sentimenti che ormai sembravano perduti, ma lo aveva anche reso
così
vulnerabile.
Mycroft
era a conoscenza dell’amore platonico che c’era tra
i due, aveva visto sul
volto di Sherlock la gelosia quando John parlava con qualcuno che non
fosse
lui.
Aveva
assistito allo sgretolamento graduale del fratello, costretto a vedere
l’unica
persona che veramente contava per lui piangere su una tomba vuota per
mesi,
prima di impazzire del tutto, prima di dimenticarsi di lui.
“Sherlock.”
Disse Mycroft, col cuore piangente nel dover dire una cosa del genere
per
spronare il fratello. “Sherlock, devi andare. Moriarty
conosce i tuoi punti
deboli, lo sai che è stato alleato con Magnussen. Conosce
ogni tuo punto
debole, ed entrambi sappiamo cosa potrebbe fare, se tu ti rifiutassi di
seguirlo in Australia…”
Mycroft
non ebbe bisogno di terminare la frase. Aveva visto la comprensione
balenare
negli occhi chiarissimi del fratello. Compressione mista al dolore,
alla
perdita, al cuore spezzato. Quasi, alla morte.
“…
potrebbe fare del male a
John.” Sussurrò Sherlock,
fissando un punto
imprecisato del pavimento, incapace di guardare Mycroft, consapevole
del fatto
che i suoi occhi si erano pietosamente inumiditi.
“Esatto,
Sherlock, per questo devi partire.” Fece pressione Mycroft,
sentendosi un
verme.
Alla
fine non erano stati né Moriarty né Magnussen a
ferire Sherlock nel suo più
grande punto debole, ma proprio lui, suo fratello.
“Per
quanto tempo?” scattò Sherlock, sempre
rifiutandosi di guardare Mycroft.
L’Australia
era dall’altra parte del mondo, quindi Sherlock si stava
preparando a ricevere
una risposta del tipo ‘un paio d’anni’
‘non più di tre anni’ e già
gli
sembravano un’eternità.
Ma
non
era pronto a sentire quelle parole.
E
Mycroft non era pronto a pronunciale. Stava per dare il colpo di grazia
ad un
cuore già picchiato a sangue.
“Moriarty
ha lasciato intendere che quella sarà la sua ultima
destinazione.” Fu tutto
quello che disse, posando i gomiti sul tavolo e prendendosi il volto
tra le
mani.
Per
Sherlock fu come una doccia gelata.
Spalancò
gli occhi, trattenne il respiro e lo stomaco si bloccò in
una spiacevole morsa.
Strinse
i pugni attorno ai braccioli della poltrona, le nocche diventarono
bianche.
Rimase
così per qualche secondo, poi si afflosciò:
espirò, chiuse gli occhi e si
abbandonò completamente allo schienale della poltrona.
Sapeva
cosa voleva dire.
Non
sarebbe più tornato in Inghilterra.
**
John
Watson si stava preparando per andare al cimitero.
Erano
dieci anni che, ogni giorno, andava a trovare una tomba nera, senza
fotografia,
le cui lettere dorate recitavano ‘Sherlock Holmes’,
e non sapeva perché.
Ma
tante cose, nella sua vita, erano senza un perché.
Perché
andava a visitare quella tomba?
Perché
la sua analista aveva parlato di nevrosi e
di rifiuto
dell’elaborazione del lutto?
Sua
moglie, Mary, aveva detto che lui non aveva mai superato la prima fase
dell’elaborazione del lutto, la fase
della negazione. Che la sua mente,
per pura difesa, aveva semplicemente rimosso i ricordi di questo
Sherlock
Holmes che, a quanto pare, era stato il suo migliore amico.
John
Watson era stato due anni in guerra e ne era uscito solo con degli
incubi e un
disturbo psicosomatico alla gamba.
Si era ritenuto abbastanza fortunato: molti, dopo aver vissuto quegli
orrori,
erano impazziti.
Certo, non poteva sapere che quella era solo la punta
dell’iceberg.
La
sua
mente si era semplicemente rifiutata di elaborare un lutto
così grande. O il
cuore, o la mente, aveva detto il suo corpo, e questi aveva scelto la
mente.
Perché
i suoi figli si chiamavo Shirley e William?[William
è il primo nome di
Sherlock, ep. 3x03]
Entrambi
erano dei bellissimi nomi, certo, ma non avevano mai significato nulla
per
John, eppure li aveva scelti lui.
Perché
adorava ascoltare il violino? Aveva sempre preferito il pianoforte. O
almeno,
lo credeva.
John
aveva un buco nella sua vita. Un buco di quasi tre anni, risalente a
dieci anni
prima.
Ricordava
un tetto, un salto, un grido… e poi più nulla.
“Amore,
io esco!” gridò, infilandosi il cappotto.
Prese i crisantemi[I
tipici fiori dei morti] dal tavolo e
uscì.
L’aria
era bianca, densa di nebbia, quasi opprimente.
L’umidità grondante si infilava
nei polmoni e li opprimeva, mozzandogli quasi il respiro.
John
si
strinse nel cappotto, annodandosi al collo una sciarpa blu di cashmere
che
possedeva da una decina d’anni e che non aveva ricordo di
aver mai acquistato.
