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Autore: Agapanto Blu    03/08/2014    7 recensioni
Partecipante al "Let's sport!" Contest indetto da Drie.
MIDOTAKA (MidorimaXTakao)
***
Un Midorima che ha lasciato il basket, che non si fascia le dita, che ha smesso di seguire Oha Asa perché "se il Fato esistesse davvero" non gli avrebbe portato via l'unica persona veramente importante per lui; e un Takao che ha fatto un errore e che ne paga le conseguenze.
Shintarou ci ha provato, ci ha provato disperatamente per otto anni, a dimenticarsi di quel moro che gli ha spezzato il cuore. Ci ha provato e, con l'aiuto di persone come Kuroko e Kise, ha anche creduto di averlo fatto. Ma se il destino, sotto forma di pallone che attraversa la strada all'improvviso, fosse semplicemente un po' in ritardo, sarebbe ancora capace di aprirgli la porta?
***
“Shin…tarou?” mormorò, sgomento.
E lo sventurato rispose.
“…T-Takao?”
Midorima si pentì di aver pronunciato quelle sillabe non appena queste lasciarono la sua bocca.
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Shintarou Midorima, Takao Kazunari
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Fagiolini… oppure no.
 

“Dottor Midorima, le analisi.”
Quando la vocina acuta ed esageratamente mielosa dell’infermiera rossa alla reception strascicò la ‘i’ del suo cognome, Shintarou pensò seriamente di ucciderla. Non riusciva a sopportare quell’invadente e stupida ragazza che pensava di potersi comperare un anello al dito piegandosi in avanti abbastanza da far strabordare il proprio seno ogni volta che lui le passava accanto.
Si aggiustò gli occhiali sul naso, tornò al bancone quasi camminando all’indietro e afferrò con malagrazia la cartella color senape per poi andarsene borbottando qualcosa di incomprensibile – che però non era certo un ‘grazie’ –.
Perché quella donna non riusciva a lasciarlo stare?! Aveva chiuso con i sentimenti lui, da tempo, e credeva di essere anche stato abbastanza chiaro con quell’altra infermiera, quella mora che gli aveva chiesto di uscire.
Sospirò pesantemente mentre spingeva le porte a vetri dell’ospedale dove lavorava e si diresse al parcheggio frugando nelle tasche alla ricerca delle proprie chiavi, chiedendosi come fosse possibile perderle in uno spazio tanto angusto.
Quando le trovò, premette il pulsante e la sua auto, una nera decappottabile, lampeggiò una volta con un gentile ‘bip’, come per salutarlo.
Nonostante la sua giovane età, Midorima aveva bruciato le tappe, finito l’Università nella metà del tempo che avrebbe richiesto e raggiunto la posizione di caporeparto di Terapia Intensiva sbaragliando tutta la concorrenza al concorso pubblico. Eppure viveva in un appartamento che era un buco solo perché era il più vicino all’ospedale che avesse trovato – e comunque erano più le notti che passava nel suo studio concedendosi giusto tre o quattro ore di sonno che quelle in cui riusciva a tornare a casa –, aveva ancora lo stesso cellulare del liceo che ora però esibiva una bella riga sul dorso e parecchie scheggiature sul fianco sinistro, non usciva quasi mai, non fumava né beveva – tendevi a smettere di concerti certi vizi dopo esserti occupato di un numero imprecisato di collassi polmonari o cedimenti di fegati – e non comprava vestiti troppo costosi nonostante la sua posizione. Quell’auto era l’unica concessione che si fosse mai fatto negli otto anni che erano passati dalla fine delle superiori ad allora e lo aveva fatto per una mera necessità: oltre al fatto che un’emergenza sarebbe sempre potuta capitare in ogni momento e che lui avrebbe magari dovuto correre in ospedale nel minor tempo possibile, a volte aveva mentalmente bisogno di staccare da sé stesso, di mettersi al volante e concentrarsi sulla guida fino a perdere coscienza della propria persona per diventare un tutt’uno con i propri sensi e con la strada.
Se fosse ancora stato l’adolescente di un tempo, avrebbe semplicemente preso in mano la palla da basket e iniziato a segnare una tripla dopo l’altra senza fermarsi fino a quando non fossero stati i suoi muscoli a rifiutarsi di muoversi ancora, ma quel gioco gli era ormai precluso. Ogni volta che toccava la sfera arancione, ogni volta che sentiva il frusciare della rete del canestro e ogni volta che vedeva le linee bianche sotto i propri piedi, la nausea lo prendeva e la sua mente gli schiaffava in faccia proprio il ricordo dal quale di solito cercava di fuggire in auto.
Shintarou scosse la testa appena si accorse della direzione dei suoi pensieri e si affrettò ad aprire la portiera e a mettersi alla guida, lanciando la propria valigetta e la cartella delle analisi sul sedile del passeggero come se qualcuno lo stesse inseguendo. Solo quando ebbe messo in moto ed si fu assicurato di avere entrambe le mani ben salde sul volante si concesse un sospiro.
Fece retromarcia con attenzione e poi si immise in strada. Guidare era qualcosa che lo preoccupava sempre, aveva visto abbastanza feriti da incidente stradale da non essere in grado di prendere quell’azione sottogamba e proprio per questo era l’attività che preferiva fare per sfuggire al proprio passato.
A circa metà del tragitto verso casa sua, la sua auto gli segnalò una chiamata in arrivo e lui rispose premendo l’apposito tasto accanto alla radio.
Midorimacchi!” esclamò la voce allegra di Kise, “Come s-…
Buttò giù prima che il biondo potesse aggiungere altro.
‘Ryouta uguale guai’ era un’associazione mentale che ormai aveva imparato bene.
Dalla fine del liceo, Aomine e Kagami si erano trasferiti in America, condividevano un appartamento da coinquilini pur non essendo nessuno di loro due entusiasta della cosa e giocavano in due buone – e soprattutto diverse – squadre nel campionato di basket NBA; Akashi aveva preso in mano tutte le aziende di famiglia, le aveva sistemate e poi aveva iniziato a studiare psicologia, avrebbe dato l’ultimo esame un mese più tardi e perciò Midorima sapeva che anche solo provare a telefonargli quando era così sotto pressione voleva dire rischiare decisamente la vita; per finire, Murasakibara gestiva un piccolo minimarket vicino alla casa dei suoi genitori. Il biondo modello, invece, si era ri-trasferito a Tokyo circa cinque anni prima per il suo lavoro di attore e aveva a tutti i costi voluto mantenere i rapporti con lui e con l’unico altro ragazzo rimasto in città, ossia…
L’auto gli segnalò una nuova chiamata.
“Kuroko.” ringhiò in ammonimento il verde nell’accettare la telefonata, “Perché diamine continui a farti coinvolgere da Kise in queste cose?”
Perché conosce il mio indirizzo, Midorima-kun. Continua a presentarsi alla mia porta non invitato e tu sai che non sono capace di abbandonare gli animali.
Sia il verde che l’azzurro ignorarono l’offeso “Ehy!” in sottofondo.
“Cosa vuole, questa volta?” chiese il medico sforzandosi di non riattaccare in faccia anche all’azzurro. Negli anni dopo le superiori, Kuroko era stato davvero un appoggio per lui quando aveva passato dei brutti periodi; erano anche stati coinquilini nel periodo dell’università, quando il fantasma studiava pedagogia preparandosi a diventare insegnante d’asilo e lui passava la sua vita sui libri pur di laurearsi in fretta. Tetsuya si era praticamente preso cura di lui tutte le volte che si riduceva in stato comatoso dopo gli esami, lo aveva trascinato fuori per impedire che prendesse anche il colore della carta dei suoi tomi e ogni tanto lo aveva fatto ridere, insegnandogli che comunque bisognava andare avanti nonostante le difficoltà. Non l’avrebbe mai ammesso, ma l’azzurro era diventato per lui un grande amico.
Karaoke.” Kuroko disse solo e persino nella sua voce apatica si poteva sentire una sfumatura lugubre e tombale.
Midorima riattaccò.
Karaoke?! Lui?! Mai!
 
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“Perché?!” chiese solo, fulminando Kuroko con gli occhi, dall’alto dei venti centimetri che li separavano, non appena questi gli aprì la porta.
“Perché altrimenti darò a Kise-kun il tuo indirizzo e mi permetto di farti notare che avrei tutto da guadagnarci dal momento che lui si ostinerebbe molto più su di te che su di me.” rispose l’azzurro prendendo la propria giacca dal gancio accanto all’entrata e uscendo sul pianerottolo.
Immediatamente dietro di lui, il biondissimo Kise saltò fuori dall’appartamento cercando di prendere il verde impreparato e di abbracciarlo, ma questi sollevò la propria valigetta – portata appositamente allo scopo di picchiare il modello – e lasciò che l’amico vi schiantasse la faccia contro.
Sospirò e si sistemò gli occhiali sul naso. Sarebbe stata una luuuuunga serata.
 
