Film > Frozen - Il Regno di Ghiaccio
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Autore: felsah    11/08/2014    4 recensioni
“Sei mia zia!” quasi urlò Henrik, “ sei tu vero? Sei tu la regina che mio padre ha esiliato? La storia parlava di te…e di mia madre”. Elsa lo guardò, senza dire né sì né no. Il ragazzo aspettò una risposta per qualche minuto, prima di continuare il suo morboso interrogatorio.
“Prometti di rispondere, se ti domando una cosa?”. Elsa fece un piccolo cenno di assenso.
“Tu hai detto che mio padre ti ha bandito, proibendoti di tornare dopo che avevi scongelato il regno, ma a casa, ad Arendelle, tutti ti credono morta”.
“Morta?”.
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Anna, Elsa, Hans
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cose da re e regine




7
Papà





 
If I'd have done what you and daddy done, would have never lost and never won
Or gotten myself kicked when I was down
I would not know how to travel well,
A hundred bucks and cheap motels
I would not know how to fight for my own heart next time around
Now don't you cry another night about me
[Mama I’m alright – Miranda Lambert]




 
“Dovresti cercare di dormire” consigliò Elsa, lanciando un’occhiata a Henrik, steso sul divano del suo studio, mentre lei iniziava non senza difficoltà a immergersi nei problemi di Arendelle.
Aveva davanti a sé carte politiche, abbozzi di progetti e richieste per la corona. Sospirò. Governare il nulla dal suo palazzo di ghiaccio era stato molto più semplice. Fu colta da una strana nostalgia e fissando le pareti in cerca di qualcosa di familiare, si accorse che quel posto, che le spettava per nascita e per cui aveva lottato tanto a lungo non somigliava affatto a ciò che solitamente le persone associano all’idea di “casa”.
Aveva visto così poco di quel castello che riconosceva a malapena le sue mura.
Le sue le aveva lasciate sulla montagna del nord. Cercò di non pensarci, senza riuscire però a evitare di far comparire un po’ di malinconia sul suo volto.
“Non riesco a chiudere gli occhi” si lamentò il bambino “se lo faccio vedo cose orribili”.
“Cosa vedi?” domandò la regina con un pizzico di curiosità. Ricordava molto bene i suoi incubi di fanciulla e ricordava quanto fossero spaventosi. Lasciò per un attimo i fogli sullo scrittoio, per sedersi accanto al nipote.
Lui scrollò leggermente le spalle, “Tutto” disse, “Vedo un sacco di cose brutte”.
“Le cose brutte succedono Henrik, a un sacco di persone…” sospirò.
Era decisamente ironico che fosse proprio lei a dire quelle parole, che per metà della sua vita aveva creduto di non potere avere la felicità, ed di essere destinata a guardare quella degli altri da lontano.
“Tipo a te?” domandò Henrik, stringendosi le ginocchia al petto mentre la fissava con uno sguardo serio e penetrante.
Elsa si morse un labbro, “ A me è successa una cosa un po’ diversa” fece, desiderando con tutto il cuore che non si mettessero a parlare di quello.
Sapeva bene quanto il bambino fosse curioso, e quante domande avrebbe fatto. “Ci sono anche quelle belle però”. Sorrise incoraggiante, accarezzandogli una mano in modo affettuoso.
“ Ma durano poco…” si lamentò, “quelle brutte per sempre”.
“Durano solo un sacco di tempo” rispose Elsa, “ ma non per sempre. Ora sei triste e confuso e…ti sembra che tutto sia così nero e orribile da…”. Sapeva bene cosa si provava.
Dopo che lo aveva trovato sulla scala, i due avevano parlato a lungo ed erano scesi in giardino per una breve passeggiata. Elsa aveva avuto il delicato compito di consolarlo e spiegargli le cose.
O per lo meno, ciò che poteva essere spiegato senza che lei si intromettesse in una storia di cui non sapeva nulla.
“Non avrei dovuto origliare”, fece il ragazzino, sconfortato, “ora sarei molto più felice”.
“Hai fatto una scelta, e ne hai subito le conseguenze” mormorò la regina, “ lo hai fatto perché nessuno facesse male alla mamma…è stata una cosa buona, in un certo senso”.
“Sì… penso di sì”.
Henrik lasciò che la sua mano gli accarezzasse i capelli rossi e rimase in silenzio, con i suoi pensieri angosciosi in testa.
Il silenzio tornò così imbarazzante che Elsa tornò allo scrittoio e dopo poco il bambino si addormentò, nonostante avesse preferito non farlo.
Quando Elsa si accorse del ghiaccio che dalle sue mani decorava la scrivania, decise di essere troppo stanca per continuare.
Si appoggiò su quegli stessi fogli che la stavano facendo impazzire e in breve si addormentò anche lei.