Il
vento gorgogliava a sprazzi, alternandosi da brezza a quasi tempesta, e
in
strada non c’era nessuno.
Arrivato
al cimitero, spinse il cancello, che cigolò tetramente,
mentre, lento, si
spalancava, e la solita sensazione di essere osservato
investì John, ma ormai
aveva imparato a non farci caso.
La
tomba di Sherlock Holmes era in mezzo a un prato, isolata da tutte le
altre.
John si piegò sulle ginocchia e restò a fissare i
caratteri dorati, cercando di
ricordare.
Sherlock
Holmes era il suo migliore amico? John difficilmente ci credeva, lui
non aveva
mai avuto molti amici, complici la timidezza e l’amore per il
pericolo. Era
sempre stato un uomo molto solo.
Anche
adesso, non frequentava nessuno al di fuori di sua moglie e di Mike
Stamford.
Ma
allora perché andava a visitare ogni giorno quella
tomba? Dentro di
sé sentiva questo bisogno, questo desiderio che non lo
faceva dormire la notte,
se non riusciva quotidianamente a realizzarlo, di quelli che ti fanno
restare
in apnea e che ti permettono di respirare veramente solo al momento
della
realizzazione.
E
John
iniziava a respirare all’entrata del cimitero, e i suoi
polmoni tornavano a
funzionare regolarmente quando leggeva quelle lettere che spiccavano
sullo
sfondo nero.
Allo
stesso tempo, però, a questa sensazione di benessere si
mescolava il vuoto, la
perdita. La tristezza si impadroniva di lui e non lo abbandonava mai.
“Ciao,
Sherlock.” Disse, con un sorriso, toccando la lapide.
“Eccomi di nuovo qui,
ancora senza sapere perché. Mi fa sentire bene vederti, sai?
Mary non è
d’accordo che venga così spesso, lo sai, e ieri
abbiamo discusso ancora. Ma io
non posso farci niente. Non riesco a dormire se manco a questo nostro
‘appuntamento’. Dio, mi sembra così
strano essere qui, a parare di appuntamenti
alla tomba di una persona che non conosco. O meglio, che conoscevo. La
mia
mente non collabora, ma la scorsa notte ho sognato di nuovo quel salto.
Sempre
lo stesso sogno, vedo un uomo che salta da un tetto. Io gli tocco il
polso, ma
quello è assente, e c’è così
tanto sangue. Oddio, le mie notti ormai pullulano
di incubi di guerra o di quest’uomo che salta.
Però quando vengo qui… mi sento
meglio, ecco.”
John
si
alzò, reggendosi alla lapide poiché la sua gamba
collaborava poco, e sistemò i
fiori che aveva portato al posto di quelli vecchi. Poi estrasse un
panno da una
delle tasche.
“Stamattina
Shirley e William hanno avuto un bisticcio.”
Raccontò, mentre lucidava le
lettere dorate “Stavano entrambi disegnando. Quando
è arrivato il momento di
colorare il cielo, hanno discusso su chi dovesse usare
l’azzurro. Ne avevano
uno solo e tutti e due volevano usarlo nello stesso momento. Mary, alla
fine,
stava per spezzare in due la matita per temperarla e farne una per
ciascuno,
quando William ha rinunciato e ha preso il grigio. Ha disegnato dei
nuvoloni
pieni di pioggia e i lampi e i fulmini. Al centro del foglio
c’era la tua
tomba, sai? Mary non era tanto felice, quando le dissi che avevo
portato i
bambini a farti visita, e non fu contenta nel vedere il disegno. Will,
però, mi
ha sorriso e ha detto che era un regalo per te.”
John
aprì il cappotto e prese un foglio plastificato da una tasca
interna.
Il
cielo era nero e grigio, la pioggia copiosa, le nuvole arrabbiate, ma
la lapide
che vi era in mezzo era fresca e pulita, come se non subisse gli
effetti delle
intemperie.
John
lo
posò delicatamente accanto alla lapide.
“È
un
bambino molto timido e silenzioso, ma dalla spiccata intelligenza. Ha
detto che
gli piace il nome Sherlock, e ora va in giro a dire a tutti che
è il suo
secondo nome. Shirley è più allegra e
spensierata, sebbene sia più grande, e ha
disegnato il mare e il sole splendente. In questo
somiglia molto a
Mary, mentre temo che Will sia più come me. A lei non
è piaciuto venire al
cimitero, lo trova triste.”
John
sorrise.
“Vorrei
davvero che tu non fossi morto. Ho tante domande senza risposta, e
qualcosa mi
dice che tu risolveresti ogni mio dubbio. Scommetto che saremmo andati
d’accordo. Anzi, secondo Mary, io e te andavamo molto
d’accordo, solo che non
riesco a ricordare.
La mia analista sostiene che ho rimosso i ricordi di te per difesa
della mente,
che era già stata provata dalla guerra e che, alla tua
morte, ha ricevuto il
colpo di grazia. Io però vorrei ricordare.”
John
finì di lucidare le lettere e mise il panno in tasca.
La
nebbia si era infittita, impedendo la visibilità a due metri
di distanza.
Avrebbe fatto meglio a tornare a casa il prima possibile.
“Beh,
ciao allora. Ci vediamo domani.” Salutò. Diede una
pacca amichevole alla lapide
e si voltò.
Quasi
ebbe un infarto.