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Shintarou non beveva, davvero. Per questo non aveva idea del perché avesse ordinato una birra e ora fosse con il mento sul bancone di un bar e stesse giocando con uno dei cinque bicchieri vuoti davanti al suo viso. Era riuscito a scamparsi il karaoke rifiutandosi categoricamente e ottenendo il sostegno di Kuroko, ma Kise li aveva quindi trascinati in un locale dando loro degli hikikimori.
Il verde fece passare ancora il dito sul bordo del bicchiere, cercando di ricordare altro.
Ah, giusto! A metà del tragitto verso il locale avevano incontrato un ragazzo. Un ragazzo con i capelli neri lunghi alle spalle e gli occhi grigi. A lui era quasi venuto un colpo e si era accorto di stare per correre verso lo sconosciuto solo quando aveva sentito la mano del fantasma stringergli il polso. La sua voce apatica era stata chiara: “Non è lui, Midorima-kun.” E Shintarou si era sentito un idiota. E aveva ordinato una birra. Poi una seconda. Poi una terza. Kise gli aveva detto che non avrebbe dovuto esagerare visto che non era abituato. E lui ne aveva ordinate altre due.
Non era ubriaco, era ancora lucido abbastanza da capire tutto ciò che succedeva accanto a lui, ma era brillo abbastanza da dire esattamente quello che pensava senza preoccuparsi della solita maschera di alterigia.
“Kuroko, perché io e te non siamo mai andati a letto insieme?”
Kise sputò la birra che aveva in bocca, nel sentire quella domanda, quindi si voltò verso il verde, seduto tra lui e l’azzurro che ora lo fissava con confusione.
“O Kise.” continuò Midorima sistemandosi gli occhiali, “Perché non sono mai andato a letto con Kise?” Poi ci pensò bene. “Ah, perché è fastidioso. Ma tu non lo sei, quindi perché non sono mai venuto a letto con te, Kuroko?”
“Da dove viene questa domanda, Midorimacchi?” chiese Kise, a metà tra l’imbarazzato e il divertito.
“Pensate che sia stata la Teiko?” continuò il verde ignorandolo, “Voglio dire, sei giocatori su sei sono usciti da quella scuola gay, non può essere una coincidenza. Magari è colpa degli allenamenti: ci costringevano a stare sempre assieme senza darci tempo di frequentare delle ragazze quindi forse i nostri cervelli hanno concluso che se non ci fossimo rivolti ai maschi non avremmo mai potuto sfogare i nostri istinti più bassi…”
Kuroko e Kise si scambiarono un’occhiata da sopra la schiena del loro amico, ancora sdraiato sul bancone.
“Midorima-kun,” chiese quindi il primo mentre il secondo prendeva un altro sorso di birra, “mi permetto, per ragioni professionali, di chiederti: quando è stata l’ultima volta che hai avuto un rapporto sessuale?”
Per la seconda volta nella serata, Kise sputò la birra che aveva in bocca.
“Kurokocchi, per qualche motivo la tua esagerata educazione rende il tutto ancora più imbarazzante…” commentò, pulendosi le labbra con un fazzolettino, ma gli altri due lo ignorarono.
“Che cosa avrebbe a che fare, professionalmente parlando, la mia vita sessuale con un maestro d’asilo?” chiese Shintarou, sorpreso.
Kuroko sorrise appena.
“Beh, devo prendermi cura dei miei bambini…”
Kise scoppiò a ridere e Midorima si lasciò scappare un ‘Fanculo’, ma sorrise anche lui.
 
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Il mattino dopo, Midorima aveva un leggero mal di testa e la sensazione che la sua vita sarebbe stata molto più semplice se avesse eliminato quello stesso Kise che lo aveva svegliato alle sei di mattina con il messaggio: “Midorimacchi deve a me una birra, a Kurokocchi un regalo enorme – come minimo – e a se stesso una scopata.
Sospirò, per l’ennesima volta quel giorno, quando finalmente riuscì ad entrare nel suo studio lasciando fuori alle sue spalle l’infermiera rossa. Si sistemò gli occhiali sul naso, si sedette sulla sua sedia, dietro la sua scrivania, e meditò di farle incontrare il suo amico modello: se solo Kise fosse stato etero, si sarebbe liberato di due piccioni con una fava – avvelenata, possibilmente – ma purtroppo il biondo sapeva rivelarsi inutile anche in quel genere di situazioni.
Accese il computer e questo, per prima cosa, gli mostrò un luminoso promemoria pieno di smiles, emoji, faccine e disegnini di palloni da basket. Una scritta lampeggiante diceva: Midorimacchi, tra una settimana c’è il raduno dell’ex Generazione dei Miracoli, non dimenticarlo!
“Kise, io ti ammazzo…” ringhiò, tra sé e sé, mentre cancellava l’impegno dall’agenda con gesti bruschi e quasi violenti. Come diavolo era arrivato al suo computer, quel maledetto?!
Come ebbe cancellato il post, scoprì che Ryouta gliene aveva impostati almeno altri quindici, sparsi sui giorni che mancavano all’appuntamento, avendo cura di metterli in diversi orari per essere certo che lui ne vedesse almeno uno.
Era a metà del lavoro di distruzione quando la rossa si affacciò alla porta chiedendogli se desiderava un caffè. La ignorò e continuò a cancellare quegli inviti obbrobriosi come se così facendo potesse eliminare dalla faccia della Terra anche il loro creatore.
 
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Dopo aver cancellato tutti gli avvisi ed aver finito il proprio turno, mentre usciva dall’ospedale aggiustandosi gli occhiali sul naso, Shintarou decise che Ryouta aveva avuto ragione su di una cosa e una soltanto nella sua vita: Midorima doveva a sé stesso una scopata.
A Kuroko non aveva risposto, la sera prima, perché sarebbe stato davvero troppo umiliante ammettere che la sua ultima notte di fuoco risaliva a quando era ancora al liceo, otto anni prima. L’azzurro usava dirgli che non era in grado di lasciare andare il passato e probabilmente aveva solo e soltanto ragione, ma lui era deciso a cambiare. Aveva chiesto il giorno successivo di ferie perciò quella serata se la sarebbe regalata.
Prese il cellulare, pronto a chiamare Tetsuya per dirgli la novità ma poi ci ripensò. Voleva una serata solo per se stesso.
Così, si risolse a mandare un messaggio in cui avvisava l’amico di essere deciso a porre fine ai suoi giorni da hikikimori e poi salì in macchina e si diresse senza fare fermate al locale dove si era fatto ingenuamente trascinare da Kise al suo ultimo compleanno: la serata era finita disastrosamente quando lui aveva creduto di vedere…qualcuno che conosceva al di là del bancone e aveva perciò trascinato tutti fuori di corsa. Kuroko lo aveva guardato con la sua solita espressione vuota, ma grazie al cielo non aveva detto niente. Adesso Midorima era deciso ad affrontare tutti i propri fantasmi e lo avrebbe fatto proprio di fronte al sosia del suo ex.
 
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“Takao!” ruggì appena si voltò verso l’entrata della palestra e riconobbe la sagoma nel rettangolo della porta, “Sei in ritardo!”
Era pronto ad una battutina dell’amico, quindi stava già caricando il braccio per colpirlo, ma Kazunari non disse nulla. Entrò in palestra silenzioso come non era mai stato, nemmeno da addormentato – parlava nel sonno, Midorima aveva potuto tristemente appurarlo molte volte ai campi estivi della squadra –, e per questo il verde sentì uno spiacevole brivido corrergli giù lungo la schiena.
D’istinto, strinse la mano sul suo oggetto fortunato del giorno, un biberon vuoto.
“Shin-chan…” la voce di Takao era bassa e tremula, i suoi occhi sgranati sul nulla quando gli arrivò di fronte, “Ho…ho fatto un casino…”
Shintarou esitò. Provò ad allungare le braccia verso le spalle del fidanzato ma questi indietreggiò di botto.
“Non… Non farlo, Shin-chan…” mormorò anche, “È già difficile così… Shintarou.”

 
Midorima chiuse gli occhi e sbatté la fronte contro il volante. Erano ormai dieci minuti che se ne stava lì, in macchina, di fronte al locale, con il risultato che ormai erano le sette e un quarto e che lui stava morendo di fame e di vergogna. Non riusciva proprio a gettarsi in quel locale e rischiare di essere sopraffatto da un ricordo che riusciva a gestire a malapena anche nell’abitacolo sicuro di quell’auto.
Attese ancora. Si fecero le sette e mezza. Si diede dell’idiota e rimise in moto. Fece retromarcia e si era appena immesso in strada quando vide un pallone arancione ben conosciuto passare come un razzo di fronte alla sua auto. Frenò di botto, scese e si gettò di corsa verso lo spazio tra due macchine parcheggiate dal quale la palla era uscita. Perché se da lì era passato il pallone, allora novantanove su cento…
Un bambino sbucò dallo spazio angusto appena un secondo prima che Midorima lo raggiungesse e il verde dovette voltarsi e piegarsi verso il centro della strada per afferrare il piccolo per la vita con un braccio e fermarlo prima che, per correre dietro alla sua palla, si gettasse nell’altra corsia. Un’auto grigia proveniente dall’altra direzione colpì in pieno il pallone, facendolo rimbalzare in alto e incastrarsi tra i rami di uno degli alberi piantati nel marciapiede.
Shintarou fissò la scena per un attimo, sgomento e con il fiatone, prima di realizzare veramente il peso del corpicino tra le sue braccia.
Il bambino iniziò a tremare e dopo un attimo nascose il viso nella sua spalla e iniziò a singhiozzare come un disperato prima ancora che Midorima potesse guardarlo per capire se stesse bene e sgridarlo come meritava per la sua incoscienza, ma alla fine il verde decise di lasciar stare e si limitò a sistemarselo meglio in braccio posandogli una mano sulla testolina piena di capelli neri per calmarlo.
“Va tutto bene…” si ritrovò a dirgli, facendo un cenno con la testa all’uomo che aveva investito il pallone e che si era fermato immediatamente, scendendo dall’auto per controllare l’accaduto.
Il verde attraversò la strada, mise giù il bambino sul marciapiede, quasi sotto al ramo che ora teneva in ostaggio la sua palla, e gli intimò di restare lì mentre lui tornava alla sua macchina. Mentre metteva in moto e parcheggiava su un lato della carreggiata, Midorima si accorse di avere il cuore che ancora batteva all’impazzata. Un flash di quello che sarebbe potuto accadere lo travolse e lui si passò una mano sul viso sospirando pesantemente. Quando uscì dalla macchina e attraversò di nuovo la strada per tornare dal bambino, dentro di lui era rinata la determinazione a strapazzarlo parecchio per la sua sciocchezza, ma di nuovo fu bloccato.
Il piccolo gli dava le spalle e teneva la testa così piegata verso l’alto che avrebbe potuto far rivoltare tutto il corpicino all’indietro. Midorima si avvicinò e notò che il bambino non doveva avere più di otto anni, aveva due bellissimi occhi di un verde molto luminoso e non stava più piangendo. Tirava su col naso e stringeva i pugni che ogni tanto si passava sul viso, ma non singhiozzava né diceva nulla e si limitava a fissare il suo tesoro, ormai fuori dalla sua portata.
“Dovresti essere contento,” disse Shintarou, burbero, aggiustandosi gli occhiali sul naso, “potevi esserci tu su quel ramo, a quest’ora.”
Ne dubitava fortemente, ma spaventare un pochino quel piccolo forse avrebbe fatto in modo che questi non rifacesse mai più una sciocchezza simile.
“Era del mio papà.” mugugnò invece questi, apparentemente senza neanche aver ascoltato le parole del suo salvatore.
Midorima se ne sentì profondamente irritato, ma poi alzò gli occhi verso il pallone da basket. Non avrebbe dovuto farlo e lo sapeva, ma alla fine il giocatore che era in lui ebbe la meglio sull’adulto responsabile e così allungò una mano verso il ramo e saltò come avrebbe fatto per tirare una tripla contro Kagami. Per le persone normali sarebbe stata un’altezza notevole, ma lui aveva un corpo lungo e atletico e si era allenato a saltare come un matto per battere quel dannato Saltapicchio del Seirin. Afferrò la palla con una mano e tornò giù con grazia accompagnato da qualche fogliolina verde, quindi guardò il bambino, che ora lo fissava con gli occhi enormi e un sorriso luminoso e speranzoso sulle labbra.
Shintarou aveva pensato di minacciare di non ridarglielo, ma non ne ebbe cuore e semplicemente glielo restituì.
“Fa’ più attenzione, la prossima volta.” ammonì comunque, aggiustandosi gli occhiali sul naso con una spinta del dito indice, “Se il pallone ti finisce in strada, lascialo andare piuttosto, ma non corrergli mai dietro.”
Il bambino strinse il pallone tra le mani e mise su il broncio.
“Ma era del mio papà.” ripeté, come se quello giustificasse tutto.
Shintarou alzò gli occhi al cielo, ma si piegò in avanti posandosi le mani sulle ginocchia.
“Sì, ma anche tu sei del tuo papà, giusto?” provò a dire, “E cosa pensi sia più importante per lui: tu o la palla?”
“Io!” esclamò subito il piccolo, chiaramente offeso dal paragone, e Midorima non poté fare a meno di sorridere.
“Bravo, quindi stai attento.” E mentre lo diceva gli scompigliò i capelli, perché quel piccolo gli stava simpatico. Poi si decise a tornare con i piedi per terra. “A proposito, dov’è il tuo papà?” chiese, guardandosi attorno con sorpresa dal momento che nessuno sembrava essere accorso dal piccolo. Se proprio non era in grado di sgridare il figlio, il verde era più che certo di essere assolutamente pronto a fare una lavata di capo al padre.
Il bimbo, con assoluta innocenza, si voltò e indicò il locale dentro il quale Midorima stava per entrare.
“Lavora.” disse poi abbassò uno sguardo sognante sul pallone, “Se finisce presto, viene a giocare con me.”
Shintarou esitò. Un bambino non avrebbe dovuto avere degli occhi così malinconici. Un sospiro scappò dalle sue labbra mentre scompigliava le ciocche color pece del piccoletto.
Stava per dirgli qualcosa, nemmeno lui era certo di cosa, quando una voce isterica gli fece rialzare gli occhi verso l’altro lato della strada, sul vicolo in cui si apriva la porta posteriore del locale incriminato.
“Che cosa vuol dire che l’hai perso di vista?!”
Un uomo dai capelli neri abbastanza lunghi, legati in una coda dietro la testa, dava le spalle alla strada per fronteggiare un altro tizio, un castano dall’espressione abbastanza indolente che stava scrollando le spalle.
“Oh oh.” commentò il bambino e Midorima quasi sobbalzò quando questi gli afferrò una mano, andando a nascondersi per metà dietro la sua gamba, “Avevo promesso a papà di non giocare in strada.”
“E invece l’hai fatto, eh?” intuì il verde, per poi sospirare sotto l’occhiata supplice che gli fu rivolta. Sentendosi trascinato dentro qualcosa in cui non c’entrava niente, Shintarou si sistemò gli occhiali sul naso, prese il marmocchio in braccio e guardò attentamente da entrambi i lati della strada prima di attraversare, tanto per dare il buon esempio, quindi si avvicinò al punto dove i due uomini stavano ancora discutendo. Il moro, che probabilmente era il famoso ‘papà’, sembrava isterico e si passava una mano nei capelli mentre continuava a inveire contro l’altro e a dargli dell’incosciente facendo muovere gli occhi dalla porta per il locale alla mancata babysitter, probabilmente incerto su cosa fare.
“Chiedo scusa.” intervenne Midorima. Il castano fu il primo a vederlo arrivare e a notare il piccoletto che gli stava tra le braccia, infatti rilassò notevolmente le spalle. A giudicare dalla mano che il moro gli teneva stretta sulla maglia, subito sotto la gola, doveva aver avuto una brutta visione del proprio futuro. “Credo che l’ometto qui sia vostro.” disse, incerto su come spiegare che il nanerottolo aveva rischiato di farsi investire.
Il moro si voltò. Aveva il viso più scavato, l’espressione più seria, i capelli più lunghi, ma gli occhi grigio-blu erano gli stessi di sempre, sebbene privi dell’allegria che lo aveva reso famoso al liceo.
“Shin…tarou?” mormorò, sgomento.
E lo sventurato rispose.
“…T-Takao?”
Midorima si pentì di aver pronunciato quelle sillabe non appena queste lasciarono la sua bocca. Perché lo bruciarono, lo carbonizzarono come null’altro avrebbe potuto fare, lo fecero a pezzi e lo lasciarono in terra come cenere in attesa di un qualsiasi vento che la portasse via dal suo focolare ormai spento. Aveva evitato accuratamente di pronunciare quel nome per tutti gli otto anni che avevano seguito la loro rottura e ora se l’era lasciato scappare come nulla fosse, come un eroinomane che per anni non toccasse un grammo ma poi si bucasse senza pensarci non appena si fosse ritrovato una dose in mano: tutto l’allenamento nel dimenticarlo, i kilometri in macchina per scappare dai ricordi, le serate con Kuroko e Kise per convincersi che poteva andare avanti anche da solo, tutto inutile, solo tempo sprecato.
“Papà!”
Shintarou sobbalzò nel sentire la voce del bambino e lo mise giù in fretta, quasi scottato. Lo guardò correre verso Kazunari, che si inginocchiò a terra per lasciare che il figlio gli circondasse il collo con le mani e quindi poterlo stringere forte a sé, ad occhi chiusi, ripetendogli qualcosa a bassa voce. Li guardò assieme e la realtà lo colpì allo stomaco come un pugno, come il ricordo che gli invase la testa.
 
