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Autore: Paper Town    24/07/2014    1 recensioni
"«Buongiorno, Hel» le sussurra avvicinandosi ancora a lei, facendole il solletico con i ricci e con il naso. Lei ride e cerca di spingerlo via, senza riuscirci, perché Ashton è molto più alto e forte di lei.
«Basta Ash, ti prego» ma lui non smette, lui continua a farle solletico, continua a farla ridere. E allora Helen sfodera la sua arma segreta. Si sente un po’ crudele, ma se vuole essere lasciata in pace, deve per forza dirlo. «Ash alzati, altrimenti non faccio il caffè» dice tra le risate. E appena arriva alle sue orecchie, Ash rabbrividisce al solo pensiero di una cosa così brutta. Così si mette seduto. È a cavalcioni su di lei, non c’è nemmeno uno strato di stoffa a dividerli, ma non se ne curano. Lui le punta un dito contro.
«Sei un mostro! Tu non vuoi darmi il mio unico vero amore!»"
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5.733 words
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Stranger In a Strange Land.
Tonight
angels coming
everybody run

 (Stranger In a Strange Land – 30 Seconds To Mars)

 
 
 
L’aria era freddissima, quel novembre.
Helen sentiva il vento gelido entrarle nei vestiti, insinuarsi in essi, gelarle la pelle, come fosse una lama del coltello.
New York era sempre stata la sua “città dei sogni”. E adesso che ci era, non poteva nemmeno crederci.
Vedeva gli starbucks, la statua della libertà, i grattaceli. Era tutto così.. Americano. Quel maledetto volo durato ore era valsa la pena, era valsa la pena anche tutti i casini per farsi assumere come cameriera, tutta la fatica fatta per entrare ad Harvard. Ora, che si era sistemata, si poteva rilassare veramente, dedicarsi allo studio – soprattutto dedicarsi allo studio – e vedersi con Ashton.
Erano riusciti a portare avanti una relazione a chilometri di distanza, e adesso che anche lei era in quella stupenda città, si vedevano tutti i giorni. Lui la ospitava nel suo piccolo appartamento. Erano felici, insieme.
Quel novembre – era martedì, per la precisione, martedì 6 novembre – per l’appunto, l’aria era gelida nel paese del “yes, we can”. Helen aveva appena finito di studiare in biblioteca. Si stava dirigendo a casa, cercando di tenere i mille fogli in braccio, senza farne volare nemmeno uno, la borsa bene fissata sulla spalla e il cappotto chiuso. Per chiamarlo cappotto ci voleva molto coraggio, dato che era una felpa con del pile dentro di Ash. A lui non andava più e lei non voleva chiedere altri soldi ai genitori, visto che l’avevano mandata già in America, per di più a studiare ad Harvard.
Dove vivevano era un appartamento al quinto piano di un condominio. Appartamento. «è più un buco.» come diceva sempre Ash. Ma stavano bene nel loro buco. Aveva poche stanze, ma essenziali. Appena si apriva la porta ci si trovava in un piccolo salottino, di forma quadrata che comprendeva due divani poggiati al muro messi in modo da formare un angolo,  un televisore piuttosto vecchio e piccolo appoggiato su una cassettiera, proprio davanti ai divani. Nel salottino c’era anche un minuscolo piano cottura, una lavastoviglie ed una lavatrice che funzionavano per miracolo e un microonde che era obbligato a stare perennemente poggiato sul piano cottura perché non c’era abbastanza spazio per dargli una sistemazione fissa.
Se poi si procedeva lungo un minuscolo corridoio si vedevano altre due porte: una era la loro “camera da letto”, l’altra il bagno.
La camera da letto era minuscola. Entrava a stento il letto. Ma loro erano riusciti a far entrare il letto mettendolo addossato al muro in un angolo, un comodino che era formato da uno sgabello vecchio che rischiava di cadere solo se sfiorato e un armadio piccolissimo che impediva alla finestra di aprirsi del tutto.
«Del bagno meglio non parlarne» come diceva scherzosamente Ash parlando ai suoi amici. Era la stanza più piccola della casa. Aveva una doccia che si chiudeva con una tendina e faceva cadere acqua dappertutto, una tazza del cesso che un tempo era stata di sicuro più nuova e un lavandino che faceva uscire l’acqua a spruzzi. Lo specchio era rotto, ormai Ash e Helen non sapevano più com’erano fatti in viso.
Helen finalmente era arrivata a casa. Impresa difficile, dato tutto il freddo e il vento che c’era quel dannatissimo giorno. Aveva aperto la porta, impresa ancora più difficile, dato che aveva tutti i fogli con gli appunti in mano.
