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Autore: Isidar Mithrim    23/09/2008    1 recensioni
Questo è un lavoro che feci qualche anno fa su richiesta della mia prof di italiano e storia...rimasi (e rimase) abbastanza soddisfatta del risultato, quindi eccola qui, al vostro giudizio!
Storicamente, spero sia abbastanza valida, ma mi ero documentata sufficentemente su internet, quindi se le fonti erano attendibili potrebbe esserlo -con un po' di fortuna- anche questa storia^^
Critiche e commenti sono graditi!!
Spero vi coinvolga...
Genere: Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
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IO, VICHINGO

Avvolto nel lenzuolo di lino che la giovane serva, non esageratamente provata, stava passando al suo padrone, un neonato, ancora cosparso di sangue, piangeva a dirotto. L’uomo lo prese delicatamente tra le mani e lo guardò estasiato, come fosse un prezioso diamante. Scrutò a lungo la corporatura della creatura, studiando il suo corpicino nei dettagli ed infine si pronunciò solennemente.
"Egli sarà il mio primogenito! Il divino Freyr ci ha benedetto con questo dono. È forte e sano: diventerà degno della nostra Sippe! Sarà certo un competente navigatore ed un vigoroso guerriero, imparerà ad usare le armi, a correre, saltare, nuotare, arrampicare, cavalcare e a dodici anni sarà un uomo pari a colui che per primo avvistò Markland! Per questo prenderà il suo nome. Onorate mio figlio Thorin!"

E lo adagiò sulle ginocchia, riconoscendolo così come suo discendente.

***************

Intorno alla selvaggina, che cuoceva sopra un fuoco incandescente, ballavano forsennate le schiave seminude. Offrivano calici traboccanti di idromele a uomini già sbronzi, abbandonandosi alle volte a passionali baci. Molte urla si alzavano alte nell’aria, ma non erano grida di terrore, bensì di contagiosa allegria, suoni di voci festanti e spensierate.
La testa di Thorin vorticava pericolosamente, provata da innumerevoli sorsate del nettare di mela. Il trentenne cedeva ai sensuali sguardi delle danzatrici, masticava voracemente tenera carne di pesce, osservava fiero gli altri membri della famiglia, ma soprattutto i suoi cinque figli, uno dei quali non aveva mai festeggiato un Solstizio con il padre e i fratelli maggiori, dovendo rimanere assieme alla madre in compagnia di tutte le donne e i bambini della famiglia.
La bolgia che li circondava cominciò ad acquietarsi al ritmico suono dei tamburi ferocemente percossi. Molti sguardi si volsero verso l’altare non distante. Quando cadde il silenzio, un sacerdote si affiancò alla tavola di pietra e cominciò a parlare. Una frase di benvenuto, seguita dall’esplosione della folla, si tramutò in un discorso.

"Uomini" cominciò il potente religioso "siete qui radunati per volere divino!"

Boati.

"Il potente Thor è amico dei marinai, dei lavoratori e dei guerrieri! Impariamo ad essere invincibili, come se avessimo alla vita la sua cintura! Prendiamo in mano il Mjolnir e prepariamoci a combattere! E’ lui che ha benedetto il nostro cibo, questa notte, lui che ci ha offerto le mele migliori per distillare bevande! Venerate anche Odino, il signore del cielo, che ci guida in battaglia sulla sella di Sleipnir! Lodate Tyr, che fu l’unico in grado di sconfiggere il feroce lupo Fenrir! Amate Freyr, che ci dona la virilità e protegge la fecondità! Rigeneriamoci in questo giorno, rinvigoriamo la nostra forza, prepariamoci per questa guerra che la maggioranza nel Thing ha leggittimamente preteso!"
Thorin esultò con gli altri, trascinato da quella folla strepitante, esaltato dal desiderio di mostrare il suo valore.
"Per il Valhalla, ricambiamo gli dei con un nostro dono!"
Gli uomini esultarono, appagati da quelle parole, mentre due sacerdoti conducevano un ragazzo, con dipinta in faccia uno sguardo orgoglioso, il corpo robusto e il petto nudo, davanti all’assemblea.
"Acclamate Leif!"