“Shin-c…tarou. Shintarou, io…aspetto un figlio. Cioè, non io io. Aspetto un figlio da una ragazza. Cioè lei aspetta un figlio da me. Cioè, è nato questa notte. Me l’ha detto adesso, sono andato a vederlo. Shintarou, io… io non posso voltare le spalle e andare via così. Non posso. Scusami.”
 
“Papà, quel signore mi ha salvato! E mi ha ripreso il pallone!”
Midorima fu strappato al passato dal ditino teso verso di lui. Takao-chan lo stava indicando a suo padre con un gran sorriso sulle labbra.
“Ah sì?” chiese Takao-san raddrizzandosi con il figlio tra le braccia e azzardando un’occhiata all’ex, poi sembrò realizzare veramente le parole del piccolo e sul suo viso si dipinse un’espressione sgomenta, “Che è successo?!”
Shintarou non era mai riuscito ad immaginarsi Kazunari in formato padre, per quanto dopo la notizia ci avesse provato, ma in quel momento seppe una cosa con certezza: avrebbe dato di matto.
 
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Midorima sentiva che c’era qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui se ne stava rigidamente seduto al bancone del locale, fissando Takao-chan che disegnava con attenzione una palla da basket incastrata nei rami di un albero – il pennarello tenuto in modo improponibile nella manina e la lingua tirata di fuori ad un angolo nella bocca, tenendo tutto il corpo piegato sul foglio come per provare ad entrarvi dentro –e aspettando che l’altro Takao finisse di servire un tavolo di clienti per tornare da loro. Non che gli spiacesse l’allontanamento dell’adulto: non era mentalmente pronto ad avere a che fare con lui, non ancora, e per di più Kazunari era furibondo con il suo collega per aver perso di vista sua figlio, con il bambino per essersi quasi fatto investire e con se stesso per non essere stato lui quello presente per evitare il disastro. Nessuno dei due era proprio dell’umore perfetto per discutere del passato.
Shintarou si chiese perché avesse accettato di entrare e di sedersi, perché avesse ceduto alla richiesta di Kazunari di aspettarlo e parlare e soprattutto perché il fato lo avesse preso in odio a quel modo, sbattendolo in una situazione simile.
Era perché aveva smesso di seguire Oha Asa? Aveva rinunciato a credere nei suoi oggetti fortunati la sera in cui Takao si era presentato a dirgli che lo lasciava per diventare padre e lui aveva realizzato che il suo oggetto fortunato della giornata era un fottutissimo biberon. Il giorno dopo aveva fracassato la sua sveglia contro il pavimento quando si era accesa sull’oroscopo del mattino.
Scosse la testa, non poteva essere per quello, ma allora per cosa? Poi capì: quello in cui aveva tentato di andare, quello in cui era in quel preciso istante, era un locale che gli aveva fatto conoscere Kise. Dannazione, doveva aspettarselo che qualsiasi cosa collegata al modello sarebbe finita in un disastro, era matematico!
Aveva appena finito di promettere a sé stesso che avrebbe ammazzato il biondo quando Takao padre comparve dietro il bancone con un’espressione stanca.
“Scusate.” disse, poi abbassò gli occhi sul figlio e gli rivolse un luminosissimo sorriso, “Peste, va’ in cucina a finire il tuo disegno, così Sanae ti dà qualcosa per cena, okay?”
Il piccolo sorrise e annuì prima di partire correndo come un matto, pieno d’energie.
Midorima fissò l’orologio che aveva al polso. Segnava le otto e mezza, ormai.
“Non è un po’ tardi per farlo cenare?” chiese, un po’ incerto perché non era mai stato un esperto di bambini.
Takao sospirò.
“Faccio quello che posso.” disse solo, forse un po’ sulla difensiva, perciò Midorima si affrettò ad annuire.
“Certo.” concesse, ma poi non seppe cosa aggiungere e rimase in silenzio.
A sorpresa, Takao non sembrava più ciarliero di lui, anzi. Spostava gli occhi sugli oggetti, puliva bicchieri, metteva a posto spicchi di frutta e cucchiaini, qualsiasi cosa pur di non incrociare il suo sguardo. E Shintarou ne era spaventato, perché, Kazunari, così, lui non l’aveva mai visto.
Non sapeva cosa fare, perciò fece finta di niente e allungò la mano verso una ciotolina sul bancone. Prese senza nemmeno guardare e fu sorpreso quando, nel mordere, scoprì di aver afferrato un fagiolino crudo. Lo mangiò lo stesso, fingendo noncuranza nonostante lo sguardo sorpreso che Takao gli rivolse, e ignorò lo squittìo quasi plastico che la buccia del baccello produceva a contatto con la dentina.
“Sei qui per una botta e via, Shintarou? Non l’avrei mai detto…”
A Midorima andò di traverso il fagiolino e lui iniziò a tossire come un dannato, costringendo Takao a dargli pacche sulla schiena e a portargli in fretta un bicchiere d’acqua. Poteva essere grato che il baccello fosse piccolo, altrimenti ci sarebbe rimasto secco. Quando ebbe recuperato la voce, fissò il moro con sgomento.
Quest’ultimo sbatté le palpebre un paio di volte, confuso, ma poi indicò la ciotola dei fagiolini.
“Ufficiosamente, la regola del locale è che chi mangia questi vuole segnalare agli altri clienti che è libero e cerca compagnia senza troppe pretese…” spiegò, solo per poi scoppiare a ridere, incapace di trattenersi, quando Midorima divenne bordeaux per l’imbarazzo. “Oh, santo cielo, sei sempre il solito!”
Il verde pensò di replicare con un ‘Tu no’, ma poi si trattenne. Non voleva comportarsi da immaturo, era passato tanto dall’ultima volta che si erano visti e al di là delle circostanze non gli andava di rovinare il momento.
Così ciò che uscì dalle sue labbra fu un “Tu come stai?” mentre le sue dita, di nascosto, digitavano sul suo cellulare un ‘Sei morto’ e lo inviavano a Kise Ryouta.
Kazunari scrollò le spalle, ma i suoi occhi si abbassarono di nuovo sul bicchiere tra le sue mani, quello che stava pulendo.
“Non mi lamento.”
“Non mi è sembrato così mentre strapazzavi il tuo amico.” commentò Midorima prima di fare un cenno con la testa verso il castano intento a pulire i tavoli, “Chi è?”
“A parte un cretino?” chiese Takao, astioso, ma poi sospirò prima di rispondere, “Nessuno di particolare. È che fa sempre i turni con me: in realtà non potrei portare il piccoletto qui, perciò io copro anche la sua parte e in cambio lui me lo tiene d’occhio. In teoria.”
Midorima sgranò gli occhi, scioccato.
“Cioè tu fai anche il suo lavoro? E lui viene pagato?” chiese, irritato.
Takao scrollò le spalle.
“Dovrei comunque pagare qualcuno per tenere il bambino, quindi…” lasciò la frase in sospeso, ma Midorima non era affatto soddisfatto dalla risposta.
Nonostante la sola idea di sentire la risposta lo stesse bruciando dentro, si costrinse a chiedere.
“Sua madre dov’è?” Non sapeva il nome della ragazza, non lo aveva mai saputo né mai voluto sapere. Aveva tagliato tutti i ponti con Takao dopo la scelta di quest’ultimo: non per cattiveria, semplicemente perché a quel modo sarebbe stato più facile per tutti e due andare avanti e ricominciare da capo. Che lui poi non l’avesse fatto, era tutta un’altra storia.
Kazunari lanciò un’occhiata alla porta della cucina dove suo figlio era svanito prima di sospirare.
