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Autore: PapySanzo89    24/07/2014    3 recensioni
John Watson è sempre stato un ragazzo votato all'avventura e all'adrenalina, un ragazzo non di certo litigioso che però quando c'era bisogno di menar le mani (soprattutto in aiuto della sorella) non si tirava indietro, un ragazzo curioso del mondo e voglioso di conoscere nuovi posti, nuovi Paesi, nuove culture e di aiutare gli altri per quanto gli fosse possibile. Un ragazzo comunque non irreprensibile (le sue cazzate le aveva fatte, come ogni buon adolescente convinto di avere il mondo in pugno e di passarla liscia per il resto della vita) e che tentava di godersi il momento il più possibile, gestendosi tra studio e uscite al pub con gli amici il sabato sera.
Questo era stato John Watson in gioventù e con questa carica John Watson era diventato un uomo partendo per la guerra.
La fortuna gli aveva arriso.
NOTE: Fanfic composta da tre capitoli già scritti
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Secondo:

La scoperta

 

 

 

 

 

 

Non dorme John, proprio non ce la fa, con qualcosa di molto simile al terrore che gli impedisce di prendere sonno o anche solo di appisolarsi per un minuto. Così vede la notte passare e il giorno pian piano fare capolino, con i tenui raggi di sole che entrano dalla finestra di cui non ha chiuso le imposte per vedere qualsiasi cosa al di fuori di essa. E forse è perché di giorno i mostri non esistono, o forse perché i nervi lo hanno fatto rimanere vigile e attento per tutto il tempo, o forse è perché davvero si sente rassicurato dal fatto che gli uccellini cinguettino tranquilli come sempre, ma finalmente John chiude gli occhi e si assopisce.

 

Di incubi ne ha sempre avuti, John. Insomma, è un medico militare e ha visto gente saltare letteralmente in aria e la sua psiche – per quanto forte - non ne poteva rimanere totalmente indenne. Ma questo incubo è diverso. Non si tratta di amici che non tornano più indietro, di Paul che lo supplica di aiutarlo, di persone che muoiono, di attentati e di torture psico-fisiche; adesso si tratta di lui che sta per venire mangiato letteralmente senza sapere cosa fare o come reagire, mentre tenta di parlare con il lupo dagli occhi dorati che gli restituisce uno sguardo fermo e affamato e, alla fine, lo divora senza remore, saltandogli addosso e azzannandolo alla gola.

 

John si sveglia urlando un’imprecazione e si solleva di scatto dal letto, andando a sbattere contro l’armadio lì vicino ed imprecando nuovamente.

«Cazzo!» geme, massaggiandosi la spalla dolorante e rimanendo qualche secondo fermo appoggiato contro l’armadio a respirare piano, come gli aveva insegnato la sua psicoterapeuta. Tre secondi di inspirazione, un secondo trattenuto, tre secondi di espirazione. Niente attacchi di panico, niente iperventilazione.

Dopo aver ripreso il controllo di se stesso alza il viso da terra e lo punta alla finestra, vedendo il sole ancora alto nel cielo e capendo di aver dormito al massimo un paio d’ore. Un paio d’ore che devono essere state terribili perché è completamente sudato nonostante nella stanza faccia addirittura fresco.

Si sente stanco, si sente così dannatamente stanco. E non di certo per aver dormito così poco e così male.

Sherlock è…

Ma non lo riesce nemmeno a pronunciare, incapace di fare un pensiero simile, così incoerente con il suo tipo di visione della realtà. O perlomeno della realtà di qualsiasi persona, teoricamente.

Ricorda per un attimo la sera prima e poi si rifiuta di ricordare ulteriormente, uscendo dalla camera – prendendo con sé la pistola - e dirigendosi all’aria aperta, guardandosi per bene attorno, alla ricerca di qualcosa che possa prenderlo alla sprovvista e fargli male in qualche maniera ma ritrovandosi a fissare un bosco che gli restituisce una visione tranquilla e pacifica. Sbuffa fuori tutta l'aria che ha, a quel punto, e si siede a terra, sul pezzo di cemento fuori dalla porta di Sherlock.

Calpesta dei piccoli pezzi di vetro sotto la suola delle scarpe e si siede dopo averli spostati con la mano, cercando di non fissare alla sua sinistra dove sa già che lo attende lo spettacolo di una finestra sfondata. Per fortuna la maggior parte del vetro, con l'impatto, è finito in casa: sarebbe stato piuttosto pericoloso ritrovarsi pieni di vetro nel giardino. Era piuttosto difficile sbarazzarsene, soprattutto se i pezzi erano piccolissimi.

Il pensiero lo fa rimanere ancora un po' lontano da tutto ciò che è successo la notte prima, ma ad un certo punto, quando le spalle si rilassano e non scatta più con la testa ad ogni minimo movimento che ode dall’interno del bosco, si chiede che cosa ci faccia lì da solo, possibile e alquanto probabile bersaglio e futuro cibo per un lupo affamato, e si ritrova a rispondersi che semplicemente sta aspettando Sherlock.

 

Rimane su quello spiazzetto qualcosa come otto ore filate, a fissare la radura e vedere il sole pian piano calare. Non ha mangiato niente da quando si è svegliato, ma non sarebbe di certo la prima volta che non mangia per molte ore di fila (soprattutto dopo essere rimasto giorni e giorni a costretto digiuno), ma la posizione sta diventando insopportabile, il freddo opprimente e ogni tanto si alza almeno per sgranchirsi le gambe e, alla fine, quella finestra rotta la guarda e decide di fare qualcosa per riparare il danno e far sì che quando Sherlock tornerà non si ritroverà con un vetro sfondato.

 

Il sole è tramontato quando John finisce di stendere il nylon sugli infissi e getta tutti i vetri in un sacco di plastica, facendo ben attenzione che quest'ultimo non si rompa. A quel punto il dottore sbuffa fuori l'aria e guarda il colore del cielo cambiare, finché le stelle non compaiono e lui si ritrova in casa di Sherlock a fissare il tutto dal riflesso opalescente del nylon. E Sherlock non è ancora tornato.

Un suono lo fa voltare e vede il cellulare di Sherlock illuminarsi per l’ennesima volta. È dal tardo pomeriggio che qualcuno sta chiamando, ma lui non ha intenzione di rispondere. Per dire cosa poi? No, scusi, al momento Sherlock non c’è, se n’è scappato nei boschi cambiando sembianze. Non gli sembra il caso di immischiarsi ulteriormente, quindi lascia che il cellulare suoni ancora finché quel certo Lestrade non smetterà di chiamare.

Quando il cellulare smette di vibrare, John rilassa le spalle.

Si ritrova a sbuffare ancora, camminando avanti e indietro per il soggiorno a grandi falcate pensando a cosa fare e cosa non fare, non giungendo a nessuna conclusione e non potendo sicuramente uscire adesso - di notte - alla ricerca dell'altro, con rischi ben peggiori rispetto al giorno.

Accende il fuoco nel camino e finalmente va a mettere qualcosa sotto ai denti, cucinando quello che trova nella spesa del giorno prima senza nemmeno pensare.

Rimane davanti al caminetto acceso, ravvivando il fuoco di quando in quando, finché, verso le due del mattino, assieme al fuoco si addormenta anche lui.

 

Quando John si sveglia, imprecando per la posizione scomoda, si guarda intorno e si chiede per mezzo secondo dove diavolo si sia addormentato, salvo poi notare che quello altri non è se non il piccolo soggiorno del suo vicino di casa. Si stropiccia la faccia e sbadiglia, sgranchendosi le spalle intorpidite dalla posizione in cui ha dormito (poggiato contro la poltrona) e, alla fine, con un po' di fatica si alza, guardandosi attorno come a cercare un segno del ritorno - possibilmente in forma umana - di Sherlock. Ma niente. Tutto sembra esattamente come il giorno prima.