“Elsa?”. Voltò la testa di scatto al suono di quella voce. La conosceva talmente bene. Quella voce era quella della sicurezza e il conforto, era la sua preferita tra tutte le altre, noiose e irritanti.
“Cosa fai qui? Non pensavo saresti scesa” continuò.
“Scesa?” fece lei alzandosi in piedi. “Certo che sono scesa, dovevo finire di sbrigare del lavoro. Tu…tu non dovresti essere qui”. La voce le tremò.
“E’ il mio studio”.
Suo padre prese una poltrona e vi si accomodò. Ah, doveva essere impazzita. Si passò le mani sul volto, come se quel gesto avesse potuto cancellare tutta la stanchezza che sentiva permearle il corpo, mista al tremore e alla confusione. “Ma sei morto” mormorò per avvalorare la sua tesi. Lui non poteva essere davvero lì.
“Già” sospirò, come se non avesse ascoltato una parola di quello che lei aveva detto. “ Proprio così. Ci rivedremo tra due settimane”.
“Cosa state dicendo, padre?”. Il suo corpo era scosso da brividi mentre gli si avvicinava. La sua immagine era così vivida, così vera, reale.
Allungò una mano, e poté toccare quella di suo padre. Quante volte da bambina e poi da ragazza aveva desiderato poter abbracciare i suoi genitori?
Non riusciva più a contarle, né a contare le volte che si era addolorata quando poteva solo guardare dalla finestra un amore che sembrava non essere destinato a lei nemmeno in minima parte.
Benché stesse tentando di fermarle con tutta se stessa, le lacrime scesero dai suoi occhi, e lei si sentì di nuovo quella bambina, così spaventata, così sola e bisognosa dell’amore.
“Due settimane non sono molte, Elsa”. Suo padre le accarezzò una guancia, cercando di scacciare via le lacrime.
“Una vita” rispose lei in un singhiozzo.
“Andrà tutto bene”.
“Me lo prometti?” domandò, nonostante conoscesse benissimo quale esito avrebbe avuto la sua partenza.
Il vecchio re la abbracciò e lei assaporò il momento come se le fosse stata offerta la più prelibata delle pietanze, nonostante dovette ammettere  a se stessa di sapere bene che quella era solo un’illusione.
Eppure…
“Sarai una grande regina, bambina”.
Si scostò, e quando lo riguardò in volto, il suo viso era quello di Hans.
“Ma sono già la regina”.  Si alzò in piedi e l’ambiente si fece nero. Elsa sentì l’odore dell’olio che sua madre usava per lei mani. “Padre!” chiamò, cercando a tastoni qualcosa che non fosse l’oscurità.
“Padre non lasciarmi!” – “Ho paura!” gracchiò la sua voce, in una versione più infantile. Risentì la sua voce di bambina.
Si portò le mani alla gola e nello stesso istante, l’aria si fece soffocante e irrespirabile. Il ghiaccio le ricoprì il corpo, come aveva fatto con Hans quando lei lo aveva colpito.
Come doveva aver fatto con Anna.
Non sentì dolore. Non riuscì a sentire niente. Urlò.
Quando riaprì gli occhi, il sole aveva creato dei fasci di luce sulla sua scrivania.
Notò che Henrik dormiva ancora e ringraziò il cielo per quello. Si prese qualche minuto per riorganizzare i pensieri e poi quelle dannate carte. Non riusciva a togliersi dalla testa la voce di suo padre.
Non riusciva nemmeno a capire perché lo avesse sognato dopo tutti quegli anni. Imputò la colpa alla sua firma, che aveva visto su diversi vecchi fogli e cercò di non badarci.
Le immagini di quel bizzarro incubo, prima così vivide, si affievolirono, e se ne dispiacque.
Si fece aiutare da una delle guardie a portare a letto il principino e dopo una breve visita alla sorella, già sveglia da diverse ore – non era riuscita a chiudere occhio- si ritirò nella galleria.
La poté rivedere il ritratto di famiglia e il volto di suo padre. Poco più in basso notò le tele che raffiguravano Hans. Anna aveva ragione. Non potevano semplicemente cancellarlo. Lui aveva lasciato n segno di fuoco nelle loro vite, che niente sarebbe mai stato in grado di curare. Si avvicinò al dipinto e posò la mano sul disegno di quella di suo padre, come se quello avesse potuto rispondere al contatto.
“Mi manchi tanto, papà”.



