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Autore: shalalahs    02/09/2014    2 recensioni
Non scappare ancora, Bucky. Ti prego.
La porta, di scatto, si apre, lasciando intravedere a Steve una sagoma indefinita all'interno dell'abitazione. C’è buio -ed il cielo nuvoloso non aiuta certamente-, ma il Capitano riesce solo a cogliere un luccichio metallico, un luccichio che si riflette nella sua mente come un ricordo sfocato dall'acqua e dal resto delle lamiere che gli affondavano addosso, prima di veder spuntare dalla stessa ombra la sagoma di una pistola. L'arma da fuoco è sorretta da una mano inguantata di nero, completamente avvolta da dei vestiti laceri e sporchi.
Poco a poco, infine, passo dopo passo, anche la sua sagoma si fa largo oltre la porta, mostrando un volto fin troppo noto e -al tempo stesso- dolorosamente estraneo. Un volto che racconta più di quanto dovrebbe, di sofferenza e costrizione, confusione e rabbia.
«Bucky-»
«Smettila di seguirmi.» sibila l’uomo con un tono freddo, ma rotto, come i cocci di un vetro; fragili ed affilati, che -se presi dalla parte sbagliata- rischiano di squarciare e tagliare.
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Steve Rogers
Note: Movieverse, OOC | Avvertimenti: nessuno
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NEVERDYING

 

And without you is how I disappear
And live my life alone forever now
Can you hear me cry out to you?
Words I thought I’d choke on, figure out
I’m really not so with you anymore I’m just a ghost
So I can’t hurt you anymore, so I can’t hurt you anymore
And now, you wanna see how far down I can sink?
[My Chemical Romance - This Is How I Disappear]

 

 

«Sicuro di voler andare da solo?»
«Sì, Natasha, è qualcosa che devo fare da solo. Ti ringrazio per tutto l'aiuto, ma ora vado avanti da solo.»
Natasha aveva annuito, con aria un po' preoccupata. Se hai bisogno chiama, sembrò dire il suo sguardo.
In quel momento, senza pensarci, le aveva sorriso e restituito il bacio sulla guancia che lei stessa gli aveva donato mesi e mesi prima, al cimitero. Sapeva che sarebbe stato un gesto strano, ma per lui -uno abituato alle vecchie usanze- era più che improbabile ed azzardato.
«Uh, trasgressivo il Capitano.» ridacchiò lei, mettendolo nuovamente a disagio.
«A presto, Natasha.»

La risata della Vedova Nera gli riecheggia nella testa, nonostante tutto, non capisce ancora cos'ha detto o fatto di così divertente agli occhi della donna. Probabilmente si tratta di cose da figli del ventunesimo secolo. È arrivato fin dove può, con le ricerche, con le indagini. E sa perfettamente che è come inseguire un animale, che la fuga rischierà solo di renderlo più aggressivo, ma gli è stata lasciata davvero molta scelta? Come se non bastasse, Bucky ha anche un braccio lussato -o forse rotto, che ne sa? Nella confusione del momento non ricorda altro che un rumore sgradevole e fastidioso, ma l'adrenalina era tanta e lui spera tutt'ora di essersi sbagliato, di non aver fatto danni irreparabili preso dalle emozioni e dall'ansia. Nonostante tutti gli allenamenti, nonostante tutta la preparazione, l'idoneità agli sforzi psicologici.. James è stato troppo, troppo per la sua mente, più di quanto avrebbe potuto sopportare.
A volte si è svegliato nel bel mezzo della notte, sperando di non aver mai tolto quella maschera. Altre, invece, non gli sembra neanche vero. Bucky, James, Barnes, il suo migliore amico è vivo. Vivo.
Dire che il senso di colpa lo ha afflitto più del solito è un eufemismo. Sapendo cosa gli è successo, cosa quei cani dell'Hydra gli hanno fatto, si è pentito più che mai di averlo lasciato cadere, di aver anche solo pensato che fosse morto, di averlo abbandonato in mezzo alla neve senza neanche cercare di mandare una pattuglia per trovare il corpo, anche solo per un funerale degno.
Ed ora, davanti a quella baracca dimenticata, tutte le ansie, le colpe e le paure tornano alla mente, assillandola e martoriandola, mortificandola.
Steve è abituato a contenere l'ansia, a controllarla, ma quando si parla di Bucky è più difficile di quanto possa credere.
Sospira, cercando inutilmente di scaricare la tensione. Andiamo, non sarà più difficile di salvare il mondo, Rogers.
Gonfia il petto, per poi trattenere il respiro. Il primo passo fa un rumore tremendo, rimbomba e spezza i rametti secchi. Gli sembra un gran chiasso, per un solo passo, come se poi Bucky dovesse improvvisamente accorgersi di lui e scappare via, da un'improbabile porta sul retro.
Avanza, ancora, lentamente, i jeans usurati che sfregano fra loro, fra passo e passo. Il golf blu scuro, anonimo, viene sistemato, ma il cappuccio ancora resta sulla testa, a celare i capelli biondi e corti, lisci.
Non appena esce dal folto della foresta, però, qualcosa di insolito pare avvenire. Un'ombra veloce attraversa la finestra, lasciandolo interdetto. Sa perfettamente chi c'è là dentro, ma nonostante tutto non può celare e impedire al timore di rallentare il suo passo, rendendolo esitante.
Non scappare ancora, Bucky. Ti prego.
La porta, di scatto, si apre, lasciando intravedere a Steve una sagoma indefinita all’interno dell’abitazione. C’è buio -ed il cielo nuvoloso non aiuta certamente-, ma il Capitano riesce solo a cogliere un luccichio metallico, un luccichio che si riflette nella sua mente come un ricordo sfocato dall’acqua e dal resto delle lamiere che gli affondavano addosso, prima di veder spuntare dalla stessa ombra la sagoma di una pistola. L’arma da fuoco è sorretta da una mano inguantata di nero, completamente avvolta da dei vestiti laceri e sporchi.
Poco a poco, infine, passo dopo passo, anche la sua sagoma si fa largo oltre la porta, mostrