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Autore: futacookies    25/07/2014    4 recensioni
Era qualcosa che le stava svuotando le viscere e facendo contorcere le budella. Era qualcosa che non era in grado di reggere, non ancora per molto. Qualcosa che presto sarebbe finalmente scoppiato – la bomba ad orologeria da sempre presente nel loro rapporto, forse, finalmente, avrebbe esaurito i minuti del timer – costringendoli alla verità. Crudele, cattiva, velenosa verità. Che forse li avrebbe uccisi. [...] Era una specie di lama affilata che si passavano a vicenda ogni cinque/dieci minuti, per evitare che le vicendevoli ferite potessero mai guarire.
Non erano ferite visibili, di quelle che si aggiustano con dei cerotti e un po’ di acqua ossigenata. Erano ferite interne, quel tipo di dolore che nessuno riusciva a vedere, ma che tutti potevano sentire. Erano escoriazioni vicino al cuore, che distruggevano le vene circostanti e causavano problemi con l’aorta.
Erano quelle ferite i cui postumi avrebbero avvertito dopo decine e decine di anni, quando la loro affine strategia non sarebbe bastata a mantenerli lucidi, il dolore non avrebbe annullato il ricordo e sarebbero impazziti l’uno nella fuggevole immagine dell’altro.

{Happy ending}
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alejandro, Heather | Coppie: Alejandro/Heather
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
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Impreciso, inconcludente, innamorato

 
Heather avrebbe potuto aspettarsi tante cose da quando era stata eliminata dal reality.
Per esempio, i giornalisti che sottolineavano in maniera del tutto insopportabile il modo in cui era stata raggirata – stupido Al!
O, ancora, delle scuse dal suddetto stupido.
Perché di certo non poteva davvero credere che l’avrebbe perdonato con quella specie di dichiarazione in mondovisione.
Attendeva, giorno dopo giorno, che il bastardo – caro e amabile ragazzo, a detta di sua madre – venisse brutalmente fatto fuori o finisse vittima delle sue stesse macchinazioni. Dunque, quando ciò accadde – Heather non provò mai tanta gioia mentre, spaparanzata sul divano di casa, si teneva la pancia per il troppo ridere e rischiava di cadere da un momento all’altro – aspettò invano che qualcuno si facesse vivo, magari supplicando perdono in ginocchio.
Oh, sì: supplicare in ginocchio. E forse – e la sua mente evidenziò ripetutamente quel ‘forse’ – avrebbe preso in considerazione l’idea di prenderlo a calci nel sedere. Oppure gli avrebbe sbattuto la porta in faccia, rompendogli il naso.
Intanto, però, era passata una settimana e del messicano nemmeno l’ombra. Le prudevano le mani per l’irritazione e stava mentalmente elencando tutti i suoi difetti in ordine alfabetico.
Ignorante, imbecille, idiota, incapace, insensibile, immaturo.
Era sul punto di passare alla lettera successiva, quando squillò il cellulare. Un messaggio da…
…lascivo, libertino, losco, lestofante, lugubre… oh, insomma, da Alejandro.
– Ciao, Heather.
So che sei arrabbiata – tu sei sempre arrabbiata – ma vorrei parlarti.
Se non attenterai alla mia sopravvivenza. –
Né, dove, né quando. Forse poteva allungare la lista della ‘i’.
Impreciso, incompetente.

*
 
Forse per una sconosciuta forza del destino, forse per curiosità, forse per la soddisfazione di vederlo finalmente piegato dalla sua volontà, decise di prendere in mano le redini della situazione. Rispose al suo messaggio – condendolo con una buona dose di insulti – e dandogli appuntamento per il giorno dopo.
Un appuntamento con Alejandro.
Cazzo.
Era talmente presa dal coprirlo di epiteti più o meno onorifici che aveva perso di vista il punto per cui ce l’aveva con lui. Ne era innamorata e i suoi sentimenti erano stati calpestati – di nuovo – per un milione che non era neanche riuscito a vincere – di nuovo.
Cominciò a camminare per la stanza, rischiando quasi di fare solchi nel pavimento, ripassando mentalmente tutti i motivi per cui avrebbe dovuto considerarlo ancora il nemico.
Non ce ne era nemmeno uno.
Ribadendo il concetto: cazzo.
Insomma, il reality era finito per entrambi – e non avrebbe mai dovuto rivedere Chris, Chef e quel circo ambulante che erano stati, erano e sarebbero sempre stati i suoi ex-avversari.
Quindi, non c’era nessuna valigetta che si frapponeva tra lei e il ragazzo. Non c’erano sfide, eliminazioni e tutte quelle cose carine che l’avevano spinta a insabbiare i suoi sentimenti. E magari anche a nascondere la testa sotto la sopracitata sabbia, al momento giusto.
Quindi, c’era effettivamente la possibilità di vivere in maniera pacifica sotto lo stesso cielo di Alejandro. In fondo, non aveva mica ucciso suo padre, no?
Quindi, in quel momento si trovava seduta al tavolino di un bar vicino casa sua, aspettando che il ragazzo si facesse vivo.
In ritardo.
La lista non era affatto terminata

*
 
«Alla buon’ora!» Sbottò, quando decise di arrivare.
«Scusa, Heather. Sai, le fan…» Se da un lato poteva fingersi sinceramente pentito, la frecciatina sulle ragazzine adoranti che lo seguivano in continuazione mandò a farsi benedire le precedenti parole.
«Certo, Al. Capisco perfettamente il dramma.» Avrebbero dovuto ordinare qualcosa, il cameriere li stava guardando male. Gli fece segno di avvicinarsi e ordinò due tè al limone, sotto lo sguardo disgustato del ragazzo. «Al limone? Madre de Dios! Io bevo soltanto tè verde, per preservare…» Lo zittì con un gesto della mano. «Tutto il tuo splendore. Sì, Alejandro, lo so. Io ordino, io decido cosa ordinare. Punto. Non volevi vedermi? Eccomi. Ora, se hai qualcosa da dirmi, spicciati a farlo, altrimenti non so per quanto altro tempo la tua sopravvivenza potrà dirsi certa.»
L’improvvisa tirata lo prese in contropiede, perché la fissò balbettando per quasi un minuto, incapace di articolare qualcosa di anche solo lontanamente sensato.
Intanto il suo tè era arrivato, e si stava godendo l’aria fresca dell’estate canadese.
«Torno in Messico.»
Lo consapevolezza di quello che aveva appena detto la colpì come un pugno allo stomaco. Si raddrizzò sulla sedia e cercò in tutti i modi di nascondere l’incredulità provocata dalla rivelazione.
Non era quello che si aspettava. Niente scuse, niente dichiarazione, niente di niente. Se ne stava andando – probabilmente per non tornare – e lei restava così, con gli occhi sbarrati e pochissimo fiato in gola.
«Ah.» Si pizzicò forte il braccio, permettendo al dolore fisico di snebbiarle momentaneamente la mente. Ci sarebbe stato molto tempo, quando sarebbe stata sola, per gli isterismi. «E… quando parti?» No, non voleva davvero saperlo, anche perché avrebbe contato i giorni sul calendario e le ore sull’orologio, in attesa di essere certa che lui era andato via.
Lui si mise le mani nelle tasche, ignorando il bicchiere sotto i suoi occhi.
«Domani, credo. Non ho più una valida motivazione per restare qui. Il reality è finito, non ho amici, nemmeno una…» si bloccò, incerto su cosa dire. Accantonò l’argomento e ne prese un altro.
«Mia madre si sente sola. I miei fratelli non sono molto costanti nelle visite, in particolar modo Josè, e mio padre lamenta sempre dell’incostanza dei suoi figli.»
Annuì distratta, soffermandosi sul paesaggio. Aveva ancora una volta sottovalutato l’importanza di Alejandro nella sua vita. Dopo quasi due anni di conoscenza, ancora inciampava in certi errori.
Era finita lì, allora?
«Ti va di… fare una passeggiata?»
Acconsentì e gli permise di pagare il conto – non le sarebbe più capitato di vedere un Alejandro altruista. Non le sarebbe più capitato di vedere Alejandro e basta.
«Andiamo?»
Inconcludenti.