“Sei mesi fa sono andato nell’Hokkaido per un lavoro.” spiegò, “Ci dovevo rimanere quattro settimane ma alla terza lei…ha smesso di rispondere alle telefonate. Prima la chiamavo almeno una volta al giorno per sentire il bambino, ma all’improvviso basta, niente più notizie. Ho pensato che un giorno poteva succedere che non potesse rispondere, ma poi i giorni sono diventati due, tre, quattro e al quinto non ho retto e sono tornato qui. Solo per scoprire che lei aveva fatto le valige e se n’era sparita nel nulla lasciando il bambino solo a casa e che gli assistenti sociali erano venuti, avevano provato a contattarmi ma non avevano trovato neanche un numero in casa, avevano pensato fossi sparito come lei e quindi avevano portato via mio figlio. I nostri vicini di casa, quelli che avevano fatto la denuncia per abbandono di minore, avevano chiesto di adottarlo.”
Midorima era…scioccato. Quella…quella….quell’essere gli aveva portato via Takao e poi aveva osato piantare in asso lui e il bambino?! Che cosa?!
“Sapevo che aveva un altro, le avevo detto che non era un problema fintanto che fosse stata attenta a non farsi vedere dal piccolo, ma evidentemente ha preferito andarsene con lui.” concluse il moro, scrollando le spalle.
“Takao.” la voce di Midorima era mortalmente seria, come quando al liceo era sul punto di picchiarlo, e l’interessato indietreggiò d’un passo d’istinto, “Chiudi quella bocca prima che perda la pazienza definitivamente.”
“Gomen, gomen!” si affrettò a dire, ridacchiando, Takao, ma prima che potesse dire qualcos’altro una grossa donnona si sporse dalla cucina.
“Kazunari!” chiamò, con un vocione profondissimo, “Il marmocchio si è addormentato, sbrigati a venirlo a prendere prima che accendino la musica e lo sveglino di nuovo.”
“Arrivo, Sanae!” assicurò Takao facendole un cenno della mano e Midorima, mentre teneva gli occhi sulla porta da dove la donna era sbucata e sparita, si immaginò il piccoletto e realizzò di non sapere una cosa.
“Come si chiama?” chiese, senza distogliere lo sguardo da quel punto perché non aveva la forza di guardare Takao mentre scopriva il nome di suo figlio.
Il moro non rispose e il verde pensò di non essere stato udito.
“Shin-chan…”
Midorima si voltò quando sentì la voce di Kazunari chiamare il suo nomignolo, così bassa e carica di disperazione da non sembrare la sua, ma questi abbassò gli occhi di nuovo sul proprio lavoro.
“Che c’è?” chiese, confuso.
Takao ridacchiò appena, ma scosse la testa. Dopo un attimo rialzò gli occhi sul bancone cui Midorima stava appoggiato e indicò le sue mani.
“Non ti fasci più le dita?” chiese.
Shintarou faticò per resistere alla tentazione di nasconderle infilandosele in tasca.
“Non gioco più quindi non serve.” spiegò, scrollando le spalle, “Per di più, sono sempre al lavoro: se tutte le volte dovessi perdere tempo per fasciarmi e sfasciarmi le bende, perderei un paziente su due.”
Takao rise un poco alla battuta e annuì.
“Immagino.” Piegò un po’ la testa di lato, “E Oha Asa? Niente oggetto fortunato del giorno, oggi?”
“Sono solo sciocchezze da bambini, quelle.” ribatté Midorima, forse in modo in po’ troppo brusco, ma non poté farne a meno. Non voleva dire a Takao che era colpa sua se lui aveva smesso di credere nell’oroscopo, nel fasciarsi le dita, nella fortuna. Perché se il Fato fosse davvero esistito, lui e Kazunari sarebbero stati destinati a rimanere insieme e così sarebbe stato, senza che una dannata scopata fatta cinque mesi prima che loro si mettessero insieme potesse separarli a quel modo. Puttana la strega che aveva detto a Kazunari di essere incinta solo al giorno del parto.
Takao sgranò gli occhi nel sentire il verde parlare a quel modo del suo prezioso oroscopo, ma poi non osò commentare e si limitò ad un ‘capisco’.
Shintarou, di suo, si accorse di aver esagerato e si aggiustò gli occhiali sul naso.
“Che mi dici degli assistenti sociali?” chiese, “Ti hanno restituito il bambino?”
Kazunari esitò.
“Ci stiamo lavorando. Mi terranno d’occhio ancora per un po’.” ammise, poi però, forse involontariamente, il suo tono si indurì come la sua presa su un bicchiere, “I nostri ex-vicini continuano a dire che non sono mai stato un buon genitore, che finirò per rovinare la vita a mio figlio e che lui starebbe molto meglio con loro.”
Per qualche strano motivo che non aveva intenzione di indagare, Midorima dubitava della veridicità di quelle affermazioni. Kazunari aveva mollato la scuola pur di star dietro al bambino, sicuramente non era il miglior genitore del mondo e la stabilità se la poteva solo sognare di notte, ma lui era certo che amasse suo figlio profondamente.
“Andrà bene.” si scoprì a dire, sospirando e alzandosi dal suo sgabello perché stava tutto diventando decisamente troppo…pesante…perché lui lo sopportasse. “Devo andare.”
Takao lo osservò voltarsi e iniziare ad andarsene.
“Ciao, Shintarou.” gli gridò appena dietro.
Midorima rispose con un cenno della mano, senza voltarsi indietro, e uscì dalla porta del locale. Aveva appena raggiunto la sua auto che il cellulare nella sua tasca squillò. Già che non era ancora partito, decise di rispondere subito e così si portò il telefono all’orecchio senza leggere il mittente.
Non stai facendo quello che noi pensiamo tu stia facendo, vero Midorimacchi?!” la voce di Kise venne interrotta da uno strano rumore in sottofondo, come di lotta, e la sorpresa per questo impedì al verde di riattaccare.
“Che succede?!” chiese quando il rumore fu finito.
Non ascoltare Kise-kun, Midorima-kun.” la voce di Tetsuya era calma, ma in sottofondo si sentiva ancora il piagnucolare del biondo, “Possiamo sapere dove sei e cosa sta succedendo?
“Perché vi interessa?” chiese lui in risposta, sospettoso.
Perché a me hai detto che ti aspettava una serata interessante e poco dopo hai mandato a Kise-kun una minaccia di morte: siamo un po’ preoccupati.
Midorima aggrottò la fronte.
“Giusto per sapere,” osò, ignorando la voce che gli strillava che ‘meno sapeva, meglio stava’ “cos’è che voi pensate io stia facendo?”
Non lo vuoi sapere davvero, Midorima-kun.” replicò il fantasma, “Dove sei ora? Hai bisogno di una mano?
Shintarou sospirò, mentalmente esausto, prima di iniziare a frugare nelle proprie tasche e scuotere la testa.
“No, nessun problema, sto tornando a casa.”
… Midorima-kun, è successo qualcosa? La serata è andata male?
Il verde si era aspettato di essere scoperto, ma non riuscì a rispondere lo stesso.
“Diciamo che non ho voglia di…” si fermò. Tastò meglio le tasche. Controllò ancora e ancora e ancora, ignorando i richiami di Tetsuya all’altro capo del telefono. Alla fine imprecò. “Ho lasciato le chiavi della macchina nel locale, devono essermi cadute quando mi sono seduto.”
L’importante è che tu non le abbia perse. Se ti serve una mano, comunque puoi chiamarci.” commentò Tetsuya mantenendosi serafico come al solito.
Shintarou chiuse in fretta la chiamata e tornò indietro di corsa. Doveva fare in fretta così non avrebbe perso tempo inutile a contemplare qualcosa che aveva a malapena assaggiato e perso da ragazzo e che mai avrebbe avuto in futuro.
Andava così di fretta che attraversò il locale in un lampo, solo per arrivare al bancone in tempo per vedere Takao che consolava suo figlio, in lacrime con il suo disegno tra le mani.
“Su non fare così…” stava dicendo, “Non piangere, Shin-chan…”
 