Tra
gli
alberi, avvolto nella nebbia, c’era una figura alta e scura,
che lo fissava
direttamente.
A
John
venne in mente una storia che suo figlio, di cinque anni appena, gli
aveva
raccontato. Parlava di un uomo che ti si avvicina nella notte e ti
porta via.
Non ha volto, ma molteplici braccia. Si chiamava Slenderman.
Terminato
lo spavento iniziale, e quando la sua mente convenne che
l’idea dello
Slenderman era davvero stupida, John, quasi inconsciamente, mosse
qualche passo
verso l’uomo, che rimase immobile.
“Signore?
Serve aiuto? Con questa nebbia non si vede nulla.” Disse
John, mentre avanzava
e la figura misteriosa acquisiva una forma più definita e
sempre più
particolari.
L’uomo
non rispose, si limitò a fissarlo e ad attendere che John lo
raggiungesse.
La
nebbia si era infittita ulteriormente e John, per poter vedere in viso
l’uomo,
dovette avvicinarsi molto. I loro corpi quasi si toccavano.
L’uomo
era molto più alto di lui, osservò, ed
estremamente magro. I capelli corti e
ricci, nerissimi, ma con qualche venatura grigia. Non doveva essere
molto più
giovane di lui.
Qualcosa
accadde nel cuore e nello stomaco di John quando si soffermò
su due dettagli di
quel volto sconosciuto.
Gli
occhi e gli zigomi. Così particolari, impossibili da
dimenticare e che John era
sicuro di avere già visto. Era sicuro d conoscerli, di
averli guardati mille
volte, di averli amati.
E
ora
quella sensazione di familiarità si alimentava ogni secondo,
mentre fissava
quegli occhi così chiari, verdissimi e azzurrissimi,
eterocromatici. E quegli
zigomi… John pensò che si sarebbe potuto tagliare
a prendere a schiaffi quel
volto così affilato[Cit. Irene Alder, ep. 2x01].
Lo
trovata in qualche modo… attraente.
“Emh…”
disse John, incerto, vedendo che lo sconosciuto si limitava a stare li
fermo,
senza pronunciare una sola parola, troppo impegnato a guardarlo in un
modo che
fece sentire John quasi nudo.
Inspiegabilmente,
John collegò a quello sguardo così carico la
sensazione di essere osservato che
lo aveva accompagnato per tutti quegli anni.
“Mi
scusi, ha bisogno? Si è forse perso?” chiese John,
sentendosi incredibilmente
stupido.
L’uomo
non rispose. Lo fissò e basta.
John,
imbarazzato, guardò un punto imprecisato della gola
dell’uomo e vide che
indossava una sciarpa blu di cashmere identica alla sua.
“Beh,
scusi se l’ho disturbata.” Disse, vergognandosi un
po’. “Io… io credo che
andrò. Buon Pomeriggio.”
John
si
voltò e fece per andarsene.
“John.”
Bastò
quell’unica parola a far arrestare la camminata e il cuore di
John.
John
si
immobilizzò e si voltò quasi a rallentatore,
mentre il calore di quella voce
così bassa e baritonale lo avvolgeva.
‘Casa’
fu il primo aggettivo che gli passò per la mente, mentre il
suono dell’eco del
suo nome ancora gli risuonava nelle orecchie. Era possibile che una
sola
parola, il suo semplice nome, così comune e banale, potesse
provocargli tutte
quelle emozioni di cui non era padrone?
“John.”
Ripeté ancora lo sconosciuto, con più enfasi di
prima, come se solo dire il suo
nome lo rendesse felice.
John
tornò sui suoi passi e si fermò di fronte
all’uomo “Lei… lei come conosce il
mio nome?” gli chiese, cercando di collegare il cervello per
farne uscire
qualcosa di sensato.
“So
molte cose di te, John Watson.” Disse quello, con
l’accenno di un sorriso sul
volto. “So che sei stato in guerra in
Afghanistan, che hai avuto un
disturbo psicosomatico alla gamba, che ti piace il pericolo, che sei un
dottore. Otto anni fa conoscesti una donna di nome Mary e ora hai due
figli con
lei, Shirley, di sei anni, e William, di cinque. So che il tuo disturbo
alla
gamba è peggiorato, ultimamente. E so anche che hai avuto un
brutto lutto circa
dieci anni fa, e che non lo hai mai superato del tutto. Vieni tutti i
giorni
qui al cimitero, a visitare sempre la stessa tomba, senza sapere il
perché.”
“…Straordinario.”
Disse John, strabiliato “Decisamente straordinario!”
Sherlock
sorrise, nell’amaro ricordo di una conversazione lontana,
avvenuta circa
tredici anni prima, ma impressa nella sua mente come sulla pietra.
Una
delle loro prime conversazioni.
“Non
è
quello che la gente dice di solito.” Rispose, come da
copione. E, come da
copione, John domandò “E cosa mai dice di solito
la gente?”
Sherlock
guardò John negli occhi. Occhi scuri, ma non neri. Blu. Lo
stesso suo colore,
solo infinitamente più marcato.
“Vaffanculo.”
Rispose, ed entrambi risero.
E
fu in
quel momento che John ebbe un flashback, che riguardava un taxi, ma era
così
vago e pallido che non gli diede peso.