Ma quando la porta si aprì, si ritrovò davanti una scena a dir poco singolare. Il suo salotto era stato infatti ricoperto di petali di rosa e candele profumate accese. Su un cartello bianco era stato scribacchiato con la scrittura tondeggiante e dolce di Ash un “Ti aspetto, sai dove. xx”
Così Helen sorrise. Ogni tanto ad Ash venivano questi attacchi di estrema dolcezza. E a lei faceva piacere. Eccome se le faceva piacere. Posò i fogli per terra, dato che non avevano nemmeno l’ombra di un mobile decente all’entrata. Tolse la “giacca” e la buttò sul divano, gettando ai piedi di esso anche le Vans. Mentre correva verso la camera da letto lanciò il cappello in aria. Sarebbe rimasto sul pavimento del corridoio fino alla mattina dopo.
Entrò nella stanza, cercando di non far cigolare quella maledettissima porta. Miracolosamente, ci riuscì. In quella casa c’erano molti miracoli, da sempre.
Quando aprì del tutto la porta, vide un Ashton addormentato accoccolato al cuscino, tutti i ricci sparsi su di esso, un sorriso tenero sul volto. Indossava ancora i jeans neri che aveva messo la mattina, con la stessa canottiera. Helen calciò lontano i calzini neri del ragazzo, avvicinandosi ai suoi piedi nudi. Sorrise, vedendo come Ash stringeva a sé il cuscino.
Tirò i jeans verso di sé, sfilandoglieli. Non si svegliava ancora. Sorrise ancora. Era così dannatamente bello.
Sfiorò il bordo della canottiera, iniziando a sollevarla. Ma ad un certo punto Ash si mosse, afferrandola e trascinandola con se sul materasso. Lei era il suo nuovo cuscino da stritolare, ora.
«Volevi stuprarmi nel sonno?» le sussurrò lui all’orecchio, sorridendo e immergendo di nuovo il naso tra i capelli di Helen. Lei rise, accoccolandosi al suo petto.
«E tu volevi farmi una sorpresa?» gli sussurrò all’orecchio. Ash si battè una mano sulla fronte, facendo un’espressione al quanto singolare, che fece ridere Helen di gusto.
«Scusami.. mi sono addormentato mentre ti aspettavo.» prese a baciarle il collo, lasciando la pelle della ragazza in fiamme dopo il suo passaggio.
«Questo l’ho notato, Ash» la fece stendere sulla schiena, salendo a cavalcioni su di lei. Si piegò in avanti per baciarla, i ricci le solleticarono la fronte, facendola ridacchiare nella bocca del ragazzo. I piedi di Ash erano accanto al suo bacino, mentre si sorreggeva con le ginocchia e le braccia. Fece aderire i loro petti. I loro cuori battevano all’unisono. Le sfilò i jeans e la maglietta, cercando di togliere con mosse impacciate anche la sua.
Quella sera fecero l’amore, perché, d'altronde, lui aveva organizzato tutto quello per sentirla vicino a se.
 
 
Quando Ash aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu il viso di Helen rivolto verso il suo. Potrei anche abituarmi a tutto questo. Chi glielo vietava? Di certo non era intelligente quanto lei, dato che non aveva nemmeno provato a farsi prendere in un’università. Però per lui il mondo andava benissimo. Lavorava nel suo piccolo negozietto di musica. Ogni tanto suonava la batteria, altre la chitarra, altre ancora cantava. E poi c’era la parte che preferiva di più, ossia tornare a casa dopo una giornata di lavoro, stanco e avere la consapevolezza che lei – naturalmente se non era in biblioteca a studiare – era lì ad aspettarlo, buttata sul divano, il telecomando in mano, una coperta bucata sulle gambe, la cena – ossia un po’ di insalata, una panino o qualcosa che aveva comprato da qualche parte – pronta per essere mangiata. E la cosa più bella, anche di questo, era che lei aspettava lui buttata sul divano, era che lei moriva anche di fame pur di aspettarlo e cenare insieme.
Pensa a tutto questo, pensa a quanto la sua vita sia perfetta mentre le sposta delle ciocche di capelli da davanti al viso. La sua pelle è così chiara, così profumata. Le sue labbra sono così rosse, gli viene una dannata voglia di baciarle. Così lo fa, perché lì non c’è nessuno che potrebbe impedirglielo, non c’è nessuno che gli dirà: no, non farlo, stai sbagliando. Lo fa e si stacca quasi subito, per paura di svegliarla. Lui la vuole guardare ancora un po’ nella sua perfezione.
Ma poi la sveglia inizia a suonare. E anche se lui la spegne, anche se vuole rimanere un altro po’ così, solo con lei che è ignara del suo sguardo, si rende conto che si devono alzare, che devono andare lui a lavoro e lei all’università. Così inizia a lasciarle dei piccoli bacini sulle guance, tanti, uno di fila all’altro, fino a quando lei non lo spinge via ridendo.