 

**


“ Sei l’ultima persona che può criticare il mio comportamento…”.
“Non lo sto affatto facendo…credo solo che tuo figlio meriti di sapere chi è suo padre”,
“A questo punto…”.
“Non gliel’avresti mai detto, se non avesse origliato?”.
“A cosa sarebbe servito?” domandò Anna tra le lacrime. “Lui non è più qui”.
Afferrò il calice con l’antidoto e lo mandò giù in un sol sorso.
Elsa nel frattempo si sentì sprofondare: non aveva mai pensato nemmeno per un istante a quell’eventualità. Si diede della stupida, ma chiese lo stesso ciò che desiderava sapere.
“Oh mio dio Anna…è…è morto?”.
“Per l’amor del cielo, no!”. L’espressione di Anna fu di puro orrore. “O almeno, penso di no”.
“Pensi?”.
“Non ho comunque idea di dove sia…”. La sorella la guardò sconsolata, esclusa da quel segreto come a suo tempo lei aveva escluso Anna dal suo.
Non me lo vuoi proprio dire? Invece chiese, “Lui lo sa almeno? …che ha un figlio?”.
Anna batté piano le palpebre e si voltò, dando a Elsa la schiena. “Lo sa…è stato allontanato, per questo”.
“Da chi?”.
“Da chi pensiamo entrambe” commentò Anna con voce acida.
“Lui mi ha detto che non sapeva chi fosse il padre”.
“ E tu gli hai creduto?”.
“Beh, se l’ordine l’ha dato lui, io posso sempre revocarlo”. Elsa riusciva solo a pensare che si era fatta ingannare di nuovo. Sospirò e si fece spazio per sdraiarsi accanto alla sorella. Anna le afferrò la mano e per un attimo rimasero così, in silenzio, l’una bisognosa dell’altra più di quanto osassero immaginare.
Forse lei non avrebbe mai saputo nulla dell’uomo che aveva rubato il cuore a sua sorella, ma andava bene, si convinse.
Andava bene se questo era ciò che voleva Anna. Si accorse che stava piangendo solo qualche minuto dopo, quando un singhiozzo uscì fuori più forte degli altri.
“Anna…”. Quella si strinse alla sorella con maggior forza, come se avesse avuto paura che qualcuno potesse ancora portargliela via.
Cercò di soffocare i lamenti, quando si decise a lasciarli liberi, sentendo che non poteva più trattenerli.
“Non puoi capire…” cominciò, mentre il pianto spezzava le parole in strani punti, rendendo il suo discorso difficile da seguire.
“La disperazione”, tirò sul col naso, cercando freneticamente di asciugare le lacrime, “ quando ho pensato… sono rimasta sola. Queste tre parole si sono materializzate nella mia testa e mi hanno fatta diventare pazza. Tutto ciò che amavo era…andato. Non c’era più”.
Fu un sussurro. Guardò nel vuoto, senza guardare qualcosa per davvero.
Strinse le palpebre, mordendosi le labbra così forte da farle sanguinare. “ Niente genitori, niente Elsa…” scosse la testa, “ non potevo farcela. Non era pronta. Ero così sciocca”.
Quando li riaprì Elsa era ancora lì. “Mi sentivo ferita, tradita, ingannata. Ero arrabbiata così tanto con me stessa da non saper più cosa fare…sono stata a dormire nella tua stanza per un po’. Tutte le notti mi rigiravo tra le lenzuola piangendo e non riuscivo a capire…per quanto mi sforzassi…perché. Perché…di tutto. Mi mancavate così tanto che sentivo il dolore mangiarmi il cuore. E poi Hans è tornato”.
“Non sei obbligata a raccontarmi tutto questo…”.
“ Ogni volta che lo guardavo rivedevo tutta la scena…” proseguì lei, senza dare a intendere di aver capito che poteva fermarsi, “ io che ti strappo il guanto e la tua faccia così…terrorizzata. Gli ero grata e lo odiavo allo stesso tempo. Grata perché faceva il lavoro che io non ero capace di fare. E lo odiavo perché piano piano prendeva il tuo posto. Era dappertutto. Così ho cominciato a passare sempre più tempo fuori da palazzo, per evitarlo. Sempre più tempo con Kristoff”.

“Il padre di Henrik?”.