“Allora,
a parte gli scherzi, chi è lei? Come fa a sapere tutte
queste cose di me?”
chiese John, sentendosi particolarmente vulnerabile.
L’uomo
non rispose. Prese, invece, a frugare nella borsa che portava a
tracolla e ne
estrasse due bicchieri della Starbucks, ancora fumanti. Ne porse uno a
John,
che lo accettò senza pensarci.
“Ti
andrebbe di fare una chiacchierata con me?” chiese
l’uomo, indicando con lo
sguardo una panchina proprio dietro a John.
John
annuì
e non seppe il perché. Aveva la sensazione di conoscere
quell’uomo, ma era
convinto che un volto del genere non si potesse dimenticare.
Si
poteva, però, sentire quel senso di calore e di
vulnerabilità, si poteva
pensare a ‘casa’, ‘famiglia’,
davanti ad un perfetto sconosciuto?
John
non lo credeva possibile e non aveva mai provato nulla di tutto
ciò con nessun
altro, Mary compresa.
I
due
uomini si sedettero vicini, ma non troppo, sulla panchina umida,
lasciando che
la nebbia li avvolgesse.
Per
parecchi minuti nessuno dei due parlò, ognuno assorto nei
propri pensieri.
John,
in particolare, si sentiva stordito. Immagini confuse di una donna
vestita di
rosa, di un enorme cane nero con gli occhi rossi, di lui stesso vestito
di
bombe accanto ad una piscina, gli stavano velocemente turbinando nel
cervello,
senza che lui potesse fermare tutto ciò.
Sherlock,
dal canto suo, aveva talmente tante cose da dire, che non sapeva come
esprimerle.
Mi
dispiace, John.
Ti
ho
osservato ogni giorno, da lontano, per ben otto anni.
Avrei
voluto dirti che ero vivo, ma Moriarty me lo ha impedito.
È
stato
atroce vedere come ogni giorno ti dimenticavi di me, ma ogni giorno
venivi alla
mia tomba.
Ancora
più brutto è stato vederti sposare quella donna.
Lei ti ama, ma non quanto me,
John. Lei era un cecchino, è una bugiarda, non ti ha mai
detto nulla.
Però
è
stato bellissimo vedere la gioia sul tuo viso quando sono nati i
bambini.
Mi
manchi, John.
Sei
un
padre amorevole. Ho sempre detto che avevi il lato romantico troppo
sviluppato.
Dio,
mi
manchi da morire.
John,
dimmi che ti ricordi di me. Io non ho dimenticato nulla. Tu sei la
persona più
importante per me.
Una
volta mi hai detto che ero l’essere umano più
umano che conoscessi. Lo devo a
te.
Mi
manchi.
E
ora
devo andarmene. Otto anni passati ad osservarti da
lontano, e ora
Moriarty mi ha privato anche di questa piccola gioia dolorosa.
Mi
manchi mi manchi mi manchi.
Passerò
il resto della mia vita lontano da te. E lo farò per
proteggerti, di nuovo.
Perché il solo fatto di essere amico mio ti rende
un’ottima esca.
Mi
sono
buttato da quel tetto per te e ora me ne andrò per te.
Solo
per te, perché è grazie a te che io non ero
più così solo, grazie a te ho
compreso il significato della parola amicizia.
Mi
manchi.
Mi
mancherai. Per sempre.
“Allora…”
disse John dopo un po’, tentando di rompere il ghiaccio.
Solitamente era lui
quello silenzioso della situazione, ma sentiva che con
quest’uomo sarebbe
toccato a lui parlare per primo “Come mai ho avuto
l’onore di questa
chiacchierata?” cercò di sdrammatizzare ma, quando
si voltò, vide due occhi
azzurrissimi fissarlo corrucciati.
“John.”
Disse l’uomo, serio “Sei
felice?”
John,
per un attimo, non seppe cosa rispondere. Quella non sembrava la solita
domanda
di cortesia, che la gente ti pone come luogo comune ma a cui nessuno
interessa
davvero la risposta.
Quell’uomo
gliel’aveva chiesto guardandolo dritto negli occhi, e John vi
aveva scorto un
senso di preoccupazione, tristezza e dolore vecchi nel tempo e mai
curati.
Doveva avere cura della risposta che stava per dare.
Ma
lui
era felice?
Certo,
conduceva una vita invidiabile: un lavoro di medico ben pagato, una
moglie che
lavorava in ambulatorio con lui, due bellissimi bambini, degli amici e
un
bicchiere di vino rosso a fine giornata.
Eppure
John non si sentiva completo, e ciò non lo rendeva veramente
felice.
Qualcosa
in lui era rimasto indietro, probabilmente se lo era portato nella
tomba quel
Sherlock Holmes che si ostinava ad andare a trovare ogni giorno, e
poteva
essere sicuro di ciò perché si sentiva completo,
seppur malinconico, solo
quando era davanti a quella spoglia lapide.
“Si.”
Rispose, infine, dopo qualche secondo di silenzio. Sarebbe stato troppo
strano
e imbarazzante parlare con questo sconosciuto della valanga di emozioni
che lo
assalivano ogni mattina e ogni volta che metteva piede al cimitero,
così optò
per la via più facile. “Si, non mi lamento. Come
lei sa, ho una bella famiglia,
un bel lavoro, una bella vita, insomma. Ho i miei alti e bassi, ma tiro
avanti.”