«Buongiorno, Hel» le sussurra avvicinandosi ancora a lei, facendole il solletico con i ricci e con il naso. Lei ride e cerca di spingerlo via, senza riuscirci, perché Ashton è molto più alto e forte di lei.
«Basta Ash, ti prego» ma lui non smette, lui continua a farle solletico, continua a farla ridere. E allora Helen sfodera la sua arma segreta. Si sente un po’ crudele, ma se vuole essere lasciata in pace, deve per forza dirlo. «Ash alzati, altrimenti non faccio il caffè» dice tra le risate. E appena arriva alle sue orecchie, Ash rabbrividisce al solo pensiero di una cosa così brutta. Così si mette seduto. È a cavalcioni su di lei, non c’è nemmeno uno strato di stoffa a dividerli, ma non se ne curano. Lui le punta un dito contro.
«Sei un mostro! Tu non vuoi darmi il mio unico vero amore!» fa il drammatico Ash, cercando di rimanere serio, non riuscendoci per niente. Scoppia a ridere, accasciandosi sul petto di Helen, che ride con lui. La sua risata è troppo contagiosa per rimanere seri.
Quando si calmano, Ash la stringe forte, ha ancora la testa sul suo petto e per questo Helen arrossisce un po’, ma mette le mani tra i suoi capelli lo stesso, li accarezza, li tira un po’, solo perché sa che a lui piace e lo rilassa.
«Non mi va di andare a lavoro.» mugola lui con gli occhi chiusi. Vuole con tutto se stesso tornare a dormire. È diventata la sua attività preferita, dormire. Perché si rilassa, ha Helen vicino e non potrebbe sentirsi meglio. È protetto dal mondo intero. Quel mondo che lo conosce come “quello del negozio di musica con un’ossessione poco sana per quella povera ragazza e per la batteria”.
«Lo so, Ash» sospira lei in risposta, chiudendo gli occhi a sua volta, godendosi il calore che emana il corpo di Ash sul suo.
«E allora rimaniamo a casa, ti prego» sussurra lui. Sta per riaddormentarsi. E la sua voce ne è la prova. È impastata, le parole vengono fuori da una minuscola parte del suo cervello “già non molto grande”, come lo definisce lui, ancora sveglia.
«Mi dispiace Ash, ma io devo proprio andare oggi all’università, tra poco ho gli esami.» rimangono in silenzio per un po’, cullati dal calore della stanza. Helen si ritrova a fissare i mobili di legno, chiedendosi come mai le termiti ancora non ci abbiano fatto un nido dentro, data la sua scarsissima voglia di pulire. Lo ripete, quella casa è sempre stata piena di miracoli. «Mi dispiace sul serio, cazzo.» sussurra di nuovo lei, perché si sente davvero in colpa. Perché è da un po’ che non passano un po’ di tempo da soli insieme.
«Non fa niente, non ti preoccupare.» una pausa. «Non fa niente» questo è l’ultimo segno di vita che dà Ash. Infatti pochi secondi dopo si sente il suo respiro pesante, inizia addirittura a russare lievemente. E Helen sorride, dicendosi che forse può rimanere un altro po’ così. In fondo sono solo le 7:15. Chiude gli occhi. Si rilassa, ascolta il respiro di Ash, il leggero suono che emette quella dannatissima sveglia mezza rotta. È tutto molto “dannato” per Helen. Anche in quella città.
Purtroppo e le 7:25 arrivano presto – troppo, come sempre. E Helen allora sveglia piano Ash, sussurrando al suo orecchio che è già tardi, che è ora di alzarsi. Gli lascia un bacio sulle labbra. E Ash, finalmente, apre gli occhi. E ancora una volta si sveglia con il sorriso di Helen davanti.
«Ash» inizia lei ridacchiando «Devi alzarti» adesso è davvero sveglio. Così si solleva piano, ancora un po’ stordito. Si guarda intorno. Riconosce la sua camera minuscola e riconosce il volto sorridente di Helen. Riconosce anche il 7:27 su quella dannatissima sveglia. Per Ashton generalmente niente è “dannato”, ma la sveglia lo è di sicuro. Come i lunedì mattina, ma quel trauma è stato superato perché oggi è.. mercoledì, si mercoledì. Questo vuol dire che la settimana è a metà.
«Mi faccio prima io la doccia, tu intanto fai il caffè» esclama correndo completamente nudo verso il bagno, provocando una risata divertita di Helen che scuote la testa e si dirige in un cucina, dopo essersi infilata le mutande e essersi messa la canottiera che Ash il giorno prima aveva buttato per terra. Sorride ripensando alla sera prima, ma poi si ricorda del caffè e si risveglia da quei ricordi, pensando a crearne degli altri.