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“Permettimi di riassumere. Per caso, questa sera hai deciso di darti alla folle gioia in un locale, ma quando sei arrivato hai cercato di tirarti indietro. Per caso, hai salvato un bambino che stava per essere investito e che si è scoperto essere il figlio di Takao-kun che, per caso, lavora proprio nel locale dove volevi andare tu. Avete parlato, lui ti ha detto che la ragazza per la quale ti aveva lasciato è svanita nel nulla e tu hai provato ad andartene ma ti sei accorto che, per caso, avevi dimenticato le chiavi dell’auto dentro, così sei rientrato e, per caso, hai scoperto che il tuo ex-fidanzato ha chiamato suo figlio con il nomignolo con cui chiamava sempre te.”
Midorima gemette nel sentire il resoconto dei fatti nella monocorde voce di Tetsuya, soprattutto perché nonostante la mancanza di emozioni riusciva a percepire un notevole sarcasmo nei continui ‘per caso’ usati dal fantasma.
Erano a casa di Kuroko. Lui era sdraiato sul divano a faccia in giù, gli occhiali abbandonati in una mano, mentre Kise se ne stava raggomitolato su una poltrona a fissarlo con espressione scioccata e il padrone di casa era seduto per terra a gambe incrociate di fronte alla sua faccia.
“Quello che non capisco è:” continuò l’azzurro, “com’è capitato che tu oggi hai telefonato a Takao-kun e ti sei offerto di tenergli il bambino mentre lui lavora?”
Midorima gemette.
“Per caso?” borbottò, un po’ offeso, ma nemmeno Kise rise alla battuta.
“Midorimacchi,” disse anzi, con tono preoccupato, “so di non dovermi immischiare, ma non vorrei ti facessi del male da solo…”
Kuroko annuì.
“Non glielo devi, Midorima-kun.” disse, serio, “Se ti fa star male, non devi sentirti obbligato a farlo.”
Il verde si voltò a pancia in su.
“Shin” disse, provando una strana sensazione nel pronunciare il nomignolo che era sempre stato suo immaginandolo sul corpo di un altro, “ha disegnato me che saltavo per prendergli il pallone. Voleva darmi il suo disegno, ma quando si è svegliato ero già andato via, per questo si è messo a piangere.”
Kuroko e Kise si scambiarono un’occhiata, prima che il biondo sospirasse.
“Midorimacchi, ci sei dentro fino al collo…” dichiarò.
Tetsuya non disse nulla, ma il modo in cui annuì fu decisamente troppo solenne per i gusti di Shintarou.
 
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Imbarazzo.
Fu l’unica parola che volteggiò nella testa di Midorima quando raggiunse il locale dove lavorava Takao e lo trovò lì fuori con la mano di suo figlio ben stretta nella sua. Non abbastanza per impedire, però, al piccolo di scappargli non appena questi vide il verde avvicinarsi lungo il marciapiede.
“Mido-san!” esclamò, aggrappandosi alla gamba di Shintarou prima che questi potesse anche solo pensare di fare qualcosa.
Il piccolo Shin indossava una giacchetta beige ma aveva una sciarpa rossa avvolta attorno alla gola, peccato fosse così grossa da coprirgli anche la bocca e il naso.
“Ha avuto la tosse tutta la notte.” spiegò Takao raggiungendoli a passo sostenuto. Le borse sotto i suoi occhi testimoniavano che era la verità.
Midorima annuì stringendo la mano di Shin mentre Kazunari gli sistemava la sciarpa in modo che potesse quantomeno respirare.
Il moro si rialzò, prese un profondo respiro e rivolse all’ex un’espressione apprensiva.
“Starete bene?” chiese, palesemente dubbioso.
Midorima sollevò un sopracciglio.
“Takao,” disse, con il suo solito tono di rimprovero che staccava un po’ la prima sillaba dalle altre, “non dire sciocchezze. Ce la caveremo benissimo.”
“Sì!” intervenne Shin, saltellando contento, “Ce la caveremo benissimo anche senza papà, vero Mido-san?”
Un lembo della sciarpa scivolò giù dalla spalla del bambino e Midorima si piegò per rimettergliela a posto. Quando si raddrizzò, scoprì di aver involontariamente preceduto un gesto di Takao e lo trovò intento a fissarlo come senza vederlo realmente. Dopo un attimo, il moro scosse la testa.
“D’accordo, state attenti.”
“Non scherzare, Takao.” lo riprese Shintarou dandogli le spalle, “Dovresti sapere che io non sbaglio mai.”
Kazunari lo fissò allontanarsi mano nella mano con suo figlio e, solo quando furono troppo lontani per udirlo, rise un po’.
“Sempre il solito tsundere…” commentò.
 
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Midorima scoprì che avere a che fare con il piccolo Takao era come avere a che fare con due Kazunari del liceo, in proporzione. Si ritrovò esausto non appena fu in grado di far addormentare il piccoletto – nel suo letto perché Shin non ne aveva mai visto uno all’occidentale, rialzato da terra e non posato sul pavimento come i futon, e lui non aveva avuto cuore di non lasciarlo provare –.
Chiuse piano la porta della propria camera e si diresse in salotto, dove si lasciò cadere sulla poltrona con un sospiro disperato.
Non era sicuro di potercela fare se quella fosse diventata la sua routine, ma ora che aveva passato una giornata intera con l’esuberantissimo Takao-chan la sola idea di lasciarlo di nuovo con un irresponsabile come il tipo che lo teneva d’occhio prima… Midorima provava il forte desiderio di investirlo con l’auto, tanto per fargli sperimentare la sensazione.
Il suo cellulare vibrò nella tasca e lui si affrettò a controllare il messaggio.
Da: Kuroko Tetsuya. Testo: A che punto siamo?
Midorima si affrettò a rispondere “Dorme.” ma poi la stanchezza ebbe la meglio ed aggiunse un “Grazie.
Quando si era reso conto di non avere l’esperienza per tenere d’occhio un bambino, Shintarou aveva scoperto le gioie dell’avere un amico maestro d’asilo: Shin aveva passato quell’età da un pezzo, ma Kuroko ne sapeva comunque più di lui ed era stato un aiuto prezioso per scoprire cosa fare per tenerlo occupato mentre lui gli preparava cena, cosa cucinargli, come convincerlo a mangiare, come far apparire interessante l’idea di lavarsi i denti e come metterlo a letto.
Il suo cellulare vibrò di nuovo, però due volte.
Il primo messaggio era di Kuroko: Figurati. Il secondo di Kise: Complimenti per essere sopravvissuto al tuo primo giorno di paternità, Midorimacchi!
Al primo non rispose nulla, al secondo si premurò di mandare un semplice e conciso ‘Muori’, poi gettò il cellulare sul comodino e la testa all’indietro contro la spalliera del divano.
Gli bastavano due minuti, davvero… Solo due…
 