Urla sguaiate lo accolsero.
Leif si sdraiò solennemente sull’altare.
Il sacerdote estrasse un’ascia dal lungo manico di tasso, intagliato, secondo lo stile Borre, con un’unica runa, Gebo, il dono degli dei, l’offerta, il Calice, il sacrificio come mezzo per il miglioramento e l’evoluzione.
"Odino- signore dell’Asgard, possente Thor, combattivo Tyr, generoso Freyr, accettate il sacrificio dei vostri uomini e infondetegli coraggio e vigore, affinchè possano sopraffare ogni avversario!"
Terminate queste parole, portò l’ascia dietro le spalle e l’abbattè prepotentemente sul collo del giovane. Prese poi un calice e lo colmò col sangue che sgorgò dalla fatale ferita. Portatoselo alle labbra, bevve.
Anche Thorin si annoverava tra coloro che lo imitarono.

Quando l’alba, qualche giorno dopo, schiarì il cielo e all’orizzonte sorse lentamente la sfera solare, molti uomini, camminando lentamente, ripresero la strada che conduceva ad una baia lunga e profonda, la vik, sulla quale riva le veloci draken erano state ormeggiate.
Thorin camminava a passo altero, avvolto in un mantello a tre quarti. Una delle due spalle era coperta da un farsetto di pellicia, mentre sull’altro intero arto guizzavano i muscoli, sotto la pelle fittamente tatuata. Leoni stilizzati ruggivano con le fauci spalancate, un ponte maestoso congiungeva il Midgard al frassino dell’Asgard, Geri e Freki ululavano alla Luna, due Disen lo proteggevano dalle infermità.
I bracciali e gli anelli di Thorin tintinnavano allegramente, alternandosi al costante rumore dei passi; il vento smuoveva i fulvi capelli, lunghi fino alle spalle, che con la folta barba incorniciavano il volto lentigginoso dell’uomo, creando un ammaliante contrasto con i penetranti occhi celesti, i quali scrutavano con abituale freddezza, dall’alto del suo metro e settanta, il via vai perpetuo attorno a lui.

"Si torna a casa" pensò, combattuto tra l’essere felice o dispiaciuto. Oramai erano cinque settimane che avevano lasciato il loro calmo villaggio e Thorin desiderava di nuovo scambiarsi fuggevoli sguardi con l’avvenente moglie; voleva veder crescere il primogenito del suo stesso erede, montare i suoi cavalli, visitare le sue terre. Inoltre, anche se la maggior parte degli uomini adulti avevano partecipato al Solstizio d’Inverno, temeva che qualcheduno potesse aver preso di mira il suo villaggio, trascinandolo in un’ennesima faida.
Sapeva però che gli sarebbe mancata la frettolosa e frastornante vita ad Helgo, che avrebbe rimpianto le giornate in cui beveveno insieme e discutevano animatamente al Thing e che difficilmente avrebbe dimenticato il giorno in cui fu stabilito di adempiere alla richiesta di Guglielmo il Bastardo, attaccando Harold, usurpatore del trono d’Inghilterra. Avendo preso questa decisione, tempo cinque-sei mesi si sarebbero tutti rincontrati. Il primo giugno avevano appuntamento a Trondheim, luogo forse un po’ settentrionale rispetto alla meta, ma situato sulle coste di uno dei vik più estesi dell’intero territorio: garanzia di una valida protezione naturale.

Thorin cominciò ad inerpicarsi sulla scaletta a pioli che i servi, dopo aver provveduto all’approvvigionamento per il viaggio, avevano riparato e calato in mare. Infastidito dalle brache bagnate dall’acqua salata, non si soffermò ad ammirare nuovamente il laborioso intarsio realizzato sul parapetto della nave per scacciare gli spiriti maligni, ignorando con esso gli scudi ornamentali marchiati dall’incisione "Sippe di Njord", colui che veniva tradizionalmente ritenuto il loro capostipite.