*
 
Si ritrovavano a fare avanti e indietro per il parco pubblico di Ottawa, senza avere il coraggio di dire una sola parola.
Heather era perfettamente conscia che, se avesse anche aperto la bocca, appena appena, la sua voce sarebbe risultata sofferente e pesante come il groppo che aveva nello stomaco. Ma era stanca di quel silenzio, nonostante non fossero mai stati in pace per un periodo così lungo. «Quindi… perché volevi vedermi? Ultima rimpatriata con la tua peggior nemica? Qualcosa da rinfacciarmi? Qualcosa che non mi hai ancora rinfacciato, s’intende.»
Durante le settimane passate a Wawanakwa l’aveva più volte accusata di averlo dimenticato, ignorato, senza nessuna scusante. In effetti, però, la scusante c’era – naturalmente ben celata agli occhi degli altri.
La verità era che si sentiva in colpa. Per mesi dopo la fine del tour aveva avuto incubi e demoni nascosti nell’armadio, pronti ad uscire fuori al minimo accenno della questione. Non avrebbe sopportato l’idea di vederlo, sentirlo, costretto in quell’ammasso di latta – per un po’ si chiese come avesse fatto  a non collegare il ragazzo al robot che Chris aveva propinato amabilmente agli Avvoltoi durante la prima puntata.
Se le sue parole riuscirono a ferirlo, non lo diede troppo a vedere. Dannazione!, voleva che stesse male, almeno un decimo di quanto lo era stata lei nell’ultima mezz’ora. Continuava a non proferire alcunché, lo sguardo perso nel vuoto, in chissà quali ragionamenti. Ormai aveva abbandonato le speranze, quando si decise ad aprir bocca.
«Volevo vederti, perché sarai l’unica persona che mi mancherà, quando tornerò a casa. Perché sei davvero l’unica cosa che mi resta, dopo due anni di soggiorno in questo maledetto Paese.»
C’era un solo modo per definire la sua voce in quel momento.
Insofferente.

*
 
Dopo l’ultima confessione di Alejandro la quiete tornò sovrana tra loro. Era qualcosa che le stava svuotando le viscere e facendo contorcere le budella. Era qualcosa che non era in grado di reggere, non ancora per molto. Qualcosa che presto sarebbe finalmente scoppiato – la bomba ad orologeria da sempre presente nel loro rapporto, forse, finalmente, avrebbe esaurito i minuti del timer – costringendoli alla verità. Crudele, cattiva, velenosa verità. Che forse li avrebbe uccisi.
A quel punto era inutile girare intorno alla questione. Ormai la dichiarazione c’era – non una dichiarazione canonica, lui non era in ginocchio – ma c’era. Soltanto che entrambi continuavano a fare finta che non ci fosse stata, che fosse tutto il frutto di un errore. Diamine, era il frutto di un errore, perché se di cose sbagliate Heather ne aveva fatte tante, nulla era paragonabile al suo rapporto con Alejandro. Nonostante le telecamere fossero chiuse, distanti anni luce, continuavano a farsi la guerra.
Una guerra più sottile, meno vistosa e non per far divertire quel maledetto burlone del conduttore. Era una specie di lama affilata che si passavano a vicenda ogni cinque/dieci minuti, per evitare che le vicendevoli ferite potessero mai guarire.
Non erano ferite visibili, di quelle che si aggiustano con dei cerotti e un po’ di acqua ossigenata. Erano ferite interne, quel tipo di dolore che nessuno riusciva a vedere, ma che tutti potevano sentire. Erano escoriazioni vicino al cuore, che distruggevano le vene circostanti e causavano problemi con l’aorta.
Erano quelle ferite  i cui postumi avrebbero avvertito dopo decine e decine di anni, quando la loro affine strategia non sarebbe bastata a mantenerli lucidi, il dolore non avrebbe annullato il ricordo e sarebbero impazziti l’uno nella fuggevole immagine dell’altro.
Ma lei non voleva impazzire – sapeva vedere molto più in là del ragazzo, sapeva da sempre come sarebbe finita – voleva soltanto costringerlo ad ammettere i suoi sentimenti, legarlo a lei con una catena – la stessa che li univa dal primo istante in cui si erano visti, in cui si erano scelti.
Voleva impedirgli di andare via. Sì, voleva anche sbriciolare il suo orgoglio pur di farlo restare in Canada. Allora toccava a lei, parlare per prima? Toccava a lei fare quello che non aveva fatto dopo aver saputo quello che gli era successo tempo prima?
Se l’avesse rifiutata? Se quello che lei sentiva, quello che lei voleva, fosse stata solo un’utopia?
Insicura.