Esattamente quando il caffè sta uscendo sente due braccia che la abbracciano da dietro. Sorride, poggiando la testa sulla spalla di Ashton, spegnendo il fuoco di quel dannatissimo piano cottura troppo piccolo. La canottiera le arriva a metà coscia, centimetro in più, centimetro in meno, sta di fatto che quando si alza in punta di piedi per prendere le tazzine dal mobile – quello più alto, logicamente – si alza, fino a coprire a stento il suo sedere che Ash non può fare a meno di fissare. E poi, quella canottiera ha le maniche dannatamente larghe e le scopre il seno di lato. La voglia di Ashton di attivarsi e andare a lavoro adesso è ancora di più sotto i piedi.
Helen riesce ad afferrare le tazzine e quando torna tra le braccia di Ash lo sente strano. Si gira e gli stampa un bacio sulle labbra, per poi prendere la caffettiera e le tazzine e trascinarlo sul divano. Si siedono. Il caffè nelle tazzine piene di crepe nerastre.
Ash è assente. Non è come le altre mattine. Di solito non fa che parlare. La maggior parte delle volte si lamenta di questa o quell’altra cosa che non va bene  – principalmente è il fatto che non le può darle una casa migliore, o che sia lunedì –, ma questa mattina se ne sta zitto zitto con solo i boxer addosso, rannicchiato sul divano. Non ha nemmeno bevuto il suo caffè. Ed Helen si preoccupa. Perché il caffè è la cosa che ama di più al mondo.
«Ash?» lo deve scuotere un po’ per fargli capire che sta parlando con lui e non con un fantasma spuntato dal muro. «Ash stai bene?» gli domanda, poggiando la sua tazzina vuota per terra, avvicinandosi a quel ragazzo grande e grosso ma che sembra un bimbo in quel momento.
«Non lo so..» si passa una mano sul viso, cercando di non far cadere il caffè. Decide di poggiare la tazzina per terra per evitare casini. «Mi sento strano..» ma alla fine fa spallucce e le sorride, riprendendo la tazzina da terra e bevendo il contenuto.
Sono le 7:35 e Helen si deve ancora fare la doccia. Quindi si sbriga a dirigersi verso il bagno, costatando che Ash ha fatto un casino come sempre. L’acqua che è per terra, infatti, è di sicuro di più di quella che quel ricciolino ha usato per farsi la doccia. Così Helen sbuffa e prende il tappetino già sudicio del bagno, mettendolo – come tutte le dannatissime mattine – sopra il lago che ha fatto Ash.
Poi entra nella doccia e lotta contro l’acqua, perché, dannazione!, deve rimanere dentro il perimetro del quadrato di ceramica ai suoi piedi. Alla fine ci rinuncia – come tutte le mattine – e si lava i capelli e il corpo lasciando che l’acqua vada dove cazzo le pare.
Dieci minuti dopo è fuori dalla doccia. Naturalmente è in ritardo. Ash già si sta vestendo. Ha solo una maglietta sgualcita dei Nirvana addosso quando Helen entra nella camera da letto come una furia, gocciolando acqua per tutta casa. Ash la guarda e ridacchia, perché tutte le mattine è così: una corsa contro il tempo per asciugarsi i capelli, vestirsi ed arrivare all’università in orario.
«Vieni, te li asciugo io capelli» le dice prima di prendere il phon e la spazzola. Helen si mette l’intimo e poi è ben felice di sedersi sul letto, con la schiena rivolta verso di Ash. Lui ci sa davvero fare con i capelli. Lei non sa come, ma quando glieli asciuga lui, rimangono perfetti, mentre quando se li asciuga da sola.. beh, no.
La spazzola passa leggera tra i suoi lunghi capelli castani scuri, lisciandoli, accompagnata dal phon. E Ash quando ha finito accarezza quei lunghi capelli che è riuscito a domare – come sempre in quella casa – per miracolo.
«Fatto. Muoviti, ti do un passaggio io» e poi si alza dal letto, mettendosi i suoi skinny jeans neri strappati su un solo ginocchio, quello destro.
Helen allora corre in corridoio, dove il suo povero beanie giace ancora per terra e lo afferra, correndo di nuovo in camera. Raccatta da quell’armadio – che miracolosamente, come ha pensato prima, non ha nessun nido di cimici – uno skinny jeans blu, infilandolo saltellando per tutta la camera, fino a quando non raggiunge la sedia dove ha lasciato quella camicia nera gigantesca. Se la infila, sentendosi al caldo dentro quella stoffa pesante. Mentre si infila il beanie e prende un paio di calzini attraversa quel minuscolo corridoio, arrivando nel salotto, buttandosi sul divano e afferrando da sotto di esso le Vans nere che il giorno prima aveva abbandonato lì.
Mentre cerca di ricordarsi dove aveva lasciato la borsa e la felpa, Ashton sbuca dalla camera, con i capelli ricci messi a posto, un beanie nero in testa, un felpone nero che di sicuro lo terrà al caldo e – naturalmente – i suoi skinny jeans neri. Con un cenno del mento le indica dietro di lei, e quando Helen si gira, finalmente trova sia la borsa che la felpa.