L’uomo
sorrise e bevve. Anche John prese un sorso dal suo bicchiere. Era tea,
osservò,
e senza zucchero.
La
cosa
lo sorprese non poco, siccome tutti solevano zuccherare il proprio tea
e lui
doveva sempre avvertire per tempo che lo beveva amaro. Sorrise,
compiaciuto, e
bevve ancora. Sentì la bevanda scaldarlo e scacciare un poco
il senso di umido
che la nebbia gli aveva lasciato addosso.
“Ne
sono felice, John, davvero.” Disse l’uomo, e lo
sembrava davvero, anche se John
notò la nota malinconica nella sua voce.
“E
lei?” chiese John “Lei è
felice?” E non lo chiese solo per dovuta cortesia,
iniziava a nutrire una sincera curiosità per questo
misterioso uomo che non
rispondeva alle sue domande, che lo invitava a chiacchierare dal nulla
su una
panchina e che gli chiedeva se era felice.
L’uomo
bevve e fece passare alcuni minuti prima di rispondere “No.
Io ho smesso di
essere felice dieci anni fa, quando persi il mio migliore
amico.”
Quelle
parole colpirono John nel profondo. Si sentiva particolarmente empatico
con
lui, sapendo di aver avuto un’esperienza simile anche lui
dieci anni prima,
sebbene non ne conservasse il ricordo.
“Scusi
l’indelicatezza ma… come è
successo?” Domandò, cercando di non essere troppo
invadente.
“Io
e
lui lavoravamo nel settore del crimine. C’era uno psicopatico
che era
ossessionato da me, era il mio acerrimo nemico. Ha detto che, se non
fossi
morto, lui avrebbe ucciso i miei amici. Non potevo essere responsabile
della
loro morte, specie di questa persona a me così speciale,
così inscenai il mio
suicidio.”
John
rimase un attimo interdetto. Era convinto che cose del genere
accadessero solo
nei film.
“La
gente normale non ha acerrimi nemici. Non esistono nella vita
vera.” Affermò,
non sapendo che altro dire.
L’uomo
lo fissò, significativo “Ah no? Mi sembra un
po’ noioso.” Rispose “Cos’hanno
le
persone nelle loro ‘vite vere’?”
“Amici!?”
Replicò John, interdetto. “Persone che conoscono,
persone che stanno
simpatiche, persone che stanno antipatiche, ragazze, ragazzi-”
“Si
beh, come stavo dicendo, noioso.” Lo interruppe lo
sconosciuto. Sembrava
agitato, ma anche in attesa di qualcosa. Quella situazione iniziava a
mettere a
disagio John, ma non riusciva a smettere di parlare, mentre un altro
ricordo
lontano minacciava di riaffiorare, prepotente come quelli di prima.
“Quindi
non ha una ragazza?” chiese, e gli sembrò anche
stupido da chiedere. Per un
uomo della sua età sarebbe stato più appropriato
dire ‘moglie’.
Dalla
faccia che fece l’altro, però, capì di
aver detto la cosa giusta. L’uomo,
difatti, sorrise, come se le sue aspettative fossero state realizzate,
e John
sentiva come se stesse vivendo una sorta di
déjà-vu, come se le parole che lui
stesso stava pronunciando fossero già state dette in un
lontano passato e lui
fosse solo una marionetta che le stava ripetendo, seguendo un copione.
“Ragazza?
No, non è esattamente il mio campo.” Rispose
quello, come se anch’egli stesse
recitando una parte precisa.
John
rimase per un attimo interdetto. Lo fissò, stupito.
“Oh, ho capito.” Disse “Ha
un ragazzo? E comunque non ci sarebbe nulla di male.”
Cercò di giustificarsi,
forse troppo velocemente, perché l’altro lo
guardò di sbieco.
“Lo
so
che non c’è niente di male.” Rispose.
“Anzi, dieci anni fa avevo un rapporto
molto speciale con questo mio amico. La gente spesso ci scambiava per
fidanzati, sia conoscenti che non. Molti parlavano di ‘amore
platonico’. Il mio
amico si premurava ogni volta di correggerli, mentre a me non faceva
alcuna
differenza. Non mi toccava il fatto che mi credessero omosessuale,
molti, anzi,
mi credevano insensibile ai sentimenti umani, come se fossi senza
cuore, e a un
cento punto me ne ero convinto anche io.”
L’uomo
fissò direttamente John, occhi negli occhi. John non si
sentiva molto lucido,
continuava ad avere vaghi ricordi di lui e un’altra persona
ad un ristorante,
con tanto di candela romantica.
“Ma
non
era così” continuò l’uomo.
“ Io volevo che la ragione prevalesse sulle
emozioni, volevo poter ragionare sempre lucidamente, potermi fidare
ciecamente
dei miei sensi, ma alla fine anche io sono un essere umano, ho dovuto
ammetterlo. Anche io provavo paura, ansia, affetto. Prima non mi
preoccupavo di
correggere chi credeva in una storia tra me e il mio amico e credevo di
farlo
perché non mi importava del giudizio degli altri. Solo
successivamente ho capito
che non era così. Non lo facevo semplicemente
perché io, per questo mio amico,
provavo tutto ciò che le persone nomali provano per tutti
gli altri. Amicizia,
simpatia, preoccupazione, affetto, anche amore. La gente normale prova
un
sentimento diverso a seconda della persona, ma io avevo solo lui. Io
provavo
tutto per lui. Avrei dato la vita per lui, ed è quello che,
almeno in senso
figurato, ho fatto.”
