Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: OurChildhood    14/08/2014    10 recensioni
«Avete fatto voi questo orrore?»
«No, voi.»
-Pablo Picasso, Guernica
[Seconda classificata al contest "Scatti di vita: la memoria di un secolo" del gruppo facebook "I concorsi di Marlene e Ned"]
Genere: Guerra, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Senti boati ovunque sopra di te.
Senti tutto tremare, come in un terremoto.
Senti il corpo intorpidirsi e senti le urla di una donna.
Senti il rombo di motori, il pianto di un bimbo, poi, ancora boati.
Il bimbo non piange più.
 
Una scossa, cadi, qualcosa esplode vicino a te. Un vetro ti ferisce la guancia, la polvere fa bruciare il taglio e tu cerchi di scappare dal calore del fuoco.
Urli quando qualcos’altro esplode, qualcosa ti colpisce ed un calore insopportabile ti avvolge per un secondo soltanto, ma che è bastato per bruciare l’orlo della gonna del vestito.
Un urlo così disumano non dovrebbe uscire da nessuna bocca, tantomeno dalla tua, quella di una piccola bambina innocente che sta scappando dalle macerie di una città che ormai sembrava più la cenere che rimane nel caminetto d’inverno, una città che non è più la splendida e fiorente Guernica.
E tu, così innocente, conosci a malapena tutta la malvagità che si cela dietro le bombe scagliate, che non si cura delle morti di persone innocenti e delle vedove e dei bambini che, come te ormai, non hanno più una famiglia.
 
Ti trascini tra le vie impolverate della città con la tua bambola in mano, con le lacrime agli occhi, con le ultime immagini che hai dei tuoi genitori che ti si ripresentano ogni qual volta sbatti le palpebre.
 
Gli occhi vacui di tua madre e il sangue che le scorreva tra le dita, la stretta forte di tuo padre che s’allentava, lui che cadeva e ti sussurrava un muto “Corri” prima che la luce nei tuoi occhi si spegnesse.
 
E tu corri, senza una meta, al di fuori di qui, al di là dei palazzi che crollano sotto i colpi delle bombe, al di là delle case crivellate, lontano dai boati assordanti e dal rombo degli aerei che volavano ancora sopra la città.
 
Ti fermi, piangi. Ti guardi intorno e piangi ancora.
I resti di quella che tu chiamavi “casa” ti circondano, quel posto sicuro che odorava del buon profumo di mamma e che trasmetteva lo stesso dolce calore del papà, quel posto che ti faceva percepire tutto ciò che solo una famiglia può dare.
 
Stringi tra le braccia la tua bambola mentre ti accasci su un masso, il rombo degli aerei che si fa distante.
Stringi la tua bambola che non hai lasciato mai, perché è l’ unico pezzo di un mondo in macerie che ancora ti lega a una parvenza di infanzia e innocenza, le quali ti sono state ingiustamente portate via.
Sei sola e, straziata, chiami mamma, ma l’unica risposta che ricevi è l’odore di bruciato e la polvere che ti offusca gli occhi; chiami papà, ma ti risponde il sibilìo del vento e il bruciore che provocano le tue lacrime sul taglio sulla guancia.
 
Sconosciuti ti passano accanto: alcuni ti guardano, altri corrono disperati, altri semplicemente crollano sull’asfalto pieno di detriti e urlano così forte da farti accapponare la pelle.
Ma la gente che ti guarda, tutti gli uomini e tutte le donne feriti, distrutti e delusi, tutti quelli che riescono a scovarti in quel mare di grigio, pensano a quella povera bambina troppo piccola e già catapultata in un mondo troppo grande.
Quella bambina che, nonostante la tenera età, sente il peso derivante la consapevolezza di ciò che è accaduto e la paura di ciò che accadrà che grava sulle sue spalle gracili ed esili.
 
Accarezzi i capelli sporchi e pieni di polvere della bambola, ma non sai quanti sforzi ha dovuto compiere tuo padre per regalartela; non sai quanto sudore ha versato e a quante ore in tua compagnia ha rinunciato per ottenere qualche soldo in più per potertela regalare, così da vedere il tuo bel visino illuminarsi mentre scartavi il pacco durante la mattina di Natale e sentire quel “Ti voglio bene” che è un toccasana per ogni genitore.
Tu non ti accorgevi degli occhi stanchi, dei sorrisi tirati o delle lacrime versate di nascosto dai tuoi genitori quando pensavano tu dormissi. E piangevano per paura di un futuro pericoloso e instabile, paura di non arrivare a fine mese, paura che mancasse il pane.
Non potevi accorgerti della consapevolezza che aleggiava allarmante in casa, la tensione crescente e il terrore che tutto ciò che la famiglia rappresentava – magia, incanto, affetto – sarebbe stato presto dilaniato dall’egoismo.
 
E quel 26 aprile ne era la prova.
 
E ormai capisci, in parte, ma capisci. 
Sei consapevole del significato delle parole che mamma e papà si sussurravano, parole come “guerra civile”, “morte”, “distruzione”.
Non conosci precisamente i significati, non sai esattamente cosa vogliano significare, ma credi che tutto quello che hai davanti possa essere una valida dimostrazione. Case distrutte, persone disperate, grigio, polvere, orrore, urla, pianti, sangue, ferite.
Sai anche che, questa sera non dormirai nel tuo comodo letto, papà non ti leggerà la favola e mamma non ti canterà la ninna-nanna. 
Mamma e papà se ne sono andati e l’hai capito nello stesso istante in cui hai visto i loro occhi spegnersi e non hanno risposto quando li hai chiamati piangendo. Di solito, se piangevi ti prendevano in braccio e ti accarezzavano, ti asciugavano le lacrime. E quella volta non l’avevano fatto.
 
Hai intuito il significato di “morte” troppo presto, quando ancora i tuoi unici pensieri dovevano essere giocare e pensare ad abbracciare papà prima che andasse a lavoro e baciare la mamma quando ti preparava la merenda.
 
Le lacrime ti offuscano la vista mentre stringi il vestitino della bambola, cucito appositamente dalla mamma, che è oramai sporco e logoro.
Ma un leggero barlume di speranza ti fa credere che tutto questo sia solo un brutto sogno e che, a breve, il dolce cigolio della porta da oliare ti riporterà a casa, tra le lenzuola pulite e profumate del tuo letto. Così rimani delusa quando ti rendi conto che il pizzicotto che ti sei tirata fa male e non sei assolutamente addormentata.
 
Non è un brutto sogno quello che stai vivendo, né il finale amaro di un’opera romanzesca.
È tutto vero il dolore che vivi, il vuoto nello stomaco che senti, tutto quello che nessuno dovrebbe vivere: guerra, morte, distruzione, disperazione.
 
Piangi, urli.
Altri bambini chiamano i loro genitori: non sanno che nessuno risponderà.
Vedove si strappano i capelli, perché il dolore fisico non è forte quanto quello che le sta dilaniando dentro.
E tu, in mezzo a quell’orrore, stringi più forte la tua bambola: l’unica famiglia che ti è rimasta.
 
 
ANGOLO AUTRICE
Ciao a tutti! Spero che questa One Shoot piaccia e devo dire che l’impegno messo per scriverla è stato tanto soprattutto perché tratta una tematica piuttosto delicata.
Detto questo, metto il link della foto a cui è ispirata la One Shoot.
Baci,
OurChildhood


[Storia partecipante al contest "Scatti di vita: la memoria di un secolo" del gruppo facebook "I concorsi di Marlene e Ned"]
 
 

Image and video hosting by TinyPic Fotografia n.10
   
 
Leggi le 10 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: OurChildhood