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Autore: Arancino Spietato    28/08/2014    11 recensioni
[CreepyPasta]
Non capisco...
Perché deve succedere a me tutto questo?
Perché devo continuare in questo modo?
Perché non riesco a farla finita?
PERCHÈ DEVO FAR DEL MALE ALLE PERSONE IN QUESTO MODO?!
...
...
Oh... Adesso perché ho le mani tutte rosse?
Genere: Angst, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Religious killer

 

Ero lì, di nuovo in quel lurido e polveroso scantinato, con i muri pieni di crepe e muffe. C'erano solo degli scatoloni e un piccolo bagno. Non c'era neanche una lampada o finestra, l'oscurità mi circondava e istigava la mia fantasia a farmi vedere cose che non c'erano. Cercavo di tenere gli occhi chiusi, per non vedere se nel buio c'era davvero un mostro ad osservarmi o se me lo stavo solo immaginando.
Tenevo la testa tra le ginocchia, con la schiena magra appoggiata ad una parete.
Ero lì da circa tre giorni, o forse quattro? Non mi preoccupavo molto del tempo che passava, ma di quando sarebbe finito.
La fame e la sete erano opprimenti, e l'enorme quantità di polvere presente nella stanza mi faceva starnutire. Forse ero diventato allergico, delicato com'ero.
Guardavo con tristezza la fioca luce proveniente dalla serratura e dalla sottile fessura tra la porta e il pavimento, sperando con tutto il cuore che mia madre si decidesse a prendere la chiave di quel lurido scantinato e a tirarmi fuori da là.
Mi teneva lì per punizione. Quando facevo qualcosa che a lei non piaceva, mi rinchiudeva lì dentro per giorni, poiché diceva: “La solitudine aiuta a comprendere al meglio i peccati commessi e pulisce l'anima”
Quella volta mi aveva punito proprio il giorno del suo compleanno.
A causa di un fiore.
Era il suo compleanno, ed era domenica, così come di consueto, andammo a messa. Dopo essere usciti dalla chiesa ci siamo diretti verso casa, ma lei disse che si sentiva stanca e si sedette in una panchina di un parchetto.
«Non allontanarti Marcus» disse mia madre.
Io ne approfittai per fare una passeggiata e godermi l'aria fresca. Ad un certo punto vidi una rosa bianca, crescere spontanea e sola soletta: era davvero splendida.
Anche se non avevamo fiori in casa, e di conseguenza non conoscevo i suoi gusti, pensai che a mia madre sarebbe potuto piacere.
Avevo sette anni, non avevo paghetta dato che io e mia madre sessantottenne vivevamo solo della sua pensione, quindi quello era il massimo che avrei potuto fare.
Strappai delicatamente la rosa e annusai il suo buon profumo.
Portai a testa alta e sorridente il fiore bianco alla mia mamma, aspettandomi un bacino sulla fronte o sulla guancia o almeno un grazie.
«Mamma...» dissi a mia madre per chiamarla.
«Mh?»
Lei si girò, e mi vide tendere quel fiore verso di lei con un sorriso a trentadue denti, come solo un bambino sa fare.
Scrutò velocemente me e la rosa, e la sua reazione mi lasciò senza fiato: mi strappò di mano il fiore e mi diede uno schiaffo. Tutti si girarono verso di noi.
«Come hai potuto?! I fiori sono gli unici figli di Dio con un'anima pura! Lo hai strappato da casa sua! Ti piacerebbe se qualcuno lo facesse con te?!»
«...»
«Rispondi!»
«N-no...»
«E allora perché l'hai fatto pezzo di idiota?! Va subito a ripiantarlo dov'era prima!»
Io, deluso e con la guancia rossa, gonfia e dolorante, andai a ripiantare il fiore con le lacrime agli occhi.
Ma in fondo avrei dovuto aspettarmelo da lei.
Mia madre Lorenne era molto, molto ligia alle regole. Non si faceva scrupoli a punire severamente il proprio figlio per una faccenda così sciocca.
Dopo aver ripiantato la rosa, tornai da mia madre, che mi prese per il polso e mi trascinò fino a casa. Il suo viso era imbronciato e non parlammo per tutto il tragitto.
Arrivati a casa, lei mi disse:
«Adesso imparerai a pensare agli altri e a non fare ciò che non vuoi che venga fatto a te»
Odiavo quando diceva “Adesso imparerai”, voleva dire soltanto una cosa...
«No mamma ti prego! Non rinchiudermi là dentro! Mi dispiace! Non volevo! Perdonami ti prego!» implorai io piangendo.
«Entra!»
Lei aprì la porta dello scantinato, scaraventandomi dentro, e chiudendo a chiave, mentre io singhiozzavo e davo dei pugni alla porta urlando a mia madre di farmi uscire, ma lei aveva già salito le scale.