*
 
La stava riaccompagnando a casa, il passo lento e mogio di un condannato al patibolo. Quando lui sarebbe partito, non le sarebbe rimasta che l’amara consapevolezza che era colpa sua. Solo e unicamente sua. Stavolta non c’entravano i milioni, o i giochi maledettamente dolorosi di due adolescenti con manie di grandezza. Stavolta c’entrava solo la sua paura, la sua mancanza di coraggio.
Eppure, era la stessa ragazza che era riuscita a raggirare decine di adolescenti con l’intelligenza di un criceto – a volte quasi un’intelligenza normale – e non riusciva a convincere se stessa a fermarsi, a mettere un punto in quella follia in cui aveva trascinato entrambi.
Era terrorizzata dall’idea di un rifiuto, ma la spaventava di più l’idea di doversi mettere in gioco, nero su bianco tutto quello che provava. Forse era quello che la bloccava, forse era la sua costante aridità nei sentimenti. Non sapeva amare, non l’aveva mai fatto, non pensava di doverlo fare, un giorno.
Poi Alejandro le era piombato tra capo e collo, smontando una dopo l’altra tutte le sue certezze, rendendola non troppo dissimile da Bridgette, LeShawna e Courtney. Le era rimasta la finzione, quel mondo di castelli di carta in cui lui l’aveva seguita, in cui l’aveva trovata e da cui la stava tirando fuori con l’ovvietà dei fatti. E allora si fermò.
Inizialmente lui non l’aveva notato, aveva proseguito per quasi un metro senza accorgersi della sua assenza. Poi si era voltato, lo sguardo ancora vitreo, ancora lontano da lei.
«Non è vero.» Affermò, i pugni stretti, le unghie conficcate nella carne per costringersi a continuare, per impedirsi di cedere e affondare ancora.
L’aveva guardata, il sopracciglio alzato, l’espressione curiosa, improvvisamente più vicina a lei. Non abbastanza.
«Che non hai più niente qui, non è vero.» Aveva la voce rotta da lacrime che non sarebbero mai state piante, ma che c’erano. Le sentiva all’interno degli occhi, nella sua gola, tra le ciglia.
In quel momento si stava avvicinando, anche fisicamente. Non doveva mollare. Non. Doveva. Mollare.
Sapeva che se avesse rinunciato in quel momento – mentre lui la guardava con quegli occhi così tristi, con una minuscola scintilla di speranza che sarebbe diventata fuoco alla sua prima parola – l’avrebbe perso. In ogni caso, erano su una via di non ritorno. Potevano amarsi tutta la vita, lasciare in sospeso le questioni spinose per quando avrebbero messo un mattone sul loro rapporto, oppure odiarsi, superando ogni volta quel confine sottile che c’era sempre stato tra loro, seppellendo sotto errori dopo errori – in fondo, cos’erano loro, se non un insieme bistrattato di errori?
Erano vicini, maledettamente vicini e aveva il sentore che sarebbe crollata tra le sue braccia, senza concludere nulla.
Respirò forte a un palmo da suo volto. Continuava a fissarla smarrito, come se di colpo anche le sue certezze si fossero annientate.
«Hai me.» Mormorò, e la sua voce risultò stanca, come se avesse camminato chilometri, quando invece non aveva fatto neanche un passo.
Allora la strinse, tanto forte che probabilmente avrebbe riportato davvero qualche ferita, ma non le interessava. Voleva solo annullarsi con lui, per lui, tra le sue braccia, sulle sue labbra.
Lo sguardo che le rivolse dopo era classificabile con un solo aggettivo.
Innamorato.