La nave filava veloce, tagliando il pelo dell’acqua con equilibiro e maestria. La chiglia profonda garantiva la necessaria stabilità all’elegante imbarcazione, evitando lo scarroccio anche sotto l’influsso di un leggero vento di ponente. Thorin, ovviamente al comando della nave, pur accusando qualche dolore lungo le ossa, continuava a studiare i costanti moti del sole per premunirsi dal rischio di prendere rotte troppo aperte. Le nuovole offuscavano in parte il cielo, ma il vichingo lo osservava attraverso il suo frammento di Spato d’Islanda e, quindi, la foschia non rappresentava per lui un ostacolo. Durante le brevi notti, meglio definite come lunghi crepuscoli, egli affidava il controllo all’orgoglioso primogenito, come sempre anelante di dimostrare il suo onore. Quando, la mattina di qualche giorno dopo, si risvegliò più tardi del solito, con ancora in bocca il sapore della zuppa serale di cipolle, pesce e vegetali, vide dodici coppie di remi, certamente mossi dagli schiavi, muoversi ritmicamente fendendo la superficie marina. Alzò lo sguardo e la verde terra che vide di fronte ai suoi occhi confermò il suo sospetto che oramai le vele permettevano solo manovre troppo imprecise per il momento dell’approdo.
Due giorni dopo potè finalmente riabbracciare la moglie, che lo accolse vestita con un mantello smanicato e una semplice veste di lino coperta parzialmente da un indumento formato da due parti, tenute unite da fermagli.
Un moto d’orgoglio lo percorse alla vista delle tre giovani figlie snelle e prosperose, che lo accolsero con gaudio, felici.
Fu sodisfatto dall’apprendere che nessuno aveva osato inoltrarsi nei suoi territori, ma gli mutilò il cuore scoprire che uno dei suoi nipoti avveva ucciso un uomo di spalle, ed era stato finito per la sua vigliaccheria, forse dovuta alla consapevolezza che, in uno scontro a viso aperto, non avrebbe ottenuto la meglio.
Rimase piuttosto indifferente quando scoprì che la moglie del suo discendente si lamentava di avere le gengive dolenti, ma quando la vide con più lividi di quanto si possa considerare normale, si adirò pensando che fosse stata maltrattata. Ma, a quanto pareva, lei negava vivamente di essere stata sfiorata da chicchessia.

Così Thorin riprese la solita vita: controllava i contadini nei campi, difendeva la Sippe dalle ingiurie delle altre famiglie, trattava le vendite e l’acquisto di schiavi, giaceva con la moglie e si trastullava con le serve, giocava alla "guerra sull’isola", ma soprattutto si curava di insegnare ai figli minori le arti che lui stesso aveva appreso sin da giovane. Spiegava loro qual è il comportamento idoneo per un uomo, gli inculcava in mente i germi della vendetta e dell’onore, ribadiva la differenza tra un furto, silenzioso e codardo, ed una rapina, intrepida e a cielo aperto.
Ma arrivò finalmente il giorno di abbandonare nuovamente la sua casa, per prepararsi al raduno di guerra. Con sè portò tutti i giovani più forti e valorosi, compresi sei dei suoi figli: uno di questi era al suo primo, vero viaggio, e tutti alla prima, vera battaglia, che niente aveva a che vedere con le diatribe e le frequenti faide tra le varie comunità. Scelse i servi in grado di governare una nave e abbastanza forti per remare, invocò gli dei affinchè gnomi ed elfi non scatenassero tempeste, caricò a bordo gli scudi, le frecce, le spade, le asce e i giavellotti, tutti artisticamente decorati con poderosi e tenaci animali, rune propiziatorie, divinità favorevoli. E quando ogni preparativo fu ultimato, salpò.