Questa era solo una delle tante e abituali volte che sono finito in quel lurido scantinato.

Il mio nome è Marcus Black, e ho diciannove anni.
Vivevo in un paesino poco distante da Toronto, insieme alla mia anziana madre Lorenne Walker. Mio padre morì quando avevo quasi quattro anni, ma mia madre non mi parlò mai della causa del decesso.
Lei aveva un'enorme ossessione: la religione.
La sua ossessione per la religione cattolica si ripercosse su di me: tutto quello che voleva era farmi diventare una persona di alto rango nel clero, addirittura un vescovo.
La cosa però le sfuggì di mano, e “creò” un suo mondo religioso, dove le parole “felicità” e “divertimento” non esistevano. Era una specie di calvinismo, ma più estremo.
Mia madre era strana. Lo sapevano tutti in paese. A volte si trasformava in una bomba ad orologeria.
Il suo raptus di follia più grande lo ebbe quando avevo solo cinque anni: mi buttò a terra, prese un taglierino e mi intagliò una croce, che andava dal cuore all'ombelico. Ho ancora la cicatrice, che mi impedirà di dimenticare fino alla fine dei miei giorni.
Lei non vuole che io esca di casa, solo per andare a messa.
Non mi mandò nemmeno a scuola, poiché diceva che “gli altri bambini e le maestre avrebbero potuto corrompermi e sporcarmi l'anima”, così era lei che mi faceva da insegnante, ma con orari decisamente improponibili: dalle sei e mezza del mattino fino alle otto e mezza di sera, e l'unica pausa era quella del pranzo.
Mi insegnava già da piccolo matematica, filosofia, storia, grammatica, algebra, ma soprattutto religione. Invece le scienze non le ha mai nominate.
Soffro di problemi cardiaci. Il mio cuore è molto debole e soggetto a infarti. Ne ho già avuto alcuni da piccolo, ma non sono mai andato all'ospedale, mia madre non vuole che io veda nessuno. Abbiamo medicinali e defibrillatore a casa.
Mia madre non voleva nemmeno farmi fare un trapianto, primo perché i medici avrebbero visto la cicatrice, secondo perché diceva che il mio cuore era un dono di Dio, e rimuoverlo sarebbe stato un insulto nei suoi confronti.
Lei non è mai stata una madre affettuosa: sono state davvero poche le volte che mi ha abbracciato o che mi ha dato un bacio, ovvero quando stavo male per colpa di febbre molto alta o quando mi riprendevo dagli infarti.
Però, anche se era davvero molto severa, io le volevo bene, in fondo mi aveva dato alla luce e accudito, e quindi sapevo che anche lei mi voleva bene.
Amavo mia madre, e ho accettato la sua decisione. Mi è sempre piaciuto il fatto di diventare prete, di poter ascoltare Dio e di diffondere la sua parola. E anche se c'erano molti lati negativi, non avrei mai cambiato la mia vita né mia madre.
Ero un bambino sognatore. Dalla finestra di camera mia guardavo con un po' di invidia gli altri bambini passare mentre giocavano a palla, o con degli aeroplanini, o con delle macchine telecomandate.
Non avevo mai avuto giocattoli, mia madre era contraria anche a questi, per non parlare della televisione o dei cartoni animati. Non li ho mai guardati perché mia madre credeva che facessero il lavaggio del cervello.
Eravamo anche vegetariani, ma a me va bene così.
Forse a nessuno sarebbe piaciuta la mia vita, ma io ero felice.

Quando ebbi l'età adatta per andare in un seminario minore mia madre mi ci mandò subito, così feci anche i seminari maggiori.
Ero felice là dentro, soprattutto perché ogni giorno mi avvicinava sempre di più a Dio. Anche la compagnia era gradevole. All'inizio mi sono sentito totalmente fuori luogo ed ero molto timido, visto che non avevo mai parlato con altre persone all'infuori di mia madre, ma poi mi sono aperto un po'; erano tutti delle brave persone desiderose anche loro di poter ascoltare e diffondere la parola di Dio.
Sì... ero felice.