Ash ha già aperto la porta, stanno facendo tardi, ma lui trova il tempo di giocare, come sempre. Infatti s’inchina, fingendo di essere un maggiordomo, prende la mano di Helen e bacia le nocche, sussurrando un lieve e quasi imbarazzato «Siete bellissima, oggi, signorina». Helen ridacchia, stringendo la mano di Ash e trascinandolo fuori casa, chiudendo la porta e dando due mandate alla porta. Anche se pensa chi cazzo vuoi che entri in questo buco? Ma non le importa, vuole fare finta che quella sia la loro reggia. Ed in effetti, lo è. Ash le mette un braccio sulle spalle, piegandosi per stamparle un bacio sulla guancia.
Quando quell’ascensore con le luci mal funzionanti li fa finalmente scendere, Ash estrae dalla tasca dei jeans le chiavi della macchina.
È una macchina piuttosto vecchia e scassata, dato che è di seconda mano, ma lo porta dove deve andare, e per ora, va bene così.
Tiene aperto lo sportello alla ragazza, facendola salire. Poi si mette alla guida e parte con una sgommata, senza nemmeno lasciarle il tempo di mettere la cintura di sicurezza, che di sicuro serve per andare  in macchina con lui. Quando la vede aggrapparsi con le mani al sedile Ash si fa uscire dalla bocca una risata, quella che somiglia a quella di una ragazzina, ma che fa sorridere anche Helen, nonostante la situazione. Il ragazzo poi rallenta, lasciandole il tempo di mettersi la cintura di sicurezza.
«Ti odio Ash» gli dice giocando e mettendo su un finto broncio. Non ha paura che Ash possa fraintendere, lui lo sa che non è così.
«Anche io ti amo, tesoruccio» e quel nomignolo le fa storcere le labbra, anche se poi si lascia andare ad una risata rumorosa, che riempie quella macchina, che riempie le orecchie di Ash che pensa che non ci sia suono più bello.
Al primo semaforo rosso che incontrano – il primo di una lunga serie – Ash le afferra la mano, portandola sulla sua guancia e strofinandola su di essa, facendo sorridere teneramente Helen, che poi ci lascia anche una carezza su quelle guanciotte. Quando spunta una fossetta lei ci infila il dito dentro, facendo ridere Ash e facendolo distrarre, tanto che non si accorge che il semaforo è verde. Ma a farglielo notare ci sono i simpaticissimi – soprattutto di mattina – cittadini di New York. Così riparte, alzando un braccio fuori dal finestrino in segno di scuse, ma si becca solo altri clacson che gli impongono di fare presto.
Tempo altri dieci minuti e sono arrivati davanti all’università, naturalmente all’ultimo minuto buono.
«Grazie mille Ash» si allunga  e gli stampa un bacio sulle labbra.
«Non c’è di che» le dice sulle labbra, sorridendo e stringendola a sé. Cerca di imprimersi quel momento nella mente, perché quel giorno se lo vuole ricordare tutto. È tardi, gli studenti stanno entrando nell’edificio, le lezioni stanno per iniziare, ma Helen non si muove da quella macchina, non ha intenzione di farlo per il momento.
«Che c’è Hel? Le lezioni stanno iniziando farai tard..»
«Come stai?» quella domanda lo fa zittire. Non glielo chiede mai, lei sa sempre lui come sta. Poi glielo ha chiesto guardandolo negli occhi, si è allontanata dalle sue labbra per poterlo fare. Così Ash ci pensa.
«Ho ancora quella sensazione addosso, ma credo bene» le dice poi, un po’ perché è la verità, perché lui si sente ancora quella sensazione addosso, ma non vuole farla preoccupare. Deve andare a scuola, si deve concentrare, tra un po’ ha gli esami e non può far cadere la sua media, non per colpa sua. Così poi poggia le labbra sulle sue, dandole un bacio, ma un bacio vero, dove le lingue si scontrano, dove le bocche sono socchiuse e una sopra l’altra, dove cercano di dirsi tante cose a parole troppo complicate.
«Ti amo» le sussurra.
«Ti amo» risponde. E quando se lo dicono non è tanto per, sono rare le volte che lo fanno. Così quella giornata agli occhi di Helen sembra perfetta. Entra in classe con un sorriso e inizia a prendere appunti come una pazza, ma con serenità, perché Ashton le ha detto che la ama ed ogni volta è una sensazione diversa. La prima volta è stato tre anni prima, ben quattro mesi dopo che si erano fidanzati, lei aveva appena compiuto vent’anni, era piccola, forse ancora non sapeva cos’era l’amore, ma con Ash l’amore non era più un sentimento, non era più astratto, l’amore era lui, l’amore stava diventando concreto. Ed adesso l’amore, a quasi ventiquattro anni, era Ashton, il più strano in quella città strana.