Era il 7 agosto del 1066 quando, dopo giorni di attese, preparazioni e baldoria, le navi di stanza a Trondheim furono finalmente pronte a partire. Gli uomini non scherzavano più, ormai era giunto il momento di mettere da parte gli svaghi e i piaceri, per dedicarsi alla guerra. Thorin si sentiva pervaso da un tale senso di coraggio e da un desiderio di combattere tanto forte da sembrare innati. Ai suoi occhi quello che stava per vivere appariva il più cruciale ed importante combattimento della sua vita. E non aveva tempo nè necessità di pensare a ciò che lo attendeva.
"Mai temuto i rischi, io."
Attorno a lui vi erano moltitudini di uomini pronti a combattere: alcuni erano visibilmente dei guerrieri, ma a frotte continuavano a sapraggiungere uomini aventi a tracolla archi di acero adibiti alla caccia, armati di coltellacci anzichè spade, vestiti solo di grezzi abiti colorati da decorazioni; evidentemente non erano equipaggiati nè, forse, addestrati a combattere, ma la forza di un uomo che smania di saccheggiare è forse più devastante di mirati colpi di lancia.

Ormai, comunque,Thorin non riteneva più importante sapere chi c’era o chi mancava: il re Harald Hardrada, che da venti anni troneggiava sulla Norvegia, era giunto da due settimane ed aveva esortato i suoi uomini ad essere pronti a confrontarsi con qualisasi nemico, ad essere disposti a perdere la vita per questa giusta causa, ad andar fieri di poter partire con sì valorosi compagni, a bramare di vedere scorrere il sangue nemico.

Fu così che, non troppo tempo dopo, Thorin si ritrovò circondato da festosi uomini delle Shetland e delle Orkney, loro alleati, reclutati nelle prime tappe del bellicoso pellegrinaggio in terra inglese. Era ansioso, come tutti, di giungere alla foce del Tyne, dove li aspettava Tosting, il fratello traditore di "Re" Harold, deposto da poco come conte di Northumberland. Nonostante fosse, e rimanesse, un maledetto inglese, non poteva che apprezzare questo spirito di perfida e dichiarata vendetta. "Sì", ragionò, "Harold avrà ciò che si merita".

L’armata di Tosting si presentava più disciplinata di quella scandinava, costituita per lo più da combattenti addestrati, o in grado di apparire tali nascondendo la propria imperizia. Thorin riconobbe tra i loro armamenti lance, robusti e ciroclari scudi in legno rozzamente lavorati, spade a doppio taglio e battleaxe, maneggevoli asce da guerra che non aveva mai visto in mani inglesi, ma che aveva avuto modo di conoscere in territorio danese, anni addietro. Si sentì assai fiero del proprio arco, quando comprese che i nuovi alleati non disponevano di un plotone di arceri.
Oramai l’armata vantava una flotta di trecento navi, che insieme ripartirono per risalire l’Humber. Thorin, veleggiando con il resto delle navi, ammazzava il tempo cercando di istruire i marinai che da Trondheim ospitava sulla sua draken, insegnando loro i più semplici trucchi con la spada, o con quale altra arma avessero a loro disposizione.

Il 3 settembre del 1066 l’ingrossato esercito giunse a Riccall, dieci chilometri a sud di York, la più importante città inglese del settentrione; le navi fuorno lasciate agli schiavi che, su consiglio di Tosting, si sarebbero occupati di trasferirle sulla foce del Derewent, il fiume più vicino nella direzione in cui l’esercito, lasciato a piedi, desiderava procedere.
In quel giorno e il dì seguente, mandate in esplorazione le sentinlle inglesi arruolate nelle Orkney, l’esercio cominciò ad allestire rapidamente un provvisorio accampamento di tende, montate alla meno peggio.
Aggirandosi per il campo chiassoso e disordinato, Thorin si stava recando dal re Harald, che aveva convocato alla sua presenza i capi della Sippe, o almeno quelli delle famiglie più note, tramite un efficace passaparola; quando il vichingo arrivò al suo cospetto, vide già radunati una cinquantina di uomini, che ben presto raggiunseo il centinaio. Quando ormai la folla vociante non avrebbe più tollerato l’attesa, Harald di Norvegia aveva già cominciato a discorrere, conquistando rispetto nel silenzio che scese tra gli ascoltatori.
"Capitani", li apostrofò, "tenete svegli e preparati i vostri uomini! Le mie sentinelle riferisocno che i conti Edwin e Morcar stanno schierando un’armata nei pressi di Fulford, a meno di due ore di marcia dal nostro accampamento!"