Una notte, nel dormitorio, sentii un forte odore di bruciato, e nell'aria c'era del fumo.
Altri ragazzi si stavano svegliando, infastiditi dal fumo.
Cominciai a tossire, e guardai la stanza, ma era illesa. Così aprii la porta della camera, e vidi il corridoio in fiamme.
«Sta bruciando tutto!» gridò uno.
«Cosa facciamo?!»
«Che Dio ci aiuti!»
Io cercai di mantenere la calma, anche se avevo il respiro affannoso.
«Prendete un fazzoletto, qualcosa, e cerchiamo di andare al piano di sotto!» dissi io.
Uscimmo, e con calma riuscimmo ad arrivare alla porta principale, ma...
Una fitta al petto mi bloccò e istintivamente me lo strinsi con una mano, mentre mi accasciavo a terra. Un infarto.
Sapevo che il mio cuore non avrebbe resistito a tutta quell'ansia.
Poi il buio.
Quando mi risvegliai, mi ritrovai nella stanza di un ospedale, con flebo ed eco-cardiogramma.
Ero un po' spaesato. Non ero mai stato in un ospedale.
C'erano dei dottori accanto a me, ma sembravano non essersi accorti del mio risveglio.
«Che... Cosa è successo...?» chiesi io, ancora un po' intontito.
«Oh signor Black, si è svegliato» mi disse il dottore.
Va bene che avevo diciannove anni ed ero maggiorenne, ma mi faceva sentire vecchio essere chiamato “signore”.
«Io sono il dottor Luke Roger e lei è la mia assistente tirocinante Denise Watson» continuò il dottore, mostrandomi una ragazza bassina, con una treccia castana stile Frozen, occhi azzurri, occhiali e lentiggini, con degli orecchini e un camice bianco.
Era carina, soprattutto perché non avevo mai visto una ragazza.
«Ha avuto un infarto e ha riportato delle ustioni di primo grado signor Black. Il suo cuore è molto debole, ma se prenderà le giuste pillole può cavarsela. Sarà dimesso domani pomeriggio» disse il dottore.
«D'accordo. Ho ricevuto visite?» chiesi.
«Non ancora signor Black. Si riposi»
Detto questo uscì.
C'era una televisione accesa, così l'ascoltai. Era il telegiornale, e ci fu la notizia dell'incendio del seminario. Fu accidentale, dissero. Una stufa leggermente aperta che con qualche scintilla creò un incendio. Molti morirono. Mi ritenni fortunato.
Passò qualche ora finché non sentii bussare alla porta, ed entrò l'infermiera di prima, Denise.
«Ehm... Mi scusi, dovrei cambiare le sue bende» disse lei, un po' timida.
«C-certo...»
Lei si avvicinò e mi cambiò le bende.
«Argh... Da quanto tempo sono qui?» chiesi.
«L'incidente è stato ieri, e adesso è pomeriggio»
«Oh, ok»
«... Mi dispiace tanto»
«N-non si preoccupi, non è stata colpa sua...»
«Ehm... Forse è una cosa personale ma, io e il dottor Roger siamo rimasti perplessi quando abbiamo visto una grande cicatrice sul suo petto. Posso chiederle come se l'è fatta?»
«Ehm... Sono stato... Vittima di bullismo da piccolo» mentii io.
«Ah... Capisco, anch'io. Mi prendevano in giro perché ero la classica bambina grassa, brufolosa, con gli occhiali e l'apparecchio»
«Già...»
«Come si sente?»
«Oh, io bene, lei?»
«Bene grazie»
«Lei è proprio una persona gentile»
«Oh, la ringrazio, ma io faccio solo il mio lavoro... Ha figli?»
«No! Sono un seminarista»
«Oh scusi, l'ho dimenticato, che sbadata! Ahahahaha!»
La sua risata era contagiosa, tant'è che cominciai a ridere anch'io. Sembrava una ragazza solare e diventare, ed era davvero gentile.
«Non si preoccupi...»