Anna riuscì appena a fare un debole cenno con la testa. “Lui c’era quando sono venuta al tuo palazzo. Pensavo che se lui ci fosse stato ancora, tutto quello che mi era successo sarebbe stato un po’ meno reale”. Alzò le spalle come per scusarsi di quello che stava dicendo. “ E ne ero innamorata. O forse cercavo solo l’amore…come ho sempre fatto. Così disperatamente…non lo so più”.

Si accoccolò tra le coperte, acciambellandosi su se stessa.  “Quando alla fine mi sono sposata…dio, per un po’ è stato come vivere in una sorta di paralisi…di immobilità. Cercavo te in ogni faccia, ogni dama di corte, scansavo Hans e non avevo occhi che per Henrik. Poi è andata via anche Gerda…e mi sono detta, svegliati…non c’è più. E’ tutto finito ”.
Si lasciò andare, preda del suo stesso pianto disperato. Elsa la accolse fra le sue braccia, e pianse silenziosamente mentre ascoltava i singhiozzi di Anna.
E’ tutta colpa mia, pensò, ma non osò fargli vedere le sue lacrime.


Quando la lasciò, si era addormentata di nuovo. La regina tornò nuovamente nei suoi appartamenti e cercò disperatamente di pensare a qualcosa che non fosse la conversazione con sua sorella. Cercò di pensare a qualcosa che non fosse sua sorella, o Hans. O Henrik. I loro volti le danzavano nelle mente uno ad uno in rapida successione, facendola quasi impazzire. Quello di Anna pieno di un conforto e un perdono che non meritava, quello accusatore di Henrik e quello di Hans, sempre avvolto dalla nebbia della menzogna e il mistero.
Li aveva distrutti. Tutti loro. Non era stato quello che aveva voluto sin dal principio?
Servire a tutti loro una vendetta fredda e amara, vederli…spezzati. Si rese conto che non lo sapeva. E poi che non lo voleva.
Non lo aveva mai voluto. Non avrebbe voluto fare del male ad Anna. Non a lei. Non al bambino.
Fu proprio lui a bussare alla sua porta con tre rapidi tocchetti. “Voglio vedere mio padre” annunciò con un espressione grave.
Alle orecchie di Elsa quella richiesta arrivò così confusa che non rispose nemmeno, ma si limitò a fissarlo, senza apparentemente capire. “ Ne sei sicuro?” gli domandò.
“Io lo conosco in modo diverso da come lo conosci tu”.
“Lo so”. Quell’ammissione le costò una certa fatica, e uscì dalle sue labbra con un tono più pungente del dovuto.
“Che vuoi dire?”.
“Non importa”.
Lei non ci voleva pensare, non ci voleva entrare in quella storia. Non erano affari suoi. Lei non voleva rivederlo, non voleva parlargli, non voleva sentire la sua voce nemmeno nei suoi ricordi. E provò a far funzionare quella cosa, ci provò davvero, a far funzionare quel maledetto gioco di negazione continua.
Lasciò che Hans venisse portato in una delle sale del consiglio per l’incontro con Henrik, dato che le segrete non le sembravano un posto per nulla adatto ad un bambino, a condizione che due guardie si ponessero davanti alla porta e lo sorvegliassero costantemente. Sapeva che se ne sarebbe andato prima o poi, con la prima nave disponibile a riportarlo nel dannato paese dal quale proveniva.
Per liberarsi da quell’ossessione, ordinò ad altri servitori di togliere dalle pareti i quadri dove era raffigurato e si impegnò a sostituirli con paesaggi e altri dipinti del tutto inutili.
Quando le passò sotto gli occhi il dipinto della bionda ventenne appena incoronata, non ebbe il coraggio di guardarsi, perché sapeva che non si sarebbe riconosciuta.
Sapeva che avrebbe ritrovato in quelle pennellate tutta la paura e il dolore del suo passato. Fece togliere anche quello.
Quella sera, Anna si sentì abbastanza in forze da scendere a cenare in sala da pranzo. Tuttavia, la sedia vuota era un’altra quella sera.
Quando Elsa chiese spiegazioni sull’assenza di Henrik, Anna si limitò a dirle, “Ha parlato con Hans. Poi si è chiuso nella sua stanza. Non mi ha lasciato entrare”.
Lei non voleva tornare laggiù. Non voleva rivederlo. Non voleva. Non voleva. Non lo voleva.

Si decise a scendere quando sentì la voce singhiozzante di Henrik oltre la porta della sua stanza. Non aveva mangiato un boccone dal vassoio che gli avevano lasciato davanti all’ingresso della camera. Forse non aveva nemmeno aperto la porta, forse non se n’era nemmeno accorto.