Ovazioni rabbiose e inferocite pervasero l’aria.

"Domani all’alba partiremo per distruggerli!"
Thorin sbattè ripetutamente e ferocemente i piedi a terra, esultando con gli altri.

Le armate norvegesi si muovevano sparpagliate e gli uomini producevano un forte clamore battendo gli scudi e citando gridi di guerra, fomentati al pensiero del destino che li attendeva. L’esercito di Tosting si muoveva rispettando le indicazioni del loro comandante, avanzando molto più ordinatamente, ma senza regole troppo rigide.
Thorin non faticava mentre marciava tra le fila seguito dai figli, nonostante il peso delle armi destabilizzasse anche uomini abbastanza robusti. Camminava incessante, invogliando gli altri a prenderlo come esempio e velocizzando i passi, sempre più desideroso di combattere, di scatenare la rabbia che gli montava dentro, aizzata dai motti di guerra che contribuiva a proclamare a gran voce.
Il tempo trascorse rapidamente e in breve tempo riconobbero in lontananza le truppe inglesi che, chiaramente avvisate del pericolo, si stavano già disponendo in assetto di guerra.
Harald, uno delle poche dozzine di uomini che montavano il dorso di un destriero, stabilì che le sue truppe si dividessero in due gruppi, i quali sarebbero diventati le falangi laterali, mentre al centro presero posto i ribelli soldati inglesi.
Le prime linee erano occupate dai fanti e dagli uomini meglio equipaggiati, mentre dopo gli arceri, anche se in realtà quasi tutti i membri delle varie Sippe erano dotati di arco, si trovavano i soldati armati più leggeri e la misera cavalleria, costituita da pochi elementi trasportati dallo Shetland sulle navi e dall’esiguo numero di esemplari selvaggi catturati nella valle dell’accampamento.
L’avanzata delle truppe cominciò lenta, per velocizzarsi sempre più a mano a mano che ci si avvicinava allo schieramento avversario, il quale sembrava stesse allestendo gli ultimi preparativi. Dall’accampamento stavano giungendo gli alfieri con gli stendardi di York e dei conti Edwin e Morcar.
I norvegesi cominciarono a correre sui muscolosi arti e le due ali dell’esercito si distaccarono dalle truppe centrali e dal corpo degli arceri scelti.
Gli inglesi che erano posti alla difesa meridionale di York, nonostante fossero pronti a fronteggiare il nemico, furono letteramente travolti dalla violenza devastante degli altri combattenti.

Thorin si muoveva agile sulle gambe. Ben presto abbandonò il giavellotto nel torace di un malcapitato e continò a procedere sferzando colpi, quasi alla cieco, di ascia e gladio. Sfondava feroce e letale le truppe nemiche, osservava il sangue sgorgare dalle vene tranciate e rinsaldava sempre di più la presa sulle armi macchiate di rosso. Non si curava dei compagni che cadevano vicino a lui, anzi quasi non vi faceva caso. Qualcosa lo colpì violentemente alla coscia facendolo vacillare, ma non riportò tagli troppo profondi. Preso da una foga distruttiva, si fece avanti nel tumulto della battaglia e si ritrovò fianco a fianco con uno dei suoi cugini, ed insieme cominciarono a pararsi alle spalle a vicenda, spostandosi sulle righe nemiche anche in linea orizzontale e non solo in sfondamento. Le cose per loro si fecero più difficili quando i nemici cominciarono a riprendere il controlllo, e verso il loro esercito piovvero sibilanti nugoli di frecce, che abbatterono però tanti sfidanti quanti alleati. Il compagno di Thorin fu colpito da un dardo e quindi lui quasi cedette sotto il peso del cugino, ridotto ormai ad un corpo inerte.