«Mi dia del tu per favore, e mi chiami Denise, mi sento vecchia quando mi danno del “lei”»
«Anche io, che coincidenza»
«Vuole che le dia del “tu”?»
«Sarebbe preferibile, per lo stesso motivo che hai detto tu»
«... Fare l'infermiera, mi fa sentire bene. Mi fa sentire bene aiutare le persone e prendermi cura di loro, poiché non posso farlo con un bambino perché sono sterile»
«Mi dispiace»
«Da piccola mi prendevo cura di mia nonna, che era malata terminale di cancro. Voglio diventare un'infermiera per lei»
«È un lavoro bellissimo il tuo»
«Beh dipende, molte volte ci affezioniamo ai pazienti. È un lavoro faticoso ma gratificante. Poi però ci sono le infermiere arpie, tsk, quanto
le detesto»
«...»
«Oh ti sto annoiando?! Santo Cielo, io parlo parlo, e poi non mi fermo più! Scusami tanto»
«No no, non mi annoi affatto»
Lei mi sorrise in modo sincero, aveva un bel sorriso.
«... Ok, ho finito. Gradiresti un tè?»
«Ehm, sì grazie»
«D'accordo, torno subito»
Era una ragazza davvero di buon cuore quella. Denise...
Lei mi veniva a trovare spesso fino al momento della dimissione.
Lei mi disse:
«Ehm... Se... Vuoi, potremmo... Uscire, come amici, qualche volta... Che ne so... Andare in un bar, o a messa»
Non sapevo se fosse stato giusto rifiutare o accettare. E se mi fossi innamorato di lei? Avrei buttato all'aria tutti quegli anni di seminario.
«Ehm...»
«Non temere! Non ci proverò con te!... Io sono lesbica»
«C-cosa?»
«Sì... Hai sentito. Mi piacciono le donne»
«Aaaahhh... Ok allora!»
«Tieni, è il mio numero»
E così mi diede un fogliettino di carta con su scritto il suo numero di telefono.
Tornai a casa da mia madre, e ingenuamente pensai che come minimo, dopo anni che ero stato fuori casa, mi avrebbe abbracciato, ma mi sbagliai.
Lei venne verso di me, e mi diede uno schiaffo.
«Come hai osato negare il volere di Dio?!» mi urlò lei.
«Cosa?!»
«Se l'incendio è stato accidentale vuol dire che Dio voleva che accadesse! Ti è venuto pure un infarto! Non capisci, oh... Dio vuole che tu muoia!»
«Mamma...»
«Tu dovevi morire lì! Come hai potuto disobbedire a Dio?!»
«Ma tu dicevi che mi volevi bene...»
«Sì, ma Dio, deve venire prima di tutto»
«Non mi vedi da anni e mi accogli con un schiaffo?!»
«Non contraddire tua madre!»
Io, furente, me ne andai in camera mia, e cominciai a pregare, per sbollire la rabbia.
Per distrarmi decisi di chiamare Denise. Ci siamo dati appuntamento ad un bar non molto distante. Mi feci una doccia e uscii, senza farmi vedere da mia madre.
Passammo la serata più bella e divertente della mia vita.
Purtroppo non passò molto che mia madre venne a scoprire che io uscivo di nascosto.
«MARCUS!!!»
«Che cosa c'è mamma?!»
«Dimmi subito cos'è questo!»
E mi fece vedere il foglietto con il numero di Denise.
«Mamma...»
«Ho messo l'anima per farti diventare un seminarista, ed è così che mi ripaghi?! Ingrato!»
Mi diede un ceffone.
«Non permetterò ad una lurida sgualdrina di mandare a monte i miei piani intesi?! Non uscirai più da questa casa senza di me!»
E se ne andò sbattendo la porta di camera mia.
Io per rabbia, diedi un calcio al comodino, che si spostò leggermente, rivelando l'apertura di una piccola botola.
Incuriosito, spostai completamente il comodino, e aprii la botola.
Strabuzzai gli occhi: c'erano due bellissime e lucenti pistole bianche, con decorazioni dorate, e una lettera.
Presi la lettera, e la lessi:

Caro Marcus,

Se stai leggendo questa lettera probabilmente sarò già morto. Sono tuo padre, Lucas Black.
Insieme a questa lettera come puoi vedere ci sono due pistole cariche. Erano mie, ma adesso sono tue.
Il perché?
Voglio che tu la uccida.
Uccidi tua madre.
Né lei né io siamo i tuoi veri genitori, ti abbiamo adottato quando avevi tre anni, ma per me sei sempre stato dal primo momento come il mio vero figlio.
Lei mi vuole morto perché io non voglio che tu ti riduca come lei.
So che non è un argomento di cui si può parlare con una semplice lettera, ma non ho altri mezzi.
Lei è pazza, e se l'ascolterai impazzirai anche tu.
Falle un favore, uccidila.
Se stai leggendo questa lettera da piccolo puoi ancora farlo, ti daranno a qualche altra famiglia.
Se sei grande porta le pistole con te e scappa.
Non ho molto tempo, ho una ferita all'addome. Sento i suoi passi scendere le scale. Sono rinchiuso in cantina.
Ti ho voluto bene Marcus.

Con affetto,
Papà

Troppe cose tutte insieme.
Adottato?
Uccidila?
Ucciso?
Mi presi la testa.
Non poteva essere possibile, no... No...
Era tutto così surreale, dovevo star sognando, per forza.
Lacrime cominciarono a rigarmi il viso.
«No... No, non posso ucciderla! Non posso! Io le voglio bene, non posso ucciderla! Non è possibile...»
Mi distesi a letto, sconvolto.
Perché?
Perché tutte quelle cose a me?
Senza accorgermene mi addormentai.

Delle urla e due spari, fu tutto quello che sentii e ricordo.

Mi svegliai.
Quelle erano le urla di mia madre.
In fretta scesi le scale e vidi uno spettacolo agghiacciate: mia madre giaceva a terra, in un lago di sangue, gran parte rappreso. Aveva un buco in un occhio e uno sul cuore.
«MAMMA!!»
Corsi da lei e mi inginocchiai, scoppiando in lacrime.
«Mamma! No... Mamma!! No! Perché?!»
Avevo un nodo alla gola, ero sconvolto.
Per un secondo, temetti di essere stato io a farle quello.
Corsi in camera mia ma vidi che le pistole erano al loro posto e sui miei vestiti non c'era una goccia di sangue.
Poi senti qualcuno sfondare la porta principale, e andai a vedere chi fosse.
Era la polizia.
Ma io non l'avevo chiamata.
«Chi vi ha chiamato?» chiesi.
«È lui, prendetelo» disse un poliziotto.
«COSA?!?! NO! Non sono stato io! Non l'ho uccisa io!» urlai, mentre un altro poliziotto mi metteva le manette.
«Signor Black, la dichiaro in arresto per omicidio volontario e per possesso illegale di armi da fuoco»
«Credetemi! Vi giuro che non sono stato io!!» urlai in lacrime.
«E la macchia di sangue sul suo viso?» mi disse sarcastico un poliziotto.
«Macchia... Di sangue? No... No... No no no no no no no...»
Il mio sguardo si perse nel vuoto e io entrai in macchina.
Macchia di sangue? No... Non era possibile...
Per tutta la durata del viaggio non feci che piangere, disperato.
Mi fecero subito un interrogatorio.
«Allora Signor Black, io sono l'investigatore Oscar Murphy, lei è stato accusato di omicidio volontario e di possesso illegale di armi-»
«Chi ha chiamato la polizia?» chiesi freddo.
«I vicini, che affermano di aver sentito delle urla e due spari»
«Non sono stato io... Non ho fatto niente! Io non ucciderei mai mia madre!»
«Questo lo dice lei»
«La prego, vi giuro che è così! Io ero a letto! Non ricordo nulla dell'accaduto! Anche io ho sentito mia madre urlare e degli spari, ma quando sono andato da mia madre l'ho trovata morta!»
«Quindi la polizia è arrivata appena lei ha trovato sua madre morta?»
«Sì» risposi.
«Ma allora lei non può essere stato svegliato dalle urla e dagli spari, perché la polizia non può arrivare in pochi secondi...»
«... Ma vi giuro che è così! Sarei potuto scappare! Ma non l'ho fatto, perché vi ripeto che non sono stato io»
«Signor Black... Lei ha ancora una macchia di sangue sulla guancia»
«No, NO! Questo sangue non può essere di mia madre! Mi rifiuto di crederci!»
«Forse ha sbattuto la testa e quindi non ricorda»
«Vi ripeto per l'ultima volta che non è successo niente! Per quale motivo avrei dovuto ucciderla?!»
«Questo ce lo dirà lo psichiatra»
«Psichiatra? Pensate che io sia pazzo?!»
«Una persona che uccide la propria madre sicuramente non è sana di mente»
«NON L'HO UCCISA IO!!! Non sono pazzo! Non sto delirando!»
«Portatelo via»
Due enormi uomini mi presero e mi misero una camicia di forza.
«LASCIATEMI!!!»
Stavo perdendo il controllo, ero fuori di me.
Ero spaventato, arrabbiato e frustrato.
Mi portarono ad un camioncino, e mi misero dentro al camioncino dove c'erano dei sedili.
Stavo andando nel panico.
Che cosa mi avrebbero fatto?
Mi avrebbero rinchiuso in una cella d'isolamento?
Quando si fermarono mi fecero uscire e mi trascinarono dentro un grande edificio, e mi sbatterono in un piccola cella bianca, con dei muri coperti da cuscinetti.
E adesso?
Cosa avrei dovuto fare?
Non ero pazzo, io sapevo di essere perfettamente a posto.
Avevo paura.
Volevo bene a mia madre. Non l'avrei mai uccisa.
Mai.
Passai cinque, lunghissimi, mesi in quel manicomio.