John
si
sentiva stordito da tutte quelle rivelazioni anche se, allo stesso
tempo, aveva
come la sensazione di sapere già tutto quello che
l’uomo gli stava raccontando.
“E
poi
cos’ha fatto? Dopo aver inscenato il suicidio,
intendo. È tornato da
questo suo amico? E lui l’ha perdonata?”
domandò curioso.
Si
rese
conto di aver fatto la domanda sbagliata quando vide il volto
dell’uomo farsi
infinitamente triste, attanagliato dal rimorso.
John
si
morse la lingua, maledicendo la sua sfacciataggine.
“Ascolti,
mi dispiace.” Tentò di rimediare “Non
è assolutamente tenuto a rispondermi.
Anzi, le chiedo scusa se-”
“Non
sono
potuto tornare.” Rispose l’uomo,
tristemente, fissando il bicchiere
che teneva fra le mani guantate. “Volevo farlo ma…
ho avuto… dei problemi… e ho
dovuto continuare a fingermi morto… per dieci, lunghissimi,
insostenibili
anni.”
John
rimase molto colpito dalla quantità di dolore che quella
frase aveva prodotto.
Sentiva quasi di poterlo toccare, come se avesse consistenza solida,
tanto era
presente. E il volto dell’uomo non era certo messo meglio:
improvvisamente più
stanco, addolorato, segnato. Si pentì di aver tirato fuori
l’argomento, ma non
riusciva a fermarsi.
Sentiva
il bisogno di sapere di più, agognava ogni singola
informazione che l’uomo
potesse dargli. Non sapeva nemmeno perché, era un bisogno e
basta. E andava
soddisfatto, ne andava della sua salute mentale.
“Quindi
il suo amico ha continuato a crederla morto?”
domandò,
addolorato. Era incredibile quanta empatia potesse
provare per
quest’uomo. Ogni secondo che passava sentiva di conoscerlo
sempre di più. Essì
che non sapeva nemmeno il suo nome.
Lo
sconosciuto annuì e John poté giurare di aver
visto un luccichio sospetto nei
suoi occhi, ma preferì non indagare.
“Dio,
chissà come deve essersi sentito il suo amico.”
Continuò, più a se stesso che
all’uomo accanto a lui. “Io ne uscirei distrutto.
Non ho mai sopportato le
separazioni. Sono stato in guerra, certo, ma quelli non erano dei veri
e propri
lutti. Cioè, li conoscevo, ma non erano veri amici. Ma se la
persona la conosco
bene… ne uscirei devastato.”
L’altro
uomo strinse forte il bicchiere tra le mani, e lo incrinò.
“Mi dispiace.”
Disse, in un tono volutamente e forzatamente neutro. “Beh,
non è che io me la
sia passata meglio. Hai idea di come sia sapere di essere vivo e
vegeto, di
vedere il tuo amico nel lutto per dieci anni e non poterlo avvicinare?
Di non
poterci parlare? Di vedere che si fa una vita senza di te, mentre tu
non esisti
senza di lui?!”
John
lo
guardò, emozionato. “E allora perché
non è tornato da lui? Magari senza dirlo a
nessuno, così, sa, non interferiva con i suoi problemi. Ma
almeno vi potevate
rivedere, il suo amico avrebbe saputo che lei è vivo, non
avrebbe più vissuto
nel lutto.”
L’uomo
lo guardò, con gli occhi che si scurivano insieme al suo
sguardo.
“Credi
che non ci abbia mai pensato?” domandò, quasi
minaccioso, e John si sentì per
metà in colpa e per metà allarmato.
“Credi che non abbia mai voluto buttare
tutto all’aria? Andare da lui, dirgli ‘Ehi, guarda,
non sono
morto.’ Tornare alla vecchia vita con lui,
tornare a essere un uomo
completo?! Credi che non sia mai stato a un passo da fare tutto
ciò?!”
Respirava
affannosamente, agitato. John si sentì male per lui, ma
ancora non riusciva a
capire.
“E
allora, semplicemente, perché non l’ha fatto? La
vedo come soffre per questa
cosa, e scommetto che ci sta male anche il suo amico. Perché
non ha fatto ciò
che mi ha appena detto? Avrebbe risparmiato un sacco di dolore a
entrambi.”
“Sarebbe
stato crudele.” Disse l’altro, in tono sconsolato.
“Per due anni non sono stato
nemmeno in Inghilterra, imprigionato e torturato nei posti
più disparati del
mondo. Poi, quando finalmente ero pronto a tornare, quando sembrava
tutto
risolto, ecco che si scoprì che in realtà nulla
lo era. Non potevo tornare, il
mio amico è una persona così schietta,
così leggibile, avrebbe fatto saltare la
mia copertura.”
“E
lei
avrebbe fatto credere al suo amico di essere morto solo per una stupida
copertura?!” chiese John, scandalizzato e anche un
po’ arrabbiato.