Le due ali stavano egregiamente compiendo il loro lavoro di penetramento, tranciando trucidamente innumerevoli vite in un’avanzata costante. Il re Harald fu quasi travolto dal suo cavallo, abbattuto, ma si rimise subito in piedi, incolume, e riprese a tirare vigorosi colpi di spada. Intanto gli arceri si erano spostati in avanti, in proporzione con l’arretramento degli abitanti della contea di York, scansando i corpi dei morti di tutti e due gli schieramenti. Avevano cominciato con successo a scagliare frecce sui nemici, oltre ai loro alleati, che continuavano ad avanzare, anche se sempre più affaticati.

Thorin cominciò ad accusare lo sforzo e il dolore della ferita sul quatricipide si era accentuato, accompagnato da diversi ematomi e qualche altra ferita lieve. Finalmente, sentì, come pattuito, il suono squillante del corno di Tosting. Allora comiciò a ritirarsi davanti ai volti esterrefatti degli avversari, consapevole che in quel momento i loro arceri, evidentemente già da un po’ entrati un’azione, si sarebbero spostati ai bordi del loro schieramento, coprendo loro la ritirata e liberando il terreno davanti alla falange centrale, che partì alla carica urlante e tenne in pugno l’intero esercito nemico, fino a quando non fu sbaragliato e definitivamente sconfitto dalla fresca cavalleria, che si trovò a sfidare soldati stanchi e provati.

A sfuggire al flagello vichingo furono solo quei pochissimi che, troppo codardi per affrontarli, scapparono via con la coda tra le gambe. Le teste decapitate dei due conti furono impalate nei loro stessi vessilli.

Prima che il Sole tramontasse, non troppo presto vista la stagione, tutti i corpi che si riuscivano ad identificare come "amici" furono raggruppati dai superstiti in un unico cumulo, dove vennero bruciati. Ad essere accolti dalla dea Hel nell’enorme camera a lei dedicata dentro agli Inferi, vi furono anche due figli di Thorin e qualche suo parente, di cui furono identificati i corpi o che non risposero all’appello. Quando i soldati norvegesi, guidati dal loro re, realizzato dall’esito della battaglia, cominciarono a riavviarsi verso l’accampamento, il falò ancora bruciava e avvampava, simile ad un inferno di fuoco.

Erano passati vari giorni dall’ultima operazione delle truppe. La città di York era stata bruciata e deteriorata dai vichinghi, gli abitanti uccisi, i tesori saccheggiati, le donne violentate, i bambini trucidati senza pietà, i sacerdoti stanati nel loro riparo cosacrato da Dio.

Arricchiti dai bottini di guerra, i combattenti desideravano ritornare alle loro case per utilizzare le laute fortune conquisatate. Eppure, l’onore ancora li legava alla battaglia che stavano portando avanti vittoriosi. Quando si scoprì che da est stava giungendo in soccorso della regione lo stesso Harold d’Inghilterra, proprio in direzione del luogo dove le loro navi erano ormeggiate, il re Harald Hardrada, per soddisfare entrambi i desideri dei suoi uomini, decise di dirigervisi contro, per mettere finalmente fine a questa battaglia e poter ritornare in patria vincitore ed arricchito.

Il 18 settembre le truppe si accamparono vicino a Stamford Bridge, non molto lontano dalle numerosissime navi che ebbero modo di ritrovare e colmare di tesori. Furono mandati uomini all’avanguardia per l’esplorazione del territorio in cerca di elementi che potessero favorirli durante lo scontro.
Il 25 settembre giunse nella città Harold, con le sue truppe ben più cospicue e meglio armate, e fu lui stesso a cercare lo scontro aperto, che ben presto dilagò prepotentemente.