Prende le chiavi di casa di Sherlock (trovate miracolosamente su un mobiletto vicino l’entrata, almeno qualcosa sembrava tenere in ordine) e va al piano di sopra per farsi una doccia e una colazione abbondante. È tempo di uscire a cercarlo.

 

John, dopo un attenta analisi di possibili rischi e pericoli per la sua stessa persona, decide di prendere la macchina perché può percorrere più chilometri in meno tempo e potrebbe anche perlustrare la zona in una sottospecie di rifugio (l’interno della macchina) nel caso qualcosa di insolito decidesse di attaccarlo e non riuscisse a premere il grilletto della pistola abbastanza in fretta.

Ma John va avanti a guidare per ore e l'unico risultato che ottiene è quello di far fuori quasi tre quarti di serbatoio, spaventare la fauna locale, mandare a puttane i suoi nervi già abbastanza provati e scoprire nuove buche nascoste dalle quali sarebbe il caso di rimanere al di fuori con le ruote della macchina, Jeep o meno.

E quindi, sconfitto, non gli rimane altro da fare se non tornare indietro prendendo la strada più lunga e sperando di incrociare uno sguardo dorato - o magari azzurro cielo, sarebbe anche meglio - incrociare il suo.

Ma ciò non accade e nuovamente John si siede su quel pezzo freddo di cemento ad aspettare l'arrivo di Sherlock - fissando il bosco e le ombre allungarsi finché il sole non tramonta - che nemmeno quella notte ritorna.

 

Il giorno dopo la storia si ripete e nulla cambia. E quello dopo uguale e quello dopo uguale ancora, fin quando non passano quasi sei giorni e John inizia ad essere davvero terrorizzato riguardo alle condizioni di Sherlock e quasi tutto il resto passa in secondo piano.

 

È notte inoltrata quando John si sveglia di soprassalto seduto ai piedi della poltrona di Sherlock. Ha preso ormai l’abitudine di addormentarsi davanti al camino dell’appartamento di sotto, nella speranza di vedere l’altro comparire da un momento all’altro, e checché ne dicano i suoi muscoli, trova che sia la soluzione migliore rispetto alla propria stanza.

Volta la testa per sgranchirsi le spalle e si stropiccia gli occhi, il fuoco ormai sembra spento da un pezzo e la coperta gli è caduta completamente a terra, lasciandolo scoperto.

È ancora piuttosto rintontito quando qualcosa che gratta contro il legno della porta e sbatte ripetutamente con un suono sordo lo fa alzare e avvicinare con passa malfermo.

Si accosta alla porta, preme l’orecchio contro il legno spesso e cerca di captare qualsiasi rumore al di fuori di essa e non c’è dubbio alcuno che la cosa lì fuori sia un animale che sta cercando in qualche modo di entrare in casa.

Non sa cosa fare, John. Per la seconda volta nella sua vita in nemmeno una settimana, non sa cosa fare. Perché se fosse Sherlock - quel Sherlock che ha visto l’ultima volta - non vuole assolutamente fargli del male, potrebbe al massimo ferirlo, metterlo fuori combattimento per un po’. Ma come?

Quando sente una specie di guaito di sofferenza provenire al di fuori della porta, senza nemmeno pensare e con il cuore in gola, prende la maniglia con mano tremante, mentre con l'altra tiene la fedele pistola a portata di mano e spalanca la porta di legno, ritrovandosi davanti il lupo nero che l’ultima volta lo aveva osservato e sorpassato, guardarlo nuovamente mentre emette dei lamenti di dolore stando a malapena in piedi.

John si sposta d’istinto di lato e il lupo, dopo aver alzato il muso e averlo annusato sommessamente, zoppica all’interno, spargendo del sangue su tutto il pavimento e accasciandosi davanti il caminetto spento, emettendo un ulteriore verso lamentoso.

John all’inizio rimane fermo a guardare, incapace di pensare o fare qualcosa di razionale, ma infine vedendo tutto quel sangue si riscuote e si avvicina alla bestia che respira in maniera affannosa e rimane ferma, guaendo di tanto in tanto.

John è un dottore e, se Sherlock fosse nelle sue normali condizioni, saprebbe esattamente cosa fare. Ma Sherlock non è nelle sue normali condizioni e lui non è una sottospecie di veterinario.

Si avvicina cauto, mantenendo le mani avanti a sé per mostrare al lupo di non avere cattive intenzioni, ma non appena il lupo nota la pistola scopre i denti e ringhia, cercando di sollevare al meglio il muso. Così John si ritrova costretto ad appoggiarla al tavolo e si sente un po’ meno sicuro, ma continua ad avvicinarsi, prendendo fuori il cellulare dalla tasca dei jeans per farsi un poca di luce in quella casa illuminata al momento solo dai raggi lunari. Non vuole accendere la luce, perché teme che Sherlock – e in cuor suo prega che sia effettivamente lui quel lupo steso lì a terra, ma quel colore ambrato d’occhi sa che lo riconoscerebbe ovunque - possa avere una reazione violenta. Così, quando arriva abbastanza vicino al lupo, si china e va ad esaminare il punto da cui tutto quel sangue sembra fuoriuscire.

Una ferita è certamente alla zampa anteriore, già vedendolo entrare aveva notato la zoppia, e un miscuglio di sangue e terra si è asciugato sul pelo nero mentre l’altra ferita invece sembra essere stata inferta al fianco su cui il lupo non sta appoggiato, da cui invece il sangue sembra continuare ad uscire copiosamente. Bisognerebbe pulire e disinfettare entrambe le parti lese ma non sa bene come fare o che medicinale andrebbe usato – e se andrebbe usato - per disinfettare ferite di animale. Però c’è poco da fare, di sicuro non lo può caricare in macchina e portare in città come niente fosse, così va a prendere la cassetta del pronto soccorso che aveva portato giù sei sere prima e torna ad avvicinarsi al lupo, tirando fuori dalla cassetta garze, disinfettante e della soluzione fisiologica.

Per ora la bestia rimane tranquilla ma con gli occhi ben puntati sui movimenti di John (osservandolo avvicinarsi e chinarsi vicino a lui) e rimane fermo anche quando John imbeve la garza di soluzione fisiologica e piano gliela avvicina.

Il lupo abbassa le orecchie e scopre i denti, ringhiando sommessamente: non sa se fidarsi, allora John non muove un muscolo e rimane a guardarlo. Se la bestia non si fida di lui, immaginiamoci quanto lui possa fidarsi della bestia.

Quando il lupo smette di ringhiare gli si avvicina ulteriormente, e decide di iniziare a curare la zampa anteriore, pulendola per bene, prima di passare al fianco, per una dimostrazione di fiducia, per fargli vedere che non ha cattive intenzioni e che non farà male. Almeno questo lo spera.

Non appena gli tocca la zampa e inizia a strofinare piano, il muso del lupo si volta verso di lui e John si blocca, immobile nell’aspettare qualche reazione che sembra non arrivare; così, quando il lupo torna a distendersi, John ritorna a strofinare piano la zona, togliendo tutti i residui di sangue e terra che trova sulla zona grazie a diverse garze, facendo caso al tipo di ferita che sembra essere stata inferta. E, a quanto pare, la caccia è aperta nei boschi.

Sospira ora, John, e imbeve un’altra garza, ma questa volta di disinfettante, sapendo perfettamente di non poter lasciare una ferita del genere in condizioni così pietose.