“Tu
non
capisci!” disse l’altro, fissando la nebbia intorno
a loro, sempre con un tono
forzatamente neutro. “C’erano delle vite in ballo.
La mia, la sua. Io non ho
paura di morire, anche se preferisco vivere, certo, ma se avessero
ucciso lui
per colpa mia, non avrei mai potuto perdonarmelo. Non lo avrei
semplicemente
sopportato.”
“Beh,
un po’ egoista da parte sua, non trova?!”
replicò John, arrabbiato. L’uomo lo
fissò, pieno di stupore. E dolore. “Non
potrò mai perdonarmelo, non lo avrei
sopportato.” Gli fece il verso. “Non crede di
pensare un po’ troppo a sé
stesso?! Non crede che anche il suo amico avesse voce in capitolo?
Scommetto
che, se glielo avesse detto, avrebbe fatto in modo di non far saltare
questa
preziosa copertura. Sono sicuro che avrebbe fatto di tutto per
non essere
così leggibile, come lo definisce lei. È
stato davvero molto egoista da
pare sua.”
L’altro
sembrava profondamente ferito. “Ma non capisci!”
ripeté, con la voce non più
neutra, ma incrinata, rotta, piena di dolore. “Se fossi
tornato da lui, non
sarei più riuscito ad andarmene, non ne avrei avuto la
forza, ma dovevo. Il mio
nemico mi seguiva, mi cercava, mi curava. E faceva lo stesso con i miei
amici.
No, non avrei potuto essere responsabile della loro
morte…”
“Vede,
ancora parla da egoista!” lo attaccò John,
chissà perché, così provato,
così
addolorato, come se sentisse sulla propria pelle il dolore che
l’altro
trasudava. “Lei è un uomo intelligente e scommetto
che non si circonda di gente
stupida. I suoi amici avrebbero fatto in modo di non lasciar trapelare
nulla,
avrebbero pensato da soli alla loro incolumità. Lei non
sarebbe stato
responsabile di nulla! Ma almeno avrebbero saputo che lei è
vivo! Così è
responsabile comunque della loro morte, lo capisce?”
Lo
sconosciuto lo guadò interrogativo, con un sopracciglio
alzato e gli occhi
lucidi.
John
sospirò. “Lei non sa nulla della natura umana,
vero?” chiese, sapendo già la
risposta.
“Natura?”
chiese l’altro, poi alzò gli occhi al cielo.
“No. Umana?” lo guardò,
significativo. “No.”
John
sospirò di nuovo, poi si sforzò di alzare lo
sguardo e di guadare l’altro negli
occhi.
“Quando
una persona cara muore” spiegò
“è la distruzione per chi gli sopravvive. Essa
si porta nella tomba una parte di loro, per sempre. Chi affronta il
lutto, lo
fa senza la sua integrità, ma a pezzi. Pezzi che, dopo un
po’, torneranno
insieme, a parte uno, quello mancante, quello appartenente alla persona
morta.
E, senza quel pezzo, si è vulnerabili, si è come
morti. Morti dentro. Più la persona
era cara e più il buco che lascia è grande, e
più l’atro si sente morire. Lei,
in questo modo, non sarà stato responsabile della morte
fisica del suo amico,
certo, ma di quella mentale si. Non è una metafora il detto
‘con te è morta una
parte di me’. Il suo amico è già morto.
È morto dieci lunghi anni fa.”
John
terminò il discorso, con gli occhi lucidi perché
non aveva parlato da persona
esterna ai fatti.
Con
quelle parole, aveva preso il suo cuore in mano e lo aveva porso a
quello
sconosciuto. Tutte quelle cose che gli aveva detto, non le aveva solo
immaginate, le provava ogni giorno, ogni ora, ogni secondo
E
la cosa frustrante era che non sapeva nemmeno il perché, e
quella era forse
l’unica sensazione che non spariva quando andava a trovare la
tomba, ma anzi,
che aumentava alla vista della lapide nera.
Anche
l’altro sembrava sconvolto dalle parole di John, si vedeva
che, addolorato,
tratteneva il respiro, come se fosse una penitenza alle sue colpe. John
lo
vedeva deglutire a vuoto, cercando di calmarsi.
“Sembra
che tu sappia cosa si prova.” Disse, dopo qualche minuto di
silenzio
imbarazzato.
“Si…
ho
avuto un’esperienza molto simile alla sua, dieci anni fa
anche io.” Rispose
John, lentamente.
L’uomo
lo fissò, in attesa, in ansia, quasi speranzoso.
“A
quanto
pare anche io ho perso il mio migliore amico. È morto, non
mi ricordo come, non
mi ricordo nemmeno chi è. La mia analista sostiene che la
mia mente, già
provata dalla guerra in Afghanistan, non abbia retto a
quest’ulteriore lutto e
che abbia rimosso i ricordi di questo mio amico, il
mio migliore
amico, a detta di molti, a scopo difensivo.”
Si
interruppe. Guardò il terreno per un po’, poi
alzò lo sguardo, e vide che
l’uomo lo fissava, in attesa.