Dimenandosi nel cuore della battagliaThorin cominciò nuovamente ad accusare un acuto dolore alla vecchia ferita, infertagli ormai abbastanza giorni prima; per questo vacillava instabile mentre continuava a combattere, ma all’improvviso si riprese, quando a poco più di trenta metri da lui scorse il suo re che lottava strenuamente. Così, si fece faticosamente strada verso il suo amato sovrano e cominciò a menare fendenti, nel tentativo di difenderlo dall’assalto feroce dei nemici. Un dardo gli colpì il costato, e il colpo lo fece sussultare. In quel momento di distrazione l’uomo con cui duellava ne approfittò non per finirlo, ma per lanciarsi sul re e trafiggerlo ancora e ancora sferzando l’ascia, seguito dai suoi, ora festanti, compagni.
Thorin, amareggiato e profondamente deluso dal suo fallimento, si portò l’arma alla gola e pose fine all’onta di vergogna che lo aveva assalito alla vista del suo re che soccombeva sotto gli infami colpi inglesi.

Il giorno seguente Harold ammirò ciò che il suo esercito era stato in grado di fare. Mentre poco più di venti navi norvegesi si vedevano fuggire all’orizzonte, le altre centinaia ancora bruciavano, insieme ai cadaveri dei due comandanti, il re norvegese Harald e il suo stesso fratello Tosting, traditore del proprio sangue.

Il re esultava fiero, ingnaro del fatto che, appena nove giorni dopo, sarebbe anche lui perito ad Hastings, sotto le affilate lame delle truppe del normanno Guglielmo che, da quel giorno, fu chiamato Conquistatore.

 

****************

 

 

 

Le tappe che sono state narrate di questa battaglia sono effettivamente avvenute e storicamente documentate. Vero è che questa guerra viene spesso solo e semplicemente citata come la vigilia di Hastings, scontro ben più rilevante, dove i soldati di Harold arrivarono stanchi proprio a causa del conflitto descritto; bisogna quindi ammettere che le dinamiche del combattimento sono inventate, anche se ambientate su uno sfondo reale.

I vichinghi, in realtà identificabili con tre popoli autonomi e diversi che non furono praticamente mai in conflitto tra loro,  erano comunemente ritenuti uomini forti, vigorosi e addirittura più alti delle altre popolazioni europee, con la loro statura di 1, 70 cm, a quel tempo altezza abbastanza elevata. Nonostante questa nomea di uomini sani e robusti, per la loro vita vicino al mare in realtà soffrivano spesso di artrite e reumatismi (anche Thorin accusa dolori alle ossa). Inoltre avevano un’alimentazione priva di agrumi, ovvero di vitamina C; nonostante ciò non sono stati registrati frequenti casi di scorbuto, ma alle volte questa malattia poteva colpire qualcheduno; proprio i suoi sintomi si ritrovano nella nuora, che accusava dolore alle gengive e lividi apparentemente apparsi senza motivo.
Vorrei spiegare, infine, in cosa consista la “guerra dell’isola” e cosa sia lo Spato d’Islanda.
La “guerra” è un gioco (nella loro ideologia) che prevede sfide a duello con armi. Essi a volte potevano anche incidentalmente finire male, ma questo non era un grande cruccio, poichè la vita, anche la propria, presso i vichinghi non aveva molto valore. E’ per questo che venivano praticati sacrifici umani e sempre per lo stesso motivo che si potevano “scartare” i figli alla nascita. Anche Thorin non sembra struggersi dal dolore alla perdita dei figli e dei cugini in battaglia. Secondo la credenza vichinga, ciò che era essenziale per un uomo era l’onore, e tutto quello che facevano portava prestigio, o discreditava, la Sippe. Si usava dire che “La vita passa, la Sippe rimane”.
Lo Spato d’Islanda, conosciuto più comunemente come calcite, era una pietra che, per delle particolari caratteristiche di filtrazione della luce, permetteva di studiare i moti del Sole anche  se coperto dalle nuvole.

 

   
 
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