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Il vibrare insistente del suo cellulare lo fece sobbalzare, strappandolo al sonno. Poi il pensiero – in realtà folle ma che la nebbia del risveglio faceva sembrare plausibile – che quel suono potesse svegliare anche Shin fece scattare Midorima verso il proprio cellulare, con tanta foga da cadere giù dal divano e finire in ginocchio per terra pur di portarsi in fretta l’apparecchio all’orecchio.
“Kise, razza di cretino!” sibilò il verde, pur tenendo la voce bassa, “Vuoi svegliare il bambino?!”
…Shintarou, devo chiedertelo, perché pensavi fossi Kise?
Midorima gemette.
Era a quattro zampe sul pavimento, nascosto dietro il divano con una mano sul bracciolo di quest’ultimo e la testa che spuntava per spiare la porta della sua camera da letto. Non esattamente una posa virile, ecco. Per di più, il suo ex, al cui figlio stava facendo da balia, gli aveva telefonato e lui lo aveva chiamato con il nome di un altro: perfetto.
“Takao,” ringhiò, con un po’ di sarcasmo, “razza di cretino! Vuoi svegliare il bambino?!” Forse poteva alzarsi in piedi… “Così va meglio?”
Kazunari rise piano.
Sono fuori dal portone di casa tua.” disse, mettendo da parte la questione, “Mi mandi giù Shin?
E Midorima non seppe cosa fare. Non voleva svegliare il bambino e mandarlo giù da solo, tanto più che il suo appartamento era all’ultimo piano e ciò implicava tredici rampe di scale senza ascensore –all’andata si era impietosito e aveva portato il nanerottolo in spalla-, ma non poteva lasciare Takao fuori…
“Sali un attimo.” decise alla fine, andando al citofono per aprire il portone.
Che male poteva fare? Era giusto una visita, ecco.
Shintarou attese sulla porta che un Takao un po’ fuori allenamento lo raggiungesse con il fiatone, quindi sollevò un sopracciglio.
“Acqua?” chiese.
Kazunari non rispose ma annuì vigorosamente e Shintarou gli fece strada verso il bancone bar che costituiva la cucina, subito dietro il divano, facendogli cenno di accomodarsi su uno degli sgabelli mentre lui passava dall’altra parte e gli riempiva un bicchiere.
“Che strana sensazione stare da questo lato.” scherzò Takao, prima di svuotare il bicchiere a grandi sorsate.
Shintarou non commentò, ma gli indicò la stanza dov’era Shin, perché potesse accertarsi che lui non lo avesse coperto di oggetti fortunati o altre cose strane, e approfittò di quel tempo per accendere il fuoco sotto la pentola di minestrina che lui e il piccolo avevano mangiato per cena.
“C’è solo questo, quindi accontentati.” borbottò al moro quando questi tornò al bancone, ignorando il fatto che Takao non avesse detto una parola.
“Shin…tarou devo andare, davvero.” provò a fermarlo il moro, ma il verde gli lanciò un’occhiata raggelante da dietro le lenti e lo mise a tacere.
Voltandosi di nuovo verso il brodo che si scaldava, Midorima realizzò una cosa.
“Quantomeno adesso che c’è il bambino, non puoi più chiamarmi con quel dannato nomignolo.” commentò, cercando di riempire il silenzio.
Takao scoppiò a ridere, forse un po’ troppo forte perché Shintarou si slanciò sul bancone per afferrargli la nuca con una mano e tappargli la bocca con l’altra.
“Ma sei scemo davvero, allora!” sibilò ad un soffio dal suo viso, “Ti giuro che, se lo svegli, ti distruggo.”
Takao sgranò gli occhi per un attimo, quindi i tratti del suo viso si addolcirono parecchio e i suoi occhi lanciarono al verde uno sguardo carico di gratitudine.
Midorima arrossì fino alla punta delle orecchie.
Ma non era colpa sua se quel bambino era adorabile! Era perfino riuscito a strappargli la promessa di insegnargli a tirare le sue incredibili triple dopo aver visto una foto di lui e Kazunari in partita, alle superiori. Certo, si era lasciato scappare un ‘Mido-san sembra un po’ una carota…’ ma si era fatto perdonare dandogli un sonoro bacio sulla guancia e lui non era riuscito a serbargli rancore.
“Mphintaphou…”
Midorima tornò al presente e si rese conto di avere ancora le mani sulla testa di Takao, che ora lo fissava un po’ seccato. Il verde stava per lasciarlo andare, ma il moro fece l’errore di provare a leccarsi le labbra troppo presto, così la sua lingua carezzò le dita di Shintarou, bloccandolo quando un brivido rovente partì dalle sue dita e gli trafisse il cervello liquefacendolo.
I due si scambiarono un’occhiata sorpresa, per quel gesto e per le reazioni che aveva suscitato in entrambi, quindi Takao tentò di tirarsi indietro, borbottando delle scuse sottovoce. Fu costretto a fermarsi quando la mano di Midorima sulla sua nuca strinse di più la presa sulle sue ciocche, impedendogli di allontanarsi.
Kazunari si trovò fermo, seduto su un alto sgabello e piegato leggermente in avanti, con il viso ad un soffio da quello bordeaux ma serio di Midorima, praticamente sdraiato sul bancone per avvicinarsi a lui.
“S-Shintarou?” chiese, esitante.
Midorima non era certo di cosa rispondere, ma alla fine il ricordo della presenza del bambino dietro la porta due metri sulla sua destra gli fece tornare un po’ di lucidità. Solo un po’.
“Diavolo.” imprecò tra i denti nel lasciare la presa sulla testa dell’ex per voltarsi, spegnere il fuoco sotto la pentola e poi aggirare il ripiano per avvicinarsi a Takao, che nel frattempo si era alzato in piedi con un’espressione confusa sul volto.
Midorima gli afferrò il viso e lo baciò, tappandogli la bocca prima che potesse fare domande.
Otto anni di incubi, di guerra mentale, di ore passate a fissare il cellulare per poi infilarsi sotto la doccia gelida ripetendosi di non avere il diritto di mettere piede nella famiglia che il moro si era costruito, di ore passate a fissare Kuroko mentre questi gli leggeva in faccia tutto il male che pativa, di serate con Kise che si fingeva ancora più irritante di quanto non fosse pur di distrarlo da sé stesso, di chiamate intercontinentali da Kagami e da Aomine e di altre più vicine da Akashi e Satsuki e Murasakibara e Otsubo e Miyaji e Kimura, di sogni a luci rosse sul moro dall’occhio di falco, di risvegli dolorosi e – per quanto gli costasse ammetterlo – di seghe insoddisfacenti; quegli otto anni gli attraversarono il cervello in un vortice confuso prima di sparire nel nulla, come se mai fossero accaduti o come se quel bacio avesse tolto un tappo, aperto una falla, che permetteva a quel dolore simile ad acqua nera di andarsene, salvando Shintarou dall’affogarvi dentro.
“Sh-…” provò a dire Takao appena Midorima staccò la bocca dalla sua ma si risolse a mordersi le labbra per non urlare quando questi si piegò e gli passò un braccio dietro alle ginocchia e uno dietro la schiena, prendendolo in braccio e affrettandosi verso la porta opposta a quella della camera di Shin, totalmente dall’altra parte dell’appartamento.
Per fortuna era aperta e a Shintarou bastò una spinta con il ginocchio per spalancarla ed entrare, arrivando a posare Takao sul futon nel centro di quella che appariva come una camera per gli ospiti prima di voltarsi e assicurarsi di chiudere a chiave. Non fosse mai che il piccoletto si svegliasse: era troppo piccolo per scoprire certe cose!
Quando il verde si voltò, Kazunari lo fissava da seduto sul futon, appoggiato all’indietro sui propri palmi e con le ginocchia piegate verso l’alto e ben aperte. Finalmente, Midorima poté rivedere nei suoi occhi una scintilla di quella provocazione un po’ irritante, quella malizia che Takao una volta sembrava portare sempre con sé.
“Non ho mangiato fagiolini.” mise subito in chiaro Shintarou nell’inginocchiarsi a terra tra le gambe del moro.
“Neanche io.” assicurò questi prima di incontrare di nuovo la bocca di Midorima e trascinarlo con sé verso il basso, sdraiandosi di traverso sul futon.
“Sarà meglio.” borbottò il verde, tra un respiro affannato e l’altro.
 
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Takao sapeva di liquirizia, esattamente come Midorima ricordava. Lo sapevano le sue labbra, lo sapevano i suoi lobi, lo sapeva il suo collo e il suo petto e il suo ventre. E di liquirizia sapeva anche il suo seme.
“M-M-M-…” Takao si morse il pugno per trattenere la propria voce e Shintarou si sentì profondamente orgoglioso di questo.
Dal momento che ora Shin-chan era il bambino, Takao non aveva più idea di come chiamare il suo amante e tutto ciò che riusciva a fare era gemere vergognosamente ogni volta che apriva la bocca. Dalla prospettiva del verde, ben sepolto tra le sue cosce, lo spettacolo era a dir poco ammaliante.
Quando la lingua di Midorima iniziò a risalire i suoi addominali e poi i pettorali, Kazunari pensò che sarebbe potuto morire lì e in quel preciso momento. Quando poi il verde lo fece gentilmente voltare a pancia in giù e passò un braccio sotto il suo ventre per aiutarlo a mettersi a quattro zampe, il moro capì che decisamente non sarebbe sopravvissuto alla notte.
“S-Se mi uccidi,” ansimò, cercando di ignorare con scarsi risultati la bocca di Midorima che si concentrava su un piccolo punto tra la sua scapola sinistra e il suo collo, “farai bene a…a…ah!...a prenderti cura di Shin-chaaaan…”
Midorima rise appena, staccandosi per passare una mano tra i capelli di Takao e toglierglieli dall’orecchio, così da potergli baciare gentilmente il lobo.
“Sappi che sono un disastro come padre…”
“Lo siamo tutti, all’inizio.” borbottò Kazunari, sottovoce, piegando le braccia per abbassare un po’ le spalle e inarcare la schiena, “E comunque te la sei cavata bene, stasera…”
Midorima sbuffò infilando due dita nella bocca del moro per fargliele leccare.
“Di’ pure che Kuroko se l’è cavata bene.” sussurrò sfilando la mano dalle labbra di Takao per portarla ad altri lidi.
E se anche Kazunari avesse voluto chiedere qualcosa, non ne fu in grado e la conversazione morì lì.
La conversazione.
 