“Cos’hai detto a quel povero bambino?” sbraitò non appena la porta della sua cella venne aperta. Hans era seduto in un angolo, accucciato su se stesso. Rise.
Tuttavia, ne uscì un suono contorto, che non assomigliava per niente ad una risata.
“Non c’è niente da ridere!” urlò ancora. “Dio, sei senza pietà”. Fu allora che smise di ridere.
“Non gli ho detto niente”.
“Cosa?”. Elsa sgranò gli occhi, concentrandosi sulla sua figura, ancora immersa nell’oscurità.

“Niente. Non gli ho detto assolutamente niente”. Calcò quella parola, quel niente con decisione e poi si zittì, come se non avesse avuto voglia di aggiungere altro.
“Nel senso che sei stato zitto per due ore?”.
“Esattamente”. Semplice, lineare. La regina osservò la linea rosea e sottile delle sue labbra che si alzava e si abbassava.
Nella sua testa non vorticava che una domanda, e così la pose, “Perché?”.
“ Non avevo nulla da dirgli”. Un'altra risposta secca, che le fece venire voglia di prenderlo a schiaffi fino a farlo sanguinare. Come poteva permettersi di dire una cosa simile?
Aveva da dare a tutti loro un sacco di spiegazioni, e aveva da riparare molti più danni di quanti potesse immaginare.
Con il suo comportamento, non aveva fatto altro che aggiungerne uno alla lunga lista di quelli che già aveva da riparare.
Non mentire, avrebbe voluto gridare. Non lo fece. Dalle sue labbra uscì ancora una volta un impercettibile, “Perché?”. Le scappò prima ancora che potesse controllare le sue stesse azioni.
Se possibile, la posizione in cui Hans era seduto divenne ancora più curva, ancora più goffa, ancora più sofferente.
“ Immagina di aver mentito”. Sì.
L’ho fatto. Ho mentito, pensò. Ho mentito per una vita intera. E’ per colpa di quella menzogna che ora sono qui a parlare con te.
“Di aver ingannato”. Una pausa. Anna.
“Di aver  quasi ucciso”. Elsa deglutì. Quella pausa durò più della precedente.
“Di aver tradito…e fatto soffrire”.
Di nuovo Anna. Anna, Anna, Anna.
Conosceva bene quelle sensazioni.
“ Immagina che non te ne importi nulla, perché per una volta hai pensato a te stesso e non sempre, continuamente, ossessivamente agli altri o a quello che avrebbero pensato di te una volta fatto”.
La fuga, la fuga, la fuga.
Era scappata dai suoi doveri, da sua sorella, dal castello, dal suo popolo.
Aveva ghiacciato l’intero fiordo perché quel ghiaccio fosse il suo ponte verso la libertà.
Avevano fatto soffrire le stesse persone, lo stesso paese. Li avevano condotti alla morte e risparmiati poco prima che fosse troppo tardi. Li avevano distrutti e avevano distrutto loro stessi. Non erano poi così diversi.
“ Immagina che un bambino, per
cui fino a quel momento sei stato fonte di ammirazione, pur non avendo fatto niente per meritarla, venga a chiederti perché. Cosa risponderesti?”.
Il silenzio li ferì entrambi come la lama affilata di un coltello. Elsa rimase in silenzio.
“ Mi ha detto, ‘ti voglio bene papà’ prima di andarsene” singhiozzò, “ E io non mi meritavo nemmeno quello. E non ho detto niente. E non sono suo padre”.
Il dolore di quelle lacrime la colpì come una scarica elettrica. Elsa uscì sbattendo la porta della cella e dopo aver barcollato per un po’ sulle scale, si lasciò andare sui gradini freddi.
Non avrebbe voluto piangere, ma non sapeva cos’altro fare.


Okaaaaay, immagino che un miliardo di scuse non bastino a giustificare questo immenso ritardo, ma spero vogliate capirmi: colpa delle troppe cose da fare ogni giorno, del caldo, della pigrizia e mia...sì, sostanzialmente colpa mia. Come avete potuto vedere questo è un capitolo senza molta azione, ma in cui non mancano le spiegazioni a un sacco di cose. Finalmente tutti i tasselli si stanno rimettendo al loro posto, anche se così facendo la situazione si è incrinata alquanto...bene bene... che faranno ora i nostri beniamini? :D
Un bacione a tutti!
felsah ( e ancora mille e mille scuse)
 
 
  
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