«Questo potrebbe fare male.» sussurra, ed è la prima volta che parla da quando il lupo è entrato in casa, e la sua voce rompe un silenzio che nemmeno si era accorto essere così teso. Il lupo non smette di fissarlo, ma John non sa se riesce a capirlo, quindi non può fare altro che arrischiarsi ad avvicinarsi ulteriormente.

Quando la garza tocca la ferita, il lupo uggiola e sposta la zampa cercando di allontanare sia la garza che lo stesso John, ma così finisce col ferire anche il medico che non è riuscito a spostarsi abbastanza velocemente, artigliandogli il braccio sinistro con una zampata e facendolo sanguinare abbondantemente.

Il dottore impreca per il dolore, si alza e si allontana continuando ad imprecare, tenendosi il braccio ferito con la mano all’altezza del gomito e cercando di vedere quanto grave possa essere il taglio, mentre sente il dolore arrampicarglisi lungo tutta la colonna vertebrale in quello che dev’essere un misto di tensione rilasciata e vero dolore.

«Porca puttana!» impreca di nuovo quando vede tre grossi tagli sul braccio, e dentro di sé prega di non avere i legamenti fottuti e di non doverci mettere dei punti perché con il braccio destro non è bravo a ricucire quanto con il sinistro.

Il lupo reclama la sua attenzione con dei versi strani e John si volta a guardarlo, semi furioso.

«Sì Sherlock, ho capito che non te la passi bene, ma non me la sto passando meglio nemmeno io.» gli muore un’altra imprecazione in gola e si china sulla cassetta del pronto soccorso a prendere delle garze e fa la stessa cosa che ha fatto con Sherlock, disinfettando al parte lesa e imprecando ulteriormente quanto sente la pelle bruciare e tirare.

«Merda. Questa roba brucia fottutamente tanto.» ripulita la ferita rimane a tamponare con le garze finché, finalmente, il sangue pare fermarsi abbastanza da poter vedere i danni realmente subiti.

Ed in effetti, dovrà ricucirsi.

E John ha finito le imprecazioni.

Muove le dita, stende il braccio e si rasserena almeno del fatto di non avere ferite effettivamente gravi tranne un po’ di pelle e carne andata a farsi benedire.

Prende delle nuove garze e le ferma con una fascia elastica, stringendola il più possibile, e infine torna a passo di marcia verso il lupo che non ha smesso per un attimo di osservarlo.

«Bene. Fammi un’altra cazzata come questa e giuro che quando torni in forma umana, se sarò ancora vivo, ti prendo a calci nel culo da qui al tuo paese natale, Sherlock. Chiaro?!»

Il lupo riabbassa la testa e John gli si può avvicinare nuovamente, poggiandosi alle ginocchia per passare in rassegna il fianco del lupo che ora respira più velocemente e John non capisce il perché e non sa bene cosa fare, così decide semplicemente di fare quello che farebbe con un compagno, gli parla per tranquillizzarlo mentre con la mano destra cerca di ripulire la ferita al meglio delle sue possibilità.

«Non è grave.» dice quando finalmente riesce a vedere l’effettiva entità dei danni. «Ti hanno colpito di striscio e capisco possa fare male, ma in un paio di giorni dovresti rimetterti… credo. Sì insomma…» lascia cadere la frase e non parla più, perché non lo sa se in un paio di giorni quel tipo di ferita si possa richiudere, non su un caso talmente particolare.

Muove il braccio che va a prendere delle altre garze mentre prende mentalmente l’appunto di dover scendere in città per farne ulteriore scorta perché stanno per finire e ne serviranno certamente altre, e imbeve il tessuto di disinfettante, ma questa volta prima di poggiarlo sull’abrasione si volta verso il lupo e lo guarda bene negli occhi.

«Brucerà. Brucerà esattamente come prima e farà male. Ma cerca di stare fermo.»

Si guardano per qualche secondo, poi il lupo distoglie lo sguardo poggiandolo verso la porta che si ritrova davanti e John immagina di poter proseguire.

Non appena poggia la garza il lupo emette un lamento e si rannicchia su se stesso, facendo forza sulla ferita che torna a sanguinare un pochino e John sospira pesantemente: non è quello il modo per procedere.

Ci poggia una garza pulita sopra e preme con la mano, fermando nuovamente il sangue e poi decide di non fare altro, aspettando il giorno e la luce del sole per vedere la situazione e il comportamento del lupo dopo una notte di riposo. Si alza, dunque, e va a riaccendere il fuoco nel camino per scaldare un po’ l’ambiente e dare un po’ di calore all’animale che sembra tremare, va poi a cambiarsi la fasciatura, gettando le garze nel cestino e mettendosene di nuove, e infine torna da Sherlock, premendo nuovamente con delicatezza la mano sulla garza per assorbire il sangue.

«Sarà una notte lunga.» dice, ma sembra che il lupo si sia rilassato davanti al calore del fuoco e si sia addormentato.

 

Sherlock si sveglia alle prime luci dell’alba e sbatte le palpebre, non capendo assolutamente nulla e non ricordandosi assolutamente nulla. Gli fa tutto male, la testa gli gira e gli viene da vomitare – e probabilmente lo farà, tra poco - e in più ha freddo e capisce di averne anche dal fatto che si ritrova nudo su un pavimento di legno e quindi che la cosa potrebbe pure essere piuttosto normale. Gli fa male il braccio sinistro e anche il fianco, non ricorda il perché e questa cosa lo fa decisamente innervosire ed irritare, ma tutti i suoi pensieri spariscono alla vista di un braccio intorno alla sua vita e la sensazione di un respiro caldo dietro il collo.

Volta piano la testa scorgendo a malapena il profilo di John, e improvvisamente si blocca. Che diavolo è successo?!

Fa per alzarsi, ma come si gira e si toglie il braccio di John – il braccio di John, dannazione! - da dosso, la ferita al fianco torna a pulsare e gli sfugge un lamento abbastanza forte da far svegliare l’altro. John sobbalza dalla sorpresa e infine sbadiglia, stropicciandosi gli occhi.

«Sherlock, che c’è?» chiede sbadigliando ulteriormente, aiutandosi ad alzarsi a sedere con un braccio e tenendosi poi la testa tra la mani con gli occhi chiusi.

Sherlock lo scruta senza che l’altro possa vederlo, e nota le occhiaie profonde – segno che ha passato una notte d’inferno - , il fatto che muova il collo come per sgranchirselo – segno che ha dormito scomodamente - e il fatto che gli parli come se sapesse che gli serve qualcosa di specifico – e solo ora Sherlock nota le medicine a terra e della garza sporca di sangue lì vicino.

«Non lo so, dimmelo tu.» risponde, senza sapere bene cosa dire, e solo allora John spalanca gli occhi e lo guarda, fissando il volto di Sherlock come se non lo vedesse da mesi, anni quasi, nemmeno si conoscessero da tutta una vita.

«Tu sei…» inizia John, aprendo e chiudendo la bocca «Tu sei…» riprova, finendo a guardare tutta la figura di Sherlock e rimanendo per un attimo fisso a guardare qualcosa in particolare «Nudo.» conclude, tornando a guardare il viso di Sherlock, non sapendo bene se scoppiare a ridere o chiedergli scusa per averlo fissato così intensamente.

Sherlock si schiarisce la gola e finalmente si rende conto che forse sarebbe meglio mettersi qualcosa addosso (almeno secondo le convenzioni sociali, a lui non interessa poi molto), così si sporge verso il divano (sotto lo sguardo di John che non lo abbandona per un secondo, e Sherlock inizia quasi a sentirsi in soggezione) e prende il lenzuolo adagiatoci sopra, coprendosi con quello.