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Takao sospirò pesantemente. Per fortuna Midorima era stato così attento che lui non avrebbe avuto problemi a camminare, altrimenti sarebbe stato difficile dare spiegazioni al piccolo Shin.
Shintarou strinse un po’ la presa del braccio che teneva sulla vita del compagno e usò quello che era stato il suo cuscino per reggersi la testa quando si raddrizzò e piegò un po’ avanti sul moro per controllare cosa avesse causato quel suono.
“Takao?” chiese, un po’ preoccupato ma pronto a tutto per non farlo vedere.
Kazunari sospirò di nuovo.
“‘Shin-chan’ ti stava così bene…” mugugnò.
“Mi rifiuto di sentirmi chiamare come tuo figlio in certe situazioni.” borbottò il verde, ma il moro fu rapido a seguirlo.
“Mi rifiuto di chiamarti come mio figlio in certe situazioni!” esclamò, pur tenendo la voce bassa dato che l’orologio analogico sul muro segnava le otto di Domenica mattina.
Shintarou annuì, serissimo, e Takao lo fissò.
“Shin ti chiama Mido-san, vero?” chiese mentre sul suo viso si apriva un ghigno malefico.
Midorima trovò più saggio non rispondere e riabbassarsi per fingere di tornare a dormire, ma il moro si girò nel suo abbraccio e gli regalò un ghigno soddisfatto.
“Mido-chan!” decise, “Che ne pensi, Mido-chan?”
“Penso che quando mi sarò riposato, ti ammazzerò, Takao.” dichiarò il verde, chiudendo gli occhi per non vedere il compagno, retto da un braccio solo, piegarsi su di lui, “Posso sempre usare Kuroko come baby-sitter e io e Shin-chan andiamo molto d’accordo.”
“Ah, Midorimacchi, sei davvero cattivo!”
A Midorima si accapponò la pelle nel sentire quell’imitazione ben troppo riuscita di Kise.
“Non lo fare.” ammonì, ma Kazunari scoppiò a ridere, senza comprendere il punto. “Davvero, Takao, non farlo: Kise ha il brutto vizio di apparire, se evocato.”
Il moro smise di ridere solo per lanciargli un’occhiata scettica, rovinata dalla piega assurda che le sue labbra stavano prendendo nel tentativo di trattenere un sorriso.
“…Mido-san?”
Entrambi gli uomini si voltarono verso la porta nel sentire la voce di Shin. Takao fece per alzarsi, ma Midorima lo fermò mettendogli una mano sulla spalla.
“Vado io.” disse, “Tu vestiti e datti una sistemata.”
L’occhiata che il moro gli rivolse fece arrossire Midorima, che però si ostinò ad alzarsi e a rivestirsi ignorandolo.
“Non sei costretto a farlo, Mido-chan.” provò comunque a dire Kazunari, “Lo so che è per lui che…”
“Tu prova a dare la colpa al bambino e farò in modo che ti ingoi le tue stesse interiora.” minacciò immediatamente il verde.
Takao sembrò sorpreso per un attimo, ma poi scoppiò a ridere e Midorima fu costretto ad uscire dalla stanza per non saltargli addosso di nuovo.
Appena si chiuse la porta alle spalle, quella della sua camera si aprì e il piccolo Shin apparve con un pugno chiuso intento a stropicciargli un occhio e l’enorme pinguino di peluche che lui e Midorima avevano scovato la sera prima mentre cercavano delle foto di Takao ai tempi del liceo. Quel pupazzo era grosso quanto il bambino e Shintarou faticò per non ridere di quella visione.
“Cosa succede, Shin-chan?” chiese.
Il bambino si guardò intorno, confuso, poi alzò sul verde i suoi occhi smeraldini pieni di lacrime.
“Papà…non è venuto a prendermi?” chiese, la voce un po’ tremante, “È…è andato via?”
Shintarou sgranò gli occhi a quella conclusione, ma poi ricordò cosa aveva fatto la madre di Shin e si affrettò a prendere il piccolo – e il pinguino – in braccio.
“Ma neanche per sogno!” assicurò, “Papà è arrivato tardi, così gli ho detto di dormire qui anche lui. Ho fatto bene?”
Shin annuì con tanta foga che il pinguino gli cadde e Midorima dovette afferrarlo al volo con la mano che prima aveva tenuto sul fianco del piccolo.
Mentre il verde restituiva al bambino il suo gioco, Takao emerse dall’altra stanza. Aveva ancora i capelli che erano un disastro, ma per il resto non aveva niente di strano: Midorima si era staccato dal suo collo prima di lasciare segni per i quali poi Shin avrebbe potuto chiedere spiegazioni. Avere a che fare con un bambino richiedeva un’attenzione perenne ai dettagli.
“Papà!” esclamò quest’ultimo appena vide il genitore e per poco non distrusse un timpano al verde, che si affrettò a metterlo giù prima che si lanciasse dalle sue braccia pur di raggiungere il genitore.
Shintarou rimase a guardare mentre il suo quasi omonimo correva verso il suo compagno e gli si gettava al collo, approfittando del fatto che si fosse inginocchiato, per baciarlo sulla guancia.
Quando però il piccolo Shin iniziò con la descrizione di tutto quello che lui e ‘Mido-san’ avevano fatto la sera prima, decise che era il caso di togliere le tende: decisamente non voleva essere lì quando il bambino avesse rivelato a Takao di aver visto una foto di lui che spingeva il loro carretto con un’espressione esausta e irritata sulla faccia. Avevano riso per quindici minuti buoni di fronte a quell’immagine, ma Midorima era quasi certo che Takao non l’avrebbe trovata altrettanto divertente.
Decise quindi di occuparsi della colazione, certo che Kazunari stesse morendo di fame e che suo figlio non fosse da meno, visto l’appetito che aveva mostrato a cena.
Aveva appena aperto la porta del frigo che il campanello di casa sua – non il citofono, proprio il campanello del suo appartamento – suonò.
Shintarou aggrottò la fronte, confuso dalla visita inaspettata, e si avviò alla porta chiedendosi chi fosse. Sollevò lo spioncino…e lo riabbassò di colpo, appoggiandosi alla porta con la schiena e afferrando gli stipiti con le mani quasi temesse che il visitatore la sfondasse a forza.
Non era possibile! Non lì, non a quell’ora e non di Domenica mattina!
Poi ricordò l’uscita infelice di Takao e capì che, sì, dal momento che era stato evocato, era possibilissimo che Kise Ryouta fosse fuori dalla sua porta con due grossi sacchetti bianchi in mano.
“Midorimacchi, non essere cattivo!” chiamò la voce acuta del modello biondo proprio nell’instante in cui gli occhi sorpresi di padre e figlio si posavano sul verde, “Guarda che c’è anche Kurokocchi! Abbiamo portato la colazione!”
Takao scoppiò a ridere, senza riuscire a fermarsi, quando Midorima gli scoccò un’occhiata assassina, ma il verde lo ignorò per raddrizzarsi, cercare di darsi un contegno, aggiustarsi gli occhiali sul naso e poi decidersi ad aprire la porta, rimanendo dietro di essa per assicurarsi che la prima cosa che Kise e Kuroko vedessero nell’entrare fossero i suoi ospiti – quelli benvenuti – e si trattenessero così dal metterlo in imbarazzo.
Ci fu un attimo di silenzio molto sospetto e Shintarou aggrottò la fronte. Stava per sporgersi per controllare che Kise fosse morto d’infarto, ma il modello lo precedette correndo dentro per gettarsi verso il moro al grido di “Takaoicchi!”.
La cosa peggiore, per Midorima, fu che Kazunari si mostrò altrettanto contento di vedere il biondo e per questo il verde sospirò, desolato, chiudendo la porta.
“Questa è una sorpresa, Midorima-kun.”
Midorima inghiottì assieme ad una boccata d’aria l’urlo che gli era salito in gola quando la voce di Kuroko lo raggiunse esattamente dalla sua sinistra. Abbassò lo sguardo sulla piccola e inosservata figura al suo fianco, ma non poté lamentarsi perché Tetsuya sollevò su di lui uno sguardo eloquente e il fantasma di un sorriso.
“Posso sperare tu ti sia preso cura anche di Takao-kun, oltre che di Shin-chan?” chiese l’azzurro e Kazunari e Kise – già seduti al ripiano cucina, il primo con il figlio in braccio e il secondo estraendo brioches e pezzi di focaccia a caso dal proprio sacchetto bianco suscitando l’ammirazione del piccolo Shin – risero a quelle parole, che sottintendevano chiaramente due tipi di ‘cure’ diverse.
“Fatti gli affari tuoi, Kuroko.” ringhiò Shintarou avvicinandosi al bancone con il fantasma che lo seguiva, ma le sue orecchie rosse rispondevano per lui.
 
FINE



 
Fino a pochissimo tempo fa, non apprezzavo Midorima e pertanto le MidoTaka mi erano indifferenti. Trovavo Shin-chan freddo e arrogante, una sorta di Murasakibara-bis forse appena leggermente migliore, ma poi ho deciso di fare un favore ad un'amica e ho scritto la mia prima fanfiction su Shintarou, una MidoKuro... Apriti Cielo, cosa non è successo dopo quella! È proprio vero che non si può giudicare gli altri prima di essersi messi nei loro panni: dopo aver provato una volta la testa di Midorima, mi sono innamorata di questo adorabile tsundere XD
Sono comunque abbastanza obiettiva da rendermi conto che non suono troppo IC in questa storia, anche se ho fatto del mio meglio per rendergli giustizia.
Comunque sia, questa storia è nata per il "Let's sport!" Contest indetto da Drie, con la coppia MidorimaXTakao e il prompt 'Adozione'.
Che dire, spero vi sia piaciuta: io, quantomeno, mi sono divertita a scriverla :) (E Shin-chan è un amore!!!)
A presto,
ciao ciao!

Agapanto Blu
  
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