Ma non ero pazzo.
Io non SONO pazzo.
Non ero impazzito.
O almeno, così credevo.

Dato che avevo una buona condotta potei ricevere dei doni dall'esterno.
Ricevetti una torta.
Me l'aveva mandata Denise.
Oh, che dolce.
Quando mi lasciarono solo per aprirla toccai qualcosa di duro dentro la torta.
La presi, ed era una lima, legata ad un bigliettino, che diceva:

Ti aspetto a casa tua.

Denise

Capii subito quello che dovevo fare, dato che nella mia cella c'erano le sbarre.
Cominciai a segarle, e finalmente riuscii a tagliarle, e dato che ero al secondo piano presi le coperte, le legai al letto e riuscii a scappare.
Tornai subito a casa passando inosservato, dove c'era già Denise ad aspettarmi.
Ci abbracciammo, mi era mancata molto, e lei quasi pianse, e parlammo un po'.
Andai in camera mia, dove stranamente c'erano ancora le pistole.
Le presi.
Erano davvero belle, anche da impugnare.
Il mio cuore cominciò a battere velocemente, e non capii più cosa mi stava succedendo.
Sentii una presenza dietro di me, era Denise.
«Marcus, che stai facendo con quelle pistole?»
Mi girai verso di lei, e le dissi:

«... Riposa in pace, Denise»

Poi, di nuovo il buio.

Delle urla e due spari, fu tutto quello che sentii e ricordo.

Quando ripresi conoscenza, mi risalì per la gola un conato di vomito: Denise era a terra, con in testa un buco enorme che faceva vedere il cranio e il cervello. C'era sangue dappertutto.
Non realizzai subito quello che era successo.
Ero rimasto traumatizzato, e le lacrime cominciarono a sgorgare numerose.
Scioccato andai in bagno.
I miei capelli marroni-neri erano incrostati di sangue, così come la mia pelle molto pallida e il pizzetto. I miei occhi marroni erano spalancati al massimo per lo shock.
Presi le pistole e scappai. Corsi via da lì. Da qualche parte.
Diedi loro dei nomi: Joseph e Mary.
Incisi in un metallo dorato le loro iniziali e con una saldatrice le attaccai sotto alla canna delle pistole.
La religione e quelle pistole furono le uniche cose che mi rimasero e che mi rimangono ancora.
Mia madre voleva che io fossi perfetto.
Beh io sarò perfetto...

Ma a modo mio.

(QUI c'è il link per l'immagine di Marcus)
 

Angolo dell'arancino autrice:

Ice: “GUAI A TE!!!”
Lasciami stare!!
Ice: “GUAI A TE SE CLICCHI IL TASTO “PUBBLICA”!!!”
Già fatto cara
Ice: “... FUU-”
*le tappo la bocca* Ok, sì, è... scritta malino.
Ice: “È una merda!”
U__U
Lo so e mi dispiace ma di questi ultimi tempi ho pochissime ore al giorno di computer e siccome dovevo caricarla subito perché avevo paura che qualcuno potesse venire in mente la mia stessa idea.

Ice: *facepalm*
Vabbeh, ditemi se è brutta, e forse farò un remake ;)
Ciau <3
P.S. Una cosa per chi segue la mia ff “Vita da proxy”...
*rullo di tamburi*
Marcus ne farà parte! YEAH!!
Per chi è interessato
QUI c'è il link.
E se vi va di leggere altre mie due Creepypasta i link sono qui:

Smiling Alex
Mouthless Oliver

   
 
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