Nel soggiorno cade un silenzio teso, Sherlock guarda da tutt’altra parte rispetto a John mentre John lo fissa, attendendo che Sherlock – il logorroico Sherlock - ritrovi la parola, cosa che sembra non voler accadere.

«Fammi vedere il fianco.» dice allora John, giusto per alleviare la tensione, ma la cosa sembra non funzionare perché Sherlock si irrigidisce ancora di più e fa quasi per allontanarsi, ma John lo blocca per un braccio, facendolo rimanere seduto e lì Sherlock sembra avere un qualche tipo di reazione.

«Non darmi ordini.» gli risponde a denti stretti mentre lo fissa, e John può notare che i suoi occhi azzurro cielo questa volta hanno una sfumatura ambrata e si irrigidisce per un momento, capendo di non dover insistere oltre, ma gli fa comunque un sorriso gentile e lo tira solo un po’ verso di sé per fare in modo di poterlo curare.

«Voglio solo vedere la ferita sul fianco. E voglio sentire se hai la febbre, la febbre non è mai un buon sintomo. Quindi siediti per piacere e fatti visitare.»

Sherlock lo fissa e John finalmente si sente un po’ più tranquillo siccome finalmente lo guarda negli occhi.

Però Sherlock continua a non muoversi e a non parlare, così è John a doversi avvicinare e togliergli il lenzuolo, sotto gli occhi attenti di Sherlock, fino a scoprirgli il fianco. Sherlock in quel momento gli pare molto meno lo Sherlock che ha conosciuto nei mesi precedenti e molto più l’animale della notte scorsa, così fa ben attenzione a non fare movimenti affrettati.

La ferita fortunatamente è pulita, ed incredibilmente è anche meno profonda di quanto la ricordasse il giorno prima, ma preferisce continuare col disinfettante e le garze sterili fin quando la ferita sarà arrossata, almeno per sicurezza. Prende la boccetta e delle garze con la mano destra e passa a sentirgli la fronte: non scotta, ed è un’ottima notizia.

«Non hai paura di me?»

La domanda arriva inaspettata e John abbassa gli occhi ad incontrare quelli di Sherlock che nuovamente non gli restituiscono lo sguardo.

«So che mi hai visto quella notte, e se anche non ne avessi la certezza assoluta perché ogni volta è traumatizzante e fatico a ricordare le cose, ce l’avrei oggi che sono qui, con te.»

John imbeve la garza di disinfettante e fa quello che ha fatto per tutta la notte: si prende cura di lui.

«Non eccessivamente, no.» in fin dei conti sarebbe inutile mentirgli, ha avuto paura di lui e ce l’ha avuta eccome. Non sapeva che comportamento avrebbe dovuto tenere nei suoi confronti né come si sarebbe dovuto occupare di lui e, per quanto lo riguardava, quella prima notte aveva avuto paura di morire sbranato, quindi sì: paura ne aveva avuta, e pure tanta.

«Oltretutto ti sei comportato piuttosto bene, nel senso che non hai mai tentato di sbranarmi o cose simili, anche se è stato piuttosto snervante, perché non è che potessi starmene proprio tranquillo, e comunque mi sono sinceramente preoccupato quando non ti ho visto tornare per tutti questi giorni. Dove diavolo sei stato?» gli chiede mentre passa la garza sulla ferita e Sherlock reprime un mugolio.

«Non lo so.» risponde l’altro e John solleva un sopracciglio «Non lo ricordo.»

John lascia perdere la questione e finisce di disinfettare la ferita, per poi gettare la garza in un angolo con tutte le altre.

«Come ti senti?» gli domanda allora e Sherlock finalmente torna a restituirgli lo sguardo, ed è uno sguardo perso.

«Perché sei ancora qui?» John sbatte le palpebre più volte a quella domanda, lasciando perdere il fatto che Sherlock non abbia risposto alla sua, e lo guarda, coprendolo di nuovo con il lenzuolo giusto per fare qualcosa.

«E dove altro dovrei essere?» ribatte, non sapendo che altro rispondere, perché semplicemente altro da rispondere non c’è. E Sherlock allora corruga le sopracciglia, si alza in piedi incurante del lenzuolo che gli cade da dosso e della ferita che pulsa e gli si getta in grembo, accoccolandosi sul suo petto e riaddormentandosi prima che John abbia solo il tempo di dire “a”.

John osserva l’uomo che ha tra le braccia e per un attimo non sa cosa fare, ma lo stringe a sé e sente la pelle bollente di Sherlock sotto le proprie dita, allora forza il braccio sano per prendere il lenzuolo caduto a terra e copre nuovamente Sherlock, tenendolo saldo a sé, appoggiandosi con la schiena sulla poltrona e rimanendo fermo in quella posizione, decidendo di non spostarsi finché non sarà lo stesso Sherlock a svegliarsi e a togliersi.

Intanto John ne approfitta per immergere una mano in quei capelli pieni di nodi e leggermente sudati. Sarà il caso che Sherlock si faccia una doccia, dopo.

 

Quando Sherlock esce dal bagno trova John seduto sulla poltrona a leggere il libro che aveva lasciato incompiuto giorni addietro e John, vedendolo uscire con la coda dell’occhio, alza la mano nello stesso gesto che aveva fatto quel giorno, intimandogli così di lasciarlo finire fino ad arrivare al prossimo punto.

Quando John fa un’orecchia sulla pagina del libro e lo richiude poggiandolo al tavolo, Sherlock si siede sulla sedia vicino alla sua poltrona e John è felice di notare che sembra essere tornato lo stesso Sherlock che ha conosciuto, quello dall’apparenza distaccata. È contento anche di vederlo in completo – anche se deve ammettere che il vederlo completamente nudo non lo aveva lasciato indifferente - perché anche quello dimostra una specie di miglioramento rispetto alla parte animale.

Sherlock chiude gli occhi e poggia le dita sotto il mento, rimanendo in silenzio per quelli che sembrano minuti lunghi ore, finché non riapre quelle pozze celesti e le posa su John, lasciando perdere la colazione frettolosa che il medico ha preparato.

«Cosa vuoi sapere?» domanda, ed è ovviamente sicuro che John voglia venire a conoscenza di più e più dettagli.

Ma John, chiaramente, lo sorprende con una domanda inaspettata.

«Che lavoro fai?»

Sherlock sbatte le palpebre più volte e rimane fisso a guardarlo. «Prego?»

John sorride. «Che lavoro fai? Intendo, tu sai che io sono un militare, ma tu alla fine non mi hai mai detto né dove vivi né dove lavori.»

Sherlock sembra prendere la domanda un po’ più tranquillamente e rilassa le spalle.

«Vivo a Londra, e sono un consulente investigativo.»

John alza le sopracciglia talmente tanto che sulla fronte gli si formano tante piccole rughe d’espressione.

«Wow. A Londra ci vivo anch’io. Beh, o meglio, ci vivrei se non fossi così ossessionato dal non tornarci mai. Ma un consulente investigativo esattamente sarebbe…? Una specie di detective?»

Sherlock storce le labbra a quella parola e John capisce di aver sbagliato.

«No, io do una mano alla polizia quando brancola nel buio: ovvero sempre. Richiedono il mio intervento e io do una mano come meglio posso. Ovvero: splendidamente.»

John ride del tono di Sherlock e Sherlock alza le labbra in un microscopico sorriso, poggiando le mani al tavolo e rilassandosi ulteriormente nel vedere John davvero tranquillo. Si aspettava di tutto. Si aspettava quasi di venire ucciso o peggio, a dirla tutta. Ma John se ne sta lì, davanti a lui con in faccia un sorriso bonario e l’aria rilassata di chi non ha appena visto una persona trasformarsi in qualcosa e come se tutta quella situazione fosse normale. Sherlock, dentro di sé, ringrazia John ogni minuto di quella conversazione.