 
 
Ash arriva con dieci minuti di ritardo al lavoro, doveva per forza comprare una cosa. Era una giornata molto speciale. E gli dispiaceva un po’ di provare quella sensazione allo stomaco non del tutto piacevole. Era un po’ grandicello per lamentarsi del mal di pancia, ventisette anni non sono uno scherzo.
Quando entra nel suo negozio, la campanella del Roller Coaster – nome dato in onore dei Blink-182 – trilla, avvisando Faith, la ragazza che sta alla cassa, dell’arrivo di qualcuno. Sta cercando qualcosa sotto al bancone, quindi non vede chi è. Credendo che fosse un cliente, dice un frettoloso «Sono subito da lei, mi dia un secondo», provocando la risata di Ashton. Faith si rialza velocemente, sbattendo la testa sotto al banco e diventando tutta rossa per l’imbarazzo.
«Va tutto bene Faith?» le dice Ash tra le risate. Lei si aggiusta gli occhiali e la maglietta dei Blink, sorridendo imbarazzata. Osserva Ashton quella mattina. è ancora più bello degli altri giorni, ma poi si riprende da quei pensieri che non devono nemmeno sfiorarle la mente, perché Ashton è il suo capo, perché ha nove anni più di lei, perché è disgustosamente fidanzato da quattro anni con quella tipa decisamente più bella ed interessante di lei.
«Faith?» nemmeno si era accorta che gli aveva fatto una domanda.
E la giornata prosegue così, lei si perde tra i suoi pensieri, quando entra un cliente Ash lo accoglie con un sorriso, consigliandogli un CD, una chitarra, un basso, una pianola  – o una qualsiasi cosa che si venda in quel caspito di negozio – adatto per lui o lei.
Verso le sei del pomeriggio gli arriva un messaggio da Helen:
Ash, ho appena finito di studiare. Quando torni? Voglio passare un po’ di tempo con te. Xx
Sorride, pensando però che deve allontanarla per un po’ da casa, deve organizzare tutto alla perfezione.
Così ci pensa un po’ su, e dopo aver trovato la scusa giusta le manda un messaggio.
Perché non esci un po’? io ho ancora un po’ da fare, non voglio che mi aspetti sola a casa.
La risposta non tarda ad arrivare. Ash giura di vederci dentro un po’ di delusione e un pizzico di rabbia, anche se cerca di mascherarla.
Okay.. ma non fare tardi e avvisami quando torni.
Ash sorride: il suo piano sta andando per il verso migliore. Ma poi pensa che la sua Helen deve tornare da sola a casa, e questo proprio non gli va giù, perché New York è pericolosa di notte, perché potrebbero farle di tutto. Così si affretta a scriverle.
No, tu dimmi dove vai, ti vengo a prendere. Non puoi andare in giro di notte per questa città senza di me, è pericoloso.
Lei risponde quasi subito:
sei così dolce quando fai il protettivo. Comunque vado a Central Park.
Si ritrova a sorridere come uno scemo mentre nel negozio suona Nothing Else Matters. Chiude il telefono, facendolo scivolare nella tasca dietro dei jeans.
«Faith stasera devo tornare a casa prima, puoi chiudere tu?» lei annuisce imbarazzata e infelice, perché lui sta uscendo per andare da quella.
Ma Ash non se ne rende conto e corre verso la sua macchina parcheggiata poco distante dall’entrata del negozio, salendoci sopra e mettendo in moto, cercando di fare più in fretta perché deve fare un sacco di cose in pochissimo tempo. Si ferma al semaforo rosso, picchiettando nervosamente le mani sul volante. Perché la sfiga lo ama così tanto? Appena scatta il verde Ash preme con tutta la forza che ha sull’accelleratore, dirigendosi a casa. E quando finalmente l’ascensore lo fa scendere al suo piano, quasi sfonda la porta per la fretta. Inizia a prendere  il mocio e dà una pulita per tutta casa, aggiusta i divani, toglie le tazzine e i piatti sporchi, ed inizia ad organizzare tutta la casa per quello che le deve dire, per quello che le deve dimostrare.