*
 
 
Note dell’autrice:
Prima di incominciare, una piccola e sentita dedica a tutti i miei cari amici di questo fandom (Miky, Koko, Xenja e Maty in particolare, perché in fondo l’Alheather è il suo regno).
E anche un ringraziamento a xitsgabs che mi ha betato la storia pur non capendo un tubo di TD – parabatai, ti adoro.
Adesso, possiamo incominciare.
Gente, odiatemi: sono sette mesi che non mi faccio vedere, ho praticamente abbandonato la Mini Long – che un giorno vedrà la fine, sappiatelo – e ho scritto questa cosa parecchio Angst che comunque è finita bene.
Non vi illustrerò l’epopea de titolo, ma siate coscienti del fatto che ne ho cambiati una ventina, più o meno.
Comunque, questa cosa che avete avuto la sfortuna di leggere dovrebbe essere un Missing Moment tra il decimo e il quattordicesimo episodio di TDAS. Non ho voluto mettere “Spoiler” perché cedo che ormai l’abbiate visto tutti. Se ho rovinato il finale a qualcuno, beh, uccidetemi pure.
Ditemi anche se i personaggi sono OOC, perché non sono pienamente convinta. Il mio campo sono Duncan e Courtney, ho scritto giusto quattro Alheather contando anche questa. Però loro sono e saranno sempre il mio OTP, quindi dovendo ritornare in grande stile ho deciso di scrivere su di loro. È stato un parto straordinariamente veloce e quanto mai inopportuno perché ho centordici contest da portare a termine e ho speso metà pomeriggio a scrivere cose angoscianti come questa.
Passiamo alle precisazioni sulla storia: gli aggettivi con la ‘i’ erano una specie di omaggio alle mie numerose imprecazioni durante la finale dei Mondiali, rivolte ai calciatori della Germania che dopo aver battuto sette a uno il Brasile non riuscivano a mettere dentro il pallone nella rete degli argentini.
Ma passiamo oltre, vi prego.
Il fatto che Alejandro sia messicano mi pare di averlo sentito qualche volta in uno degli episodi – confesso che non vedo un episodio di TDWT da quasi un anno – ma la mia memoria potrebbe anche sbagliarsi.
Il fatto che ritorni a casa mi sembra più che normale, dato che è arrivato in Canada solo per partecipare a TDWT e TDAS.
La cosa del preservare il suo magnifico corpo rimanda all’episodio… aspetta, come cavolo si chiama? Oh, ecco! “Truffa cinese” in cui lui non vuole mangiare quelle schifezze perché deve tutelare il suo ‘tempio’.
Poi ci saranno decine di altre precisazioni, ma io non ricordo cos’altro c’è da dire e probabilmente a voi neanche interessa.
E quindi niente, vi lascio. Se volete, recensite, sennò tiratemi pure addosso i pomodori che me lo merito.
Alla prossima – spero.
Fede ♥
  
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