«Immagino che le tue doti deduttive centrino qualcosa.» ammette John e Sherlock annuisce con aria quasi annoiata. «Acuta osservazione.» dice solo in risposta, sbocconcellando quello che John ha preparato in velocità per la colazione, ritrovandosi a mangiare molto più del solito e molto più voracemente: sta morendo di fame.

John segue il suo esempio e si versa una tazza di caffè.

«Perché usi la mano destra?»

Il dottore si ferma dal versare il caffè e dà un’occhiata a Sherlock che non solleva lo sguardo verso di lui ma resta a fissare il toast davanti a sé.

«Com–?»

«Sei mancino. Non serve sicuramente un genio per notare una cosa del genere, però oggi usi la mano destra per tutto. Prima reggevi il libro, poi hai tenuto il segno e ora ti versi il caffè, nonostante la moka fosse più a portata della mano sinistra.»

John sta per aprire bocca quando Sherlock finalmente alza lo sguardo e rimane a guardarlo negli occhi.

«E c’è troppo sangue.»

Ed è incredibile come Sherlock riesca a farlo rimanere a bocca aperta.

«C’è troppo sangue su quelle garze. Non può essere tutto mio. Ti ho…» respiro «Ti ho fatto qualcosa?»

E nonostante l’espressione di Sherlock non cambi di una virgola John è convinto di sentire qualcosa in quella voce, qualcosa come preoccupazione e apprensione e, d’improvviso, capisce che non sarebbe il caso di dire a Sherlock la verità. Non subito almeno.

«Sì, in effetti certe garze sono le mie.» Sherlock trattiene vagamente il respiro mentre John continua «Sai, erano giorni che venivo a cercarti e… ah, a proposito, abbiamo praticamente finito la benzina… e prima o poi qualcosa doveva pur succedermi. Se ben ricordi l’altro ieri ha piovuto – oddio, puoi ricordartelo? - e ieri sono andato di nuovo in perlustrazione, ma il terreno era fangoso e scivoloso, e siccome la benzina era davvero poca ho deciso di venire a cercarti a piedi. Così semplicemente ho messo male un piede e sono scivolato lungo una discesa, aprendomi praticamente il braccio. Una sfortuna dietro l’altra insomma, ma tutto qui, nulla di eclatante.» John sorseggia il caffè e guarda con aria disinteressata Sherlock che invece lo sta fissando, cercando di capire se credergli o meno. Ma infine Sherlock abbassa le spalle e torna a respirare, probabilmente decidendo di credergli.

«Beh, in un certo qual modo è colpa mia.» dice, sorridendo appena.

«Oh sì, e infatti pagherai tu tutta la benzina che è stata consumata.»

Sherlock lo guarda male e in tutta risposta alza un sopracciglio. «Non ti ho mica obbligato io a venirmi a cercare. E poi tu eri quello che non guidava, no? Non oso immaginare che danni hai arrecato alla macchina!»

«Ah, beh, certo, effettivamente la cosa più logica da fare sarebbe stata quella di aspettare qui e vedere cosa sarebbe successo. Sì, una grande idea, geniale direi. E comunque no, la tua macchina non ha nemmeno un graffio, al contrario di me, quindi vedi che la benzina perlomeno devi mettercela tu.»

Vanno avanti a battibeccare finché non giungono alla conclusione di fare a metà per la benzina e John riesce anche ad estorcere a Sherlock un sussurrato grazie.

 

Finita la colazione, John fa togliere la camicia a Sherlock e controlla la ferita sia sul braccio che sul fianco. Incredibilmente entrambe sembrano guarire in fretta e quando lo fa notare a Sherlock, l’altro semplicemente non risponde.

«Riesci a muovere tranquillamente il braccio e la mano?» chiede John e Sherlock gli dà una dimostrazione pratica di riuscire a fare benissimo entrambe le cose, così il dottore annuisce e procede verso il fianco, tastando la zona arrossata della ferita e premendo delicatamente la mano per notare qualche fastidio o qualche dolore. Ma Sherlock nemmeno sembra reagire, così John semplicemente ci applica sopra della pomata e gli passa un bicchier d’acqua con due compresse di paracetamolo, giusto per stare tranquilli. Sherlock storce le labbra ma butta giù le compresse senza dire nulla.

«Bene. Beh, mi sembra tutto incredibilmente a posto.» dice mentre lo aiuta a rimettersi la camicia senza fargli fare troppi movimenti compromettenti. Sherlock sembra non voler dire nulla e John inizia seriamente a preoccuparsi di quello strano silenzio.

«Cosa c’è?» gli chiede, non riuscendo a frenare la curiosità e alzandosi in piedi per girare la sedia e mettercisi sopra cavalcioni, le mani appoggiate allo schienale.

Sherlock osserva i movimenti con lo sguardo, muovendo la testa ogni qual volta il movimento di John è troppo ampio, e si appoggia nuovamente alla sedia, accavallando le gambe.

«Non capisco cosa tu stia facendo.» ammette a malincuore e John abbassa la testa di lato e lo osserva, stupito.

«In che senso?»

«Nel senso che… tutto questo è strano.»

John, stranamente, scoppia a ridere.

«E lo vieni a dire a me? Non sei tu quello che si è ritrovato davanti un lupo al posto di una persona e l’ha visto fuggire nella notte.»

«Ed è questo il punto!» tuona Sherlock, alzando la voce e muovendosi a disagio sulla sedia come John non lo ha mai visto fare. «Perché sei così calmo? Cosa stai pensando di fare? Perché mi stai aiutando? Perché sei ancora qui? Non capisco. Non riesco a capire cosa tu intenda fare e questo è destabilizzante per me.»

Le labbra di John si tendono in un piccolo sorriso, mentre appoggia il mento sulle braccia incrociate.

«Io intendo passare il resto della mia ben più che meritata vacanza in questa casa di montagna, se vuoi, con te. Chiederti spiegazioni mentre sei in questo stato alquanto alterato, per usare un eufemismo, non mi sembra una grande idea e non ho intenzione di forzarti, la cosa che voglio sapere maggiormente è solo ogni quanto capita e se posso stare tranquillo o se devo avere paura di venire sbranato ogni volta.» Sherlock osserva l'uomo davanti a sé e per un attimo non dice nulla, probabilmente valutando cosa dire e come farlo. Dopo un paio di secondi in cui non ha sbattuto mezza volta le palpebre, sembra riprendersi.

«Non so dirti se lui ti farà del male o meno. È per questo che non volevo soggiornare con qualcun altro, ma tu... Tu hai insistito e con quella tua faccia da buon samaritano sei riuscito a trarmi in inganno. E io ancora non so perché ho deciso di scendere in città con te ma–»

«Panico.» dice semplicemente John, avvicinandoglisi e poggiandogli una mano sulla spalla, sorreggendolo mentre Sherlock si piega in avanti sul tavolo. «Una cosa per volta, Sherlock. Avanti, respira con me. Inspira, trattieni, espira... Bravo così, ancora una volta... Inspira, trattieni, espira… Bene.»

Sherlock ha le mani che tremano leggermente e John non reputa un buon segno quel luccichio ambrato che scorge negli occhi solitamente azzurri.

Il consulente si calma, stringe forte i pugni e chiude gli occhi, ricomponendo quella sua solita maschera annoiata.

«Questa cosa con cui convivo è un enorme peso, per me. Non mi concede di lavorare quanto vorrei e ogni sei o sette mesi devo allontanarmi dalla città per il pericolo piuttosto prossimo di poter far del male a qualcuno e non saperlo, ritrovandomi la mattina, nudo, da qualche parte della città senza ricordare assolutamente nulla. Quindi non lo so, John, se tu sia al sicuro o meno, ma non ci metterei sicuramente la mano sul fuoco.»