“Così,
sono dieci anni che vado a trovare una tomba sconosciuta. Ma sono dieci
anni
che mi sento bene quando la vedo, proprio come se andassi a trovare un
vecchio
amico. Anche se la malinconia di saperlo morto è dura da
affrontare, sarebbe
molto peggio se non andassi a trovarlo. È diventato la mia
droga, a volte
l’unico motivo per tirare avanti. La mia gamba sta meglio,
quando vengo qua, il
mio cuore è più leggero, e mi
sento felice.” Disse “So che sembra
strano,
specialmente perché, effettivamente, non ricordo nulla, e
sulla lapide non c’è
nemmeno una fotografia. Deve essere stato davvero importante per me,
questo mio
amico. Quando vado a trovarlo, mi sento meno solo. Per questo mi sono
arrabbiato quando mi ha parlato del suo suicidio. Io darei qualsiasi
cosa per
poter vedere questo mio amico. Per poter capire,
ricordare…”
John
terminò il discorso e un silenzio pesante gravò
su di loro. Stavolta, fu
l’altro a romperlo. Tirò fuori il cellulare,
guardò lo schermo e si incupì.
“Beh,
John, sono felice che tu sia felice, con i tuoi alti e
bassi.” Disse “Ora,
forse, potrò essere un po’ più felice
anche io, anche se non mi perdonerò mai
per quello che ti ho fatto.”
John
lo
guardò, confuso. E ora di che stava parlando
quell’uomo così strano? Non lo
aveva mai incontrato prima d’allora, come poteva avergli
fatto qualcosa?
“Scusi,
non capisco.” Disse, sentendosi stupido.
L’uomo,
allora, si mosse. Lo afferrò per le spalle e lo
voltò di 90 gradi, in modo da
averlo perfettamente di fronte.
“John,
scusami, davvero, per tutto. Perdonami. È stato un onore
conoscerti, ma ora
devo andare. Non ci vedremo mai più. Sono felice che tu
abbia cancellato i
ricordi, almeno la tua sofferenza è limitata, e posso
prendermela tutta io.”
John
era interdetto, scandalizzato, confuso, ancora stretto nella morsa
dello
sconosciuto.
“Davvero,
io ancora non capisco.” Ripeté, spaventato, ma
anche curioso. L’adrenalina gli
scorreva sotto la pelle, viva.
“Lei
è
uno psicopatico, vero?” chiese, senza cattiveria, solo non
poteva spiegare
altrimenti il comportamento strambo di quel tipo strambo.
L’uomo
sorrise.
“Non
sono uno psicopatico.” Spiegò “Sono un
sociopatico ad alta funzionalità.”
John
spalancò gli occhi e trattenne il respiro, colpito. Quelle
parole avevano
risvegliato in lui come un campanello della memoria, ma non riusciva a
raggiungerlo.
L’altro
tolse le mani dalle sue spalle e si alzò.
“Bene,
io devo andare.” Disse, dandogli le spalle, mentre una
lussuosa auto nera si
fermava proprio di fronte a lui. “Addio, John Hamish Watson.
Dubito che ci
rivedremo ancora.” Disse, con voce rotta.
Non
si
voltò. Salì in macchina e quella
partì, senza dare il tempo a John di poter
dire o fare nulla.
E
fu
proprio mentre guardava l’auto allontanarsi nella nebbia che
i ricordi lo
colpirono, come un fulmine a ciel sereno.
Riguardavano
tutti lui e l’uomo con cui aveva appena parlato.
Loro
due su un taxi, loro due sulla scena di un crimine, un cellulare rosa,
loro due
a Buckingham Palace, con l’uomo nudo avvolto solo da un
lenzuolo, loro due a
Baskerville, loro due al St. Barts Hospital, loro
due a casa a
giocare a Cluedo, l’uomo che suona il violino alla finestra,
che gli fa trovare
teste mozzate nel frigorifero, che beve tea con dentro occhi bruciati
da una
fiamma ossidrica.
E
finalmente, dopo dieci lunghi anni, John Watson ricordava.
Dopo
dieci lunghi anni poteva dare un volto, un passato, un
perché, a quella tomba
spoglia che andava a trovare in quel modo ossessivo.
E
mentre osservava, senza possibilità di tornare indietro,
l’automobile che si
faceva solo un puntino lontano, sentì il nome del suo
migliore amico venirgli
alle labbra.
“Sherlock…”
sussurrò, addolorato, consapevole, distrutto.
Ma
l’automobile era già sparita del tutto,
inghiottita dalla nebbia vorace e
insensibile, incurante di ciò che stava accadendo. E quel
nome così sussurrato
andò a perdersi tra le foglie nascenti come un’eco
leggera, trasportato
nell’aria da una brezza effimera, ma senza mai poter
raggiungere il suo
proprietario.
Note
Finali (A Random):
Bene,
se siete arrivati a leggere fino a qui, vi voglio tanto bene
*distribuisce
caramelle*
Che posso dire? Solitamente non sono una persona da Angst, ma da
comico/fluff.
E credo fermamente negli Happy Endings, ma non stavolta.
Sarà stata colpa della
maturità? Ahah
Coooomunque, ho cercato di spiegare ogni cosa durante la fanfiction e
ho
cercato di mantenere ogni personaggio IC, spero di esserci riuscita.
Per eventuali dubbi non risolti, contattatemi pure in privato,
sarò felicissima
di rispondere ad ogni quesito!
Un bacione a tutti quanti!
Dona
l’8% del tuo tempo alla causa pro recensioni!
Farai
felici un mucchio di scrittori!!