 
 
Appena mezz’ora dopo è tutto al suo posto, ogni cosa sarà perfetta. Così esce di corsa da casa, dimenticandosi di sistemare in realtà una delle cose più importanti: lui. Ma non ci fa caso, si aggiusta alla bell’e meglio i capelli guardandosi allo specchietto retrovisore della macchina, mentre un semaforo è rosso e lui è l’unico ad aspettare per il verde. Ma prima che il verde possa scattare dalla direzione opposta arriva una macchina che decisamente non sta rispettando né i limiti di velocità, né il giallo del semaforo. Quello alla guida è un ubriaco. Ash nemmeno se ne accorge. Lo vede solo quando ormai è troppo tardi. Infatti la macchina si è già scontrata contro la sua, facendola girare in un vortice della morte. Ash pensa che quella sia la fine. Pensa a lei, al fatto che lo sta aspettando al freddo e al buio, pensa che forse è in pericolo e lui non lo sa. Si aggrappa forte al volante, cercando di non sballottarsi troppo. Il finestrino si è rotto, i vetri gli sono caduti addosso, graffiandolo, facendogli male. Ma non osa aprire la bocca: ha paura che qualche vetro possa entrare dentro. La macchina smette di girare, l’airbag si apre. È durato meno del previsto. Oppure a lui semplicemente è sembrato più breve di quello che è stato. Gli fa male la mano sinistra. La guarda e vede che è coperta di un liquido rosso e che è schiacciata tra la portiera della macchina e il volante. Si lascia sfuggire un gemito. L’airbag si è sgonfiato, c’è del sangue sopra. Poi guarda giù, verso il suo stomaco, e vede un pezzo di vetro che esce da esso. In quel momento urla. Urla perché ha paura. Urla perché la sua Helen lo sta aspettando. Ma non può guidare. Allora con la mano destra apre la portiera, liberando la mano sinistra. Gli fa ancora più male ora. La stringe, cercando di capire da dove venga il sangue che viene pulito dalle lacrime che scendono dal suo viso. Qualcuno si avvicina a lui, gli chiede qualcosa, ma la testa gli gira ancora troppo. Gli sembra che tutta New York sia salita su una di quelle giostre per bambini con i cavalli che girano in tondo e non smettono mai di farlo. Un conato di vomito lo spinge a sporgersi e a rimettere tutto quello che aveva mangiato. L’uomo che gli si era avvicinato gli tiene gentilmente i capelli, mentre Ash ha a stento le forze per tenersi in piedi. Quando finisce si porta la mano verso il vetro infilato nello stomaco. Lo tocca, ma non ha il coraggio di sfilarlo.
«Mi senti ragazzo?» ora lo sente. La giostra ha rallentato un po’.
«Devo portarti subito all’ospedale. Non stai bene. Sono un paramedico, e quella mano non sta messa bene e..» vede il vetro nel ventre di Ash e sussulta «Per l’amor del cielo ragazzo, Sali sulla mia macchina!» gli ordina, aiutandolo a stendersi sui sedili di dietro. Ash cerca le forze di dirglielo, cerca le forze di dirgli cosa stava andando a fare, ma non le trova subito. Poi pensa ad Helen al freddo, che lo aspetta, che muore di fame perché lui le ha detto che la sarebbe passata a prendere, che crede che lui si sia dimenticato di lei, che lui non abbia rispettato quel suo “non fare tardi” che era importante quanto una promessa e le forze gli arrivano.
«La mia ragazza. Mi sta aspettando. A Central Park. Lei..» cerca di aggiungere altro ma il vetro si fa sentire. Gli dice di stare zitto. Gli dice di stare fermo. Gli dice di non respirare. Ma Ash fa tutto il contrario: si tira a sedere, prende un bel respiro e glielo dice. Gli dice l’entrata dove lei lo aspetta e gli spiega che lui deve tornare a casa con lei il più presto possibile.
«Non dovrebbe volerci molto per quel vetro, ragazzo, ma devi fare un sacco di esami» Ash annuisce e quando si ferma, lui esce dallo sportello, aiutato dal paramendico. New York è risalita sulla giostra. Sta per vomitare ancora, ma poi la vede. Seduta sul bordo del marciapiede, al buio, una mano che le sorregge la testa, cinque buste accanto a lei, giura di sentirla tremare anche da qui, giura che sente la sua delusione. ma se solo sapesse cosa gli è successo, se solo sapesse che cosa le voleva mostrare.
«HELEN» urla. Non lo sente. Riprova, ma si ritrova a tossire piegato a metà. Il paramedico urla al posto suo dopo averlo rimesso sul sedile. Le va vicino, si presenta, spiega che cosa è successo. Lei si mette una mano sulla bocca, non riesce a crederci. Tutto quello non è capitato ad Ash, al suo Ash. Il paramedico le prende le buste, caricandosele gentilmente in macchina, mentre lei non aspetta un secondo di più a correre verso quella macchina nera. Apre lo sportello e vede Ashton con gli occhi socchiusi, un’espressione di dolore sul viso graffiato dai vetri, la mano sinistra poggiata sul petto. Quella mano che è tutta rossa. E Helen non ce la fa a trattenere le lacrime. Perché lui è ridotto così per andare a prendere lei. Perché se lui non si fosse sbrigato così tanto solo per non farla tornare a piedi, adesso starebbero a casa, sotto quella dannatissima coperta bucata a guardare un dannatissimo film su quella dannatissima televisione che ha sempre bisogno di un paio di pugni per funzionare. Ed Helen gli solleva dolcemente la testa, sedendosi e poggiandola sopra le sue gambe. Lo sportello viene chiuso e la macchina parte per arrivare all’ospedale. Lei gli accarezza i ricci e piange ancora: ha visto il vetro. Ash allunga la mano sana verso il viso di Helen e le asciuga le lacrime, sorridendole leggermente con gli occhi ancora socchiusi per la stanchezza.