John si sistema meglio sulla sedia e lo guarda, poggiandosi le mani in grembo, cercando di capire qualcosa che per lui non ha affatto senso.

«Intendi dire che... praticamente non sei tu?»

Sherlock chiude gli occhi e sospira, guardando da un'altra parte e sembrando quasi a disagio.

«So solamente che non ho nessun ricordo di quello che faccio, quindi non saprei risponderti.»

John pare essere più sconvolto da questa rivelazione che da tutto il resto, e rimane lì a fissarlo mentre Sherlock incrocia i suoi occhi solo per distoglierli quasi subito, sembrando estremamente stanco e non lo stesso uomo con cui John ha fatto colazione solo pochi minuti prima.

«Come ti ho già proposto fin dall'inizio ti pagherò il biglietto per tornare a casa e i restanti mesi di affitto cosicché i tuoi soldi non vadano sprecati. E cosa vuoi in cambio del tuo silenzio?»

John alza entrambe le sopracciglia talmente tanto da toccare quasi l'attaccatura dei capelli.

«Chiedo scusa?»

Sherlock continua a non guardarlo e John sente un fastidio quasi rabbioso covargli infondo allo stomaco, provando quasi l'impulso di prendergli quel colletto della camicia stirato perfettamente e scuoterlo finché il viso non si alzerà per fissarsi nei suoi occhi.

«Non sono così stupido da pensare che non vorrai niente in cambio per non divulgare una tale informazione in giro. Probabilmente non ti crederebbe nessuno, ma sei un Capitano dell'esercito di Sua Maestà la Regina e non posso permettermi di rischiare o di far sollevare dei dubbi in tal proposito.»

Sherlock sente il rumore della sedia che si scosta.

«Se non ti prendo a pugni è solo perché il mio gancio destro non è forte quanto il sinistro e rischierei di non farti abbastanza male.»

Sherlock, finalmente, alza il viso e lo guarda con espressione quasi confusa che svanisce mezzo secondo dopo mentre nota quella di John veramente offesa e una vena sul collo che sta pericolosamente spuntando, sintomo di rabbia repressa.

«Chi credi che io sia? Una persona così meschina e abbietta? Che opinione orribile ti sei fatto di me, consulente investigativo dei miei stivali?»

John allora si alza del tutto dalla sedia con ben poca grazia e la rimette al suo posto, trascinando le gambe di legno sul pavimento giusto per infastidire l'altro.

Sherlock continua a guardarlo senza dire nulla mentre osserva John riprendere la propria cassetta del primo soccorso, lasciandogli la pomata e delle garze sul tavolo della cucina prima di girarsi verso la porta e uscire senza dire altro con passo marziale, sbattendo l’anta e salendo pesantemente le scale che portano all'appartamento di sopra.

E Sherlock rimane sorpreso.

Rimane sorpreso dalla rabbia di John. Rimane sorpreso dall'averlo ferito con simili accuse che non pensava fossero altro che semplici constatazioni. Mycroft gli ha sempre detto di non fidarsi, gli ha sempre spiegato che le loro condizioni non gli avrebbero permesso di avere delle persone vicino. Eppure John è ancora lì... beh più o meno.

Non è scappato, lo ha aiutato, lo ha curato, gli ha preparato la colazione e si è dimostrato gentile con lui fin dal primo giorno, fino dalla sua prima risposta acida e gli ha addirittura riparato alla bene e meglio la finestra, ora che lo nota. È rimasto accanto a lui durante la notte quando ancora non era tornato in sé e lo ha vegliato. Insomma, qualcosa deve pur dire sulla persona che è appena uscita da quella stanza, no?

 

John è così furioso che nemmeno riesce a credere a ciò che ha sentito. È furioso e frustrato e vorrebbe davvero prenderlo a pugni. Ma che diavolo è passato per la testa a quel coglione al piano di sotto?! Getta malamente la cassetta del primo soccorso a terra e fa per andare in bagno quando un bussare sommesso lo ferma e lo fa tornare indietro, spalancando la porta su quello che altri non poteva essere se non Sherlock. Sherlock che tiene in una mano una borsa di stoffa e nell'altra le chiavi della macchina.

John lo osserva con le sopracciglia aggrottate e la faccia arrabbiata, espressione che si scioglie pian piano vedendo quanto l'altro sia quasi in imbarazzo a ritrovarsi lì, in piedi, senza sapere evidentemente cosa dire.

«Ho...» inizia per poi fermarsi a malapena per un secondo, stranamente esitando, ricominciando però a parlare con la sua solita sicurezza quasi subito «Ho pensato che alla fine la benzina sarebbe giusto che la pagassi io, in effetti. E mi chiedevo se ti andasse di accompagnarmi in città, ho dimenticato di comprare certe sostanze che mi servono per finire un esperimento e la pece per il mio violino.»

John non si scompone davanti al tono incredibilmente neutro dell'altro e rimane a guardarlo, la rabbia che pian piano diminuisce e una specie di divertimento che gli sale fino a fargli sollevare gli angoli delle labbra. Ma questo non basta per il suo orgoglio ferito. Non si meritava di certo ciò che gli è stato detto. Così John si appoggia allo stipite della porta con le braccia incrociate e rimane a guardarlo, aspettando.

Sherlock lo capisce, ma John evidentemente non capisce Sherlock e quanto per lui sia stato difficile tutto quello.

«Offro anche il pranzo.» aggiunge, sempre con l'aria di chi stia facendo un enorme sacrificio per parlare.

E, dall'espressione di John, capisce che forse è abbastanza.

«Prendo un maglione e arrivo.»

Sherlock sospira quando John si sposta ed entra in casa lasciando la porta aperta (un chiaro invito ad entrare se ne avesse voglia) e sente il petto farsi incredibilmente leggero, si sente tranquillo, si sente meno in colpa.

Allora fa quel passo. Entra in casa di John e deduce quel poco che può capire da una casa così spoglia.

Poi guarda l'orrendo maglione leggero che John ha deciso di portarsi dietro e sorride.

 

 

«Il tuo poco appetito è preoccupante. Sei già estremamente pallido ed incredibilmente magro, non potresti mangiare qualcosina in più?»

John addenta il suo toast e guarda Sherlock giocherellare con la frittata, disintegrandola con la forchetta.

«Il cibo mi rallenta.»

John alza un sopracciglio e lo guarda scettico.

«Ti rallenta dal fare cosa esattamente? Non mi sembra tu sia incredibilmente impegnato... Anzi, direi che sarebbe meglio mangiare per mettersi in forze piuttosto.»

Sherlock alza gli occhi solo per fulminarlo con un'occhiata e poi torna a posarli sul cibo.

«In effetti, detesto venire qui. Passo mesi e mesi nell'ozio più totale, cosa che detesto, e non succede mai nulla. Nessun omicidio in questo paesino dimenticato da Dio e tutti i segreti che ci possono essere non sono tali perché qui sanno tutto di tutti e non c'è nessun mistero da svelare. Lo odio, questo posto. Odio oziare, odio che la mia mente non abbia niente da fare e si rivolti su se stessa nel vano tentativo di farmi distrarre. Odio questa situazione ma evidentemente non posso fare nulla. Mio fratello mi manda qualche fascicolo ogni tanto, per distrarmi, e odio perfino quello, il dover essere quasi in debito con lui per avere qualcosa da fare e non venir ucciso dalla mia stessa noia. In debito con lui o con Lestrade, non so nemmeno chi sia peggio.»

