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Autore: Sam Lackheart    13/07/2014    0 recensioni
Non so chi sia. Non so se sia una semplice trasfigurazione o un' estranea. Spero solo di farla uscire, così.
I: Non erano molte le cose a renderla felice, ma avevano il pregio di essere semplici.
II: Le sembrava di abbassare la dignità del suo pensiero cercando di scriverlo, con l' ovvia intenzione di divulgarlo in qualche modo.
III:La bellezza salverà il mondo: era una frase del suo scrittore preferito.
IV: Preferiva chiudersi nel suo bozzolo di egoismo e cattiveria, sentendo vagamente che anche quella barriera aveva punti deboli, ma quello più grande, che tutti le rinfacciavano, la solitudine, non la preoccupava.
V:Tra un’ ora, forse due, tra anni, o decenni, esploderà da sola. E la cosa più triste è che non rischierà di colpire nessuno, perché non ci sarà anima viva attorno a lei. Mai.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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Era felice? A volte se lo chiedeva, possibilmente quando un lieve sorriso increspava le sue labbra, o quando scoppiava a ridere, molto spesso da sola. In quei momenti voleva esserlo, principalmente perchè sapeva che niente glielo impediva. 
Aveva una strana teoria sulla felicità. Aveva molte teorie, grazie al tempo che dedicava a pensare, quasi sempre inconsciamente. Non si era mai posta il problema della qualità della felicità: si era trovata a sorridere per cose molto diverse tra loro, a volte opposte. Si sentiva felice quando fuori faceva freddo mentre lei era al caldo, quando iniziava un libro, e quasi mai quando lo finiva. No, a lei sembrava che il nocciolo della questione fosse la quantità della felicità, e segretamente pensava di aver ideato qualcosa di innovativo e affascinante. La felicità è un gioco a somma zero. Ogni essere umano nasce con una determinata quantità di felicità della quale può disporre a suo piacimento, secondo leggi che andavano oltre la semplice analisi, perchè rientravano in quel grande punto interrogativo che è la libertà. Dopo una determinata ma non determinabile quantità di tempo, che dipendeva dall' indole personale e dal vissuto, ci si abitua a quella quantità di felicità e se ne cerca altra. Sentendo che si trova dentro di sè, questo soggetto x cerca la felicità negli altri. Ora, se tutti gli esseri umani fossero spinti dai medesimi bisogni nel medesimo momento, o se tutti fossero perfettamente coscienti della propria felicità, si arriverebbe ad una situazione di tallo, poichè nessuno sarebbe in grado di dare. Ma le molteplici inflessioni dell' animo umano permettono che alcuni sentano il bisogno di donare, più o meno disinteressatamente, agli altri una parte della propria felicità, sperando che in cambio altro arrivi a riempire quel vuoto. Così, il nostro soggetto x riceve questa felicità. Ma dopo un altro periodo di tempo, si abitua anche a questa dose aggiuntiva di felicità, e va di nuovo a cercarla negli altri: spesso si cerca, con più o meno vergogna, di ritornare al primo donatore, ma questo raramente è disposto a donare nuova felicità, a meno che nel frattempo non si sia trovato anche lui nel bisogno, contro la sua natura, di chiedere felicità: per sgravarsi la coscienza, dunque, quasi con gioia accetta di asservirsi di nuovo allo stesso soggetto, pur sapendo che quel vuoto non è stato riempito la prima volta, nè lo sarà in seguito. 
Le sembrava un gioco spietato, ma non poteva immaginare un diverso meccanismo, forse per presunzione o per il potere di suggestione che quella teoria aveva su di lei. 
E lei, in tutto ciò, dove si trovava? Non lo sapeva con esattezza. Sentiva di aver donato la sua felicità, a volte, e di averne ricavato una certa dose di soddisfazione, ma a volte ne aveva anche presa, e poi si era sentita in colpa. Forse il fatto che nessuno sapesse bene dove collocarsi spiegava perchè quel gioco, così violento e giusto, funzionasse da sempre.
Non si sentiva un martire, nè onestamente aspirava ad esserlo: l' abnegazione richiesta non le apparteneva, e forzarsi le sembrava un' ipocrisia degna del peggior disprezzo. Eppure a volte si immaginava, osannata come un dio per le sue azioni benevole. Si immaginava buona, amata per questo, ma non lo era. Non riusciva ad esserlo, e per quanto sapesse quanto fosse sbagliato, non poteva non vedere una forma di debolezza nella bontà d' animo. Preferiva chiudersi nel suo bozzolo di egoismo e cattiveria, sentendo vagamente che anche quella barriera aveva punti deboli, ma quello più grande, che tutti le rinfacciavano, la solitudine, non la preoccupava.
Le piaceva stare sola. Non voleva esserlo sempre, altrimenti la solitudine avrebbe perso tutta la sua attrattiva. Era la classica teoria della generazione degli opposti, che l' aveva sempre affascinata: senza il male, il bene non può esistere, e tutti i binomi antitetici sono per loro natura indissolubili. Sembrava tutto giustificabile, e indispensabile, e le possibilità di lamentarsi diminuivano. Era la sua personale consolazione. 
Aveva bisogno di essere consolata così spesso? A volte ne sentiva particolarmente bisogno, ma sentiva una sottile ipocrisia perbenista a lasciare che le persone si occupassero di lei proprio quando stava male. Le sembrava di usarle e basta, di costringerle attorno a lei grazie alla compassione e alla pietà che poteva suscitare. Non riusciva a tollerare rapporti così basati. Preferiva quindi consolarsi da sola, distrarsi, e aveva quasi imparato a farlo, orgogliosa di questa piccola indipendenza dagli altri. Le piaceva lavorare su se stessa e mostrare agli altri solo la parte migliore di quello che era. La maggior parte delle volte non si accorgeva di mentire, e di essere tremendamente superficiale. 
Pensava di togliere un gran peso alle persone che la circondavano, mostrandosi sempre al meglio, cercando di minimizzare. Forse un po' martire lo era, ma si vergognava ad ammettere di pensare che sarebbe stato così importante, avrebbe fatto tanto scalpore, mostrarsi per quello che era. 
Non era mai stata brava a capire cosa le persone volessero da lei. 

  
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