«Scusami.. ho fatto tardi» e lei sorride e fa una risata forzata, perché poteva andare molto peggio. Poggia per un secondo le sue labbra su quelle di Ash, ma poi si stacca, perché ha paura che il respiro possa abbandonare il corpo di Ash che ora sembra così piccolo e fragile.
 
 
Due ore dopo Ash aveva finito sia la piccola operazione per togliere il vetro, sia tutti gli esami. Si era dovuto ingessare la mano sinistra. Ma va bene così. Può tornar a casa, anche se con qualche punto in faccia  e sullo stomaco. Helen lo aiuta a salire nella macchina del paramedico, sui sedili posteriori. Gli aveva dato il permesso di stare tutti e due lì. La testa di Ash è poggiata dolcemente sulla spalla di Helen, che gli tocca i ricci sussurrando a volte parole dolci.
Il paramedico accosta sotto il palazzo dei ragazzi, che lo ringraziano e scendono dalla macchina. I punti fanno un po’ male quindi Ash cerca di appoggiarsi ad Helen più che può. In poco tempo sono davanti la porta di casa. Lei sta per aprire la porta, ma Ash le toglie le chiavi di mano e le fa chiudere gli occhi. Lei lo fa, con una risatina divertita. Ash armeggia un po’ con quelle dannatissime chiavi, ma poi riusce ad aprire la porta. Getta le buste dentro, gemendo a volte, ma riuscendoci con successo. Poi si posiziona dietro Helen e la conduce all’interno dell’appartamentino con le mani sui fianchi di lei.
«Ora puoi aprire gli occhi» le sussurra all’orecchio, per poi baciarle il collo. Quando Helen apre gli occhi, vede un grande cartellone bianco appeso al muro dietro uno dei divani. C’è chiaramente sopra la grafia di Ash. Recita: sono solo un povero idiota che ama il caffè, ma mi vuoi sposare lo stesso?
La risposta naturalmente fu si. Si gira nelle braccia di Ash, cercando di non toccargli troppo la pancia e lo bacia. Lui mordicchia il suo labbro inferiore, tirandolo leggermente. Prende dalla tasca della felpa un cofanetto blu. Lo apre, mostrando una fedina di oro bianco con un diamantino sopra. Lei lo guarda, gli occhi erano lucidi, lui le prende saldamente la mano che tremola e con la mano ingessata cerca di metterle l’anello. Non ci riesce e sbuffa, ridendo ed arrossendo.
«Sono davvero imbranato..» sussurra ridendo e prendendo la mano di Helen con la mano ingessata e la fedina con la mano sana. Finalmente quell’anellino scivola sul dito della ragazza che lo guarda incantata. Quasi non ci crede.
«Oh, fanculo, ti amo Ash» e lo bacia con tutta la forza che ha in corpo. Ash fa lo stesso. E forse non solo lui era il più strano nella città strana, forse, anche lei lo era, la più strana. E da quel giorno, sarebbero stati i più stani insieme.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

writer
BUONGIORNO MONDOOOOO!
Ma da quanto tempo non rompevo le palle con un’OS? Troppo, quindi eccomi qui u.u
Vi dico solo che non doveva finire così questa OS, doveva finire con Ash che moriva e lei che rimpiangeva tutte le cose che non gli aveva detto, tutte le cose che non avevano fatto. Ma per fortuna sia per voi che leggete che per il mio povero Ash in questa storia (scusa se ti ho quasi ammazzato, ti amo) quello che mi piace mi ha scritto sia stanotte che stamattina, quindi sono decisamente di buon umore e non potevo postare un’altra storia in cui uno muore :)
Okay, diciamo pure che non ve ne frega niente.
Poi ho scoperto come si fanno banner più o meno decenti, quindi aspettatevi taaante storielle.
Poi vorrei iniziare a dire che sto scrivendo una long su Lukey, ma sto ancora in alto mare. Comunque se volete vi avviso quando la pubblico, basta che mi mandate un messaggio qui su EFP, oppure lo scrivete nella recensione :3 (sempre se vi va di lasciarne una XD)
Comunque mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate, anche critiche, consigli, tutto quello che volete, non siate timide :3
Evaporo, ho già parlato troppo,
Manu xx

 
   
 
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