Sherlock sbatte malamente la forchetta sul tavolo e qualche commensale si volta nella loro direzione, per girarsi quasi subito alzando le spalle. Come ha detto Sherlock quello è un paesino piccolo, e se lui va a passare lì diversi mesi all'anno devono pur conoscerlo in qualche modo e conoscere altrettanto bene il suo carattere non propriamente semplice.

John lo guarda e si ricorda del nome che ha pronunciato Sherlock, il contatto del cellulare che non faceva altro che chiamare e alla quale non ha mai risposto; più tardi gli farà presente che qualcuno lo ha cercato, nel caso non abbia ancora guardato le chiamate perse. Vede Sherlock chiudere gli occhi e sbuffare fuori tutta l'aria. Ha notato che Sherlock non è propriamente la persona più calma e tranquilla del mondo, ma si chiede come non faccia a godersi dei momenti rilassanti come quelli.

«Parlami un po' di chi è questo Lestrade e dei tuoi casi, vuoi? Qual è il più straordinario che tu sia mai riuscito a risolvere?»

Sherlock riapre gli occhi e lo fissa, l'azzurro con qualche bagliore infinitesimale dorato che scompare praticamente subito, e rimane per qualche istante sorpreso.

«Davvero?» chiede.

E John annuisce.

«Ammetto che la vita totalmente tranquilla non fa nemmeno per me.»

Non ha mai visto Sherlock così entusiasta di raccontare qualcosa da quando hanno iniziato a parlarsi.

 

Quando montano in macchina Sherlock non ha ancora finito di spiegare il terzo caso risolto e John lo ascolta, rapito dai discorsi dell'altro ed interessato molto più di quanto si sarebbe davvero immaginato: evidentemente Sherlock scova davvero solo casi interessanti.

Quando arrivano a casa Sherlock invita John ad entrare e l'altro non esita, rimanendo da Sherlock per delle ore, preparando del tè mentre Sherlock accende il fuoco nel caminetto e continuando a parlare, passando da un discorso all'altro senza nemmeno accorgersene, arrivando persino a parlare dell'Afghanistan, della sorella di John (“Sorella?” “Sì, sorella, perché?” “C’è sempre qualcosa…”) e del fratello di Sherlock - la vera piaga dell'umanità.

Parlano ben poco - e Sherlock lo fa gettando qualche frase qui e lì giusto per togliere la curiosità evidente di John - della condizione di Sherlock, ma in definitiva John scopre che nulla è controllabile, che non succede in un determinato momento o periodo, che semplicemente succede e Sherlock non può farci nulla, che non è responsabile delle proprie azioni ed è come se si andasse a rintanare in qualche antro oscuro per poi risvegliarsi la mattina senza ricordare assolutamente nulla; è come avere un'altra entità dentro di sé e la cosa non è affatto piacevole.

Scopre anche cose al di fuori della condizione mentale - Sherlock gliene parla quasi a forza - ovvero qualcosa che ha a che fare con l’istinto, con il territorio, la gelosia innata (che Sherlock non ha mai provato perché è sempre stato solo) e il trovarsi un compagno per la vita (che Sherlock non ha mai avuto e ben che meno ha intenzione di trovarsi) e i sensi più sviluppati anche in condizione normale.

John ascolta e non interrompe mai, non lo forza a parlare e nota che Sherlock si sbottona sull’argomento un pochino di più ogni volta che si ritorna sul discorso.

Alla fine anche John trova giusto dirgli qualcosa in più su di sé, qualcosa che (forse) Sherlock non ha dedotto e che non è propriamente la cosa più facile da dire per lui e il proprio orgoglio.

«Mi è stato dato questo congedo in maniera piuttosto chiara ed obbligatoria.» inizia, mentre Sherlock assaggia un bicchiere di brandy del padre di Beth di cui entrambi si sono dimenticati. «Non ho chiesto io di essere rimandato a casa. Certo, non mi lamento, un po’ di riposo non fa di certo male, ma diciamo che non potevo replicare sull’andarmene da lì.» John fa un respiro profondo mentre Sherlock lo guarda, stavolta serio e senza sorriso, e poi continua «Mi era stato dato il compito di portare i miei uomini in una missione di recupero in una città vicino Kabul ma, per usare un eufemismo, la spedizione non è andata esattamente come volevamo. Il nostro autoblindo è finito sopra un ordigno esplosivo, con tutta probabilità azionato a distanza. Fortunatamente la carica esplosiva doveva essere stata dosata male perché a parte qualche ferito stavamo tutti bene. Io ho zoppicato per parecchi giorni a causa di una distorsione e mi sono lussato una spalla ma nulla di grave. Fatto sta che mi hanno fatto gentilmente notare che sarebbe stato il caso di andarmene per qualche tempo, che probabilmente ero stressato, che erano anni che non mi prendevo una pausa e che un altro errore di valutazione simile avrebbe potuto fare decisamente molti più danni. Chiaramente l’errore era mio.» [1] Sherlock osserva John battere ritmicamente i polpastrelli sul tavolo e si accorge di quanto il medico sia nervoso. Lui, nervoso. Proprio davanti a Sherlock.

«Quindi è un congedo forzato.» mormora il consulente, giocando con il bicchiere che ha appoggiato al tavolo, e vede John annuire.

«Anni e anni di onorato servizio e poi mi rispediscono a casa per un errore loro. Non mi lamento di trovarmi qui, questo posto mi piace e mi piace anche la compagnia.» alza il viso verso Sherlock e gli rivolge un sorriso caloroso. Sherlock non sa bene come replicare e si sente quasi a disagio ad essere preso in considerazione come una piacevole compagnia, così si schiarisce la gola e rimane ad ascoltare senza dire niente. «Ma è una questione di principio.» continua infatti l’altro, evidentemente per nulla sorpreso che Sherlock non abbia replicato. «Non mi permetterei mai di portare i miei uomini in missione se non mi trovassi nelle mie condizioni migliori. Un atto del tutto suicida è completamente inutile.» a quel punto John sbuffa e beve un altro sorso di brandy dal suo bicchiere, gettando un’occhiata all’orologio. «Uhm, vista l’ora, sarà meglio che vada, domani volevo andare a pescare e non credo che tre ore di sonno potrebbero bastarmi, al momento.»

Sherlock pare quasi deluso dalla cosa, ma nasconde la sua delusione guardando il bicchiere mezzo vuoto di John e annuendo una singola volta. Non vuole che John se ne vada, ma cosa potrebbe dirgli? Resta? E per quale motivo? Si sarebbero visti poche ore dopo.

E, incredibilmente, l’improvvisa realizzazione che avrebbe potuto vedere John il giorno dopo e quello dopo ancora e quello dopo ancora gli fece ronzare le orecchie e battere il cuore più forte. Non un segno molto buono.

Così si alza e accompagna John all’uscita prima che possa succedere qualcosa d’irreparabile, prima che il suo corpo decida per lui, e vede la sorpresa dipingersi sul viso di John ma non gli dice nulla quando, apertagli la porta e spingendolo con malcelata forza fuori, si richiude la porta alle spalle, poggiandocisi con tutto il corpo sopra.

John rimane quasi deluso, avrebbe voluto dirgli ancora qualcosa, avrebbe voluto fare qualcosa, ma ha capito più che bene che se Sherlock fa qualcosa è solo per salvaguardarlo da lui.

 

John va a letto dopo essersi medicato la ferita con della pomata e delle garze pulite e con una pace addosso che non sentiva da tanto tempo. E non è solo pace, è pace insieme a qualcos’altro, a qualcosa che lo fa sentire vivo e che lo emoziona nel profondo. È qualcosa che lo fa sorridere ed è qualcosa che lo fa emozionare. La paura è sparita, lasciando quasi una sorta d’indifferenza, sente che riuscirà a dormire finalmente sereno dopo tanto tempo.

E forse non andrà a pesca più tardi, non se non verrà anche Sherlock.

 

Il suo sonno è agitato ma non come le ultime notti, non come gli ultimi sogni e non come gli ultimi incubi. È agitato perché non lo fa rimanere fermo nel letto, facendolo attorcigliare attorno alle coperte, ma la mente è tranquilla, mentre sogna guerra e lupi mescolati in un unico scenario e Sherlock in forma di bestia che gli si fa vicino, non per sbranarlo questa volta ma per poggiargli il muso sul petto e aspettare che John faccia qualcosa.

 

È ancora buio quando John è costretto a svegliarsi per dei rumori che provengono da fuori l’appartamento e non gli ci vogliono che pochi minuti per realizzare chi potrebbe essere. Chiaramente è Sherlock, ma non sta bussando.

Si alza dal letto dopo essersi sgrovigliato le coperte dalle gambe e averle gettate malamente sul letto ed esce dalla camera dirigendosi alla porta d’entrata.

I rumori sono sempre più forti man mano che si avvicina, finché non sente un vero e proprio rumore di unghie contro il legno e sospira, non sapendo cosa fare.

Lui è imprevedibile.

Alla fine prova a dare un colpetto con le nocche contro la porta, per far sentire la propria presenza, e il lupo al di fuori della porta inizia ad ululare in risposta, come a volersi far sentire chiaramente. John non sa se sia un bene o un male, ma decide di fidarsi come ha fatto solo la sera prima e, con la stessa emozione d’insicurezza addosso, apre la porta e fissa subito gli occhi in quelli del lupo che gli restituisce lo sguardo. La bestia rimane ferma per qualche secondo a guardarlo, finché si porta avanti e struscia il muso contro il fianco di John e sotto il palmo della mano sana e una parte del cervello di John fa caso per la prima volta alla morbidezza del pelo dell’altro e, tentennando per qualche attimo, muove la mano sul lato del muso e in mezzo alle orecchie, tornando indietro. Il lupo sembra apprezzare immensamente perché si poggia più pesantemente col muso contro John e il dottore quasi cade per terra, sbilanciato.

«Ehi, ehi. Piano.» il lupo sbuffa fuori aria dalle narici ma, ovviamente, non prende in considerazione ciò che John ha detto e spinge ancora, così da riuscire ad entrare in casa, benvoluto o meno.

«Mmh… Alla fine si fa comunque di testa tua vedo.» John prende un po’ più di confidenza e prova ad abbassare anche l’altra mano sul muso della creatura per accarezzarlo ulteriormente e la bestia sembra non aver nulla da ridire, chiudendo gli occhi e premendo sempre con più forza contro il dottore. John nota con la coda dell’occhio che il lupo tiene la zampa anteriore sollevata da terra e immagina che debba fargli più male che nella sua forma umana essendo che ci si poggia sopra, così si siede a terra, pregando di non fare la cosa sbagliata, e fa cenno al lupo di distendersi e, incredibilmente, lo fa.

Con un poca di fatica Sherlock si distende, appoggiandogli il muso in grembo e il corpo sul lato che gli fa meno male e sente le dita di John accarezzarlo dietro le orecchie e sul collo, parlando in tono basso e rilassante.

«Ci siamo visti solo qualche ora fa, ti mancavo così tanto?» scherza, continuando il massaggio, ma il lupo drizza le orecchie ed apre gli occhi ad osservarlo e John rimane per qualche istante in silenzio, chiedendosi se l’altro lo abbia capito davvero o meno. Si schiarisce la gola e inizia a grattargli il collo: il lupo sembra apprezzare ulteriormente.

Ci vuole qualche minuti buono per far rilassare del tutto John ma, quando accade, il buon dottore sente calargli di nuovo la stanchezza addosso e il sonno incredibilmente vicino e crede sia meglio tornare a dormire e non addormentarsi così.

Però quando tenta di togliersi il muso dal grembo, il lupo usa tutta la propria forza per tenerlo lì, seduto sul pavimento.

«Sherlock…» inizia, tentando si spostarlo di nuovo con scarsi risultati. «Dai, devo chiudere la porta e ho sonno. Non puoi pretendere di farmi dormire qui.»

Il lupo sembra non capire il disappunto del dottore nel dormire per terra ma probabilmente capisce dall’insistenza dell’altro che dev’essere una cosa importante. Ma non vuole lasciarlo andare. Allora John si arrende e si distende sul pavimento.

«Ti odio. Ho un letto caldo e confortevole di là e tu…» ma John non ha tempo di dire altro perché Sherlock gli è praticamente sopra; lo annusa, lo lecca, gli si poggia addosso, gli infila il muso sotto la maglia del pigiama e John per diversi secondi è immobile, non sapendo che diavolo stia succedendo e cosa fare a riguardo, questo almeno finché il lupo non va a leccargli e annusargli il collo, causandogli risate sconquassanti per il solletico, ma Sherlock pare non farsi problemi e passa a leccargli il lato del viso, ad annusargli il petto e a graffiarlo leggermente con le unghie sull'addome.

«Cosa diavolo stai facendo?» il tono vorrebbe essere serio ma la risata esce da John spontanea quando il lupo continua a leccarlo vicino al collo e così John alza una mano e va ad accarezzarlo nuovamente tra le orecchie, grattandolo con le unghie corte quando Sherlock pare farsi più docile.

«Bene, la finiamo ora?» chiede, col peso dell’animale sopra di sé, iniziando a non riuscire a respirare e voltandosi piano per farlo scendere. Il lupo si sposta di poco, rimanendo su un fianco e col muso poggiato sul petto del dottore che continua a fargli lente carezze, almeno fin quando Sherlock non si sposta verso il braccio sinistro di John e si avvicina alla fasciatura, iniziando a leccare anche quella, emettendo qualche verso che John non riesce ad identificare. Dopo quasi un minuto buono John crede di sapere cosa l’altro stia facendo e infonde più forza nella carezza che ora gli sta facendo al lato del muso.

«Sta guarendo in fretta e non era nulla di così grave.» dice, ringraziando il cielo di aver cambiato la fasciatura e averne messa una nuova senza lasciare la ferita all’aria, perché una leccata non doveva essere sicuramente la cosa più igienica del mondo. «E comunque, sei molto più bravo in forma animale a chiedere scusa che in forma umana, devo dire.» si volta di lato a quelle parole e Sherlock si sposta indietro, notando il movimento, distendendosi poi vicino a lui, insinuandogli il naso umido sotto il collo, continuando a far ridere John che ora si sente davvero rilassato e al sicuro.

«Sapevo che non potevi essere terribile come mi avevi detto.» gli dice mentre gli gratta il muso.

E, contro ogni sua aspettativa e sapendo che il giorno dopo la schiena gli avrebbe fatto pagare la carognata di starsene sul pavimento, si addormenta con Sherlock che ancora lo annusa e gli lecca il braccio.

La porta lasciata aperta fa entrare una leggera brezza che fa rilassare entrambi e poco dopo anche il lupo si addormenta, poggiandosi su John e coprendolo dal freddo.

 

 

 

 

NOTE:

[1] Ringrazio Hotaru_Tomoe per l’idea *__*

Posto un giorno prima perché domani (finalmente) me ne vado per un paio di giorni in giro per l'Italia (più o meno XD). Grazie mille a chi ha recensito, messo tra le seguite/preferite/ricordate la storia e vi auguro un buonissimo e lunghissimo e rilassantissimo (quanti "issimo") week end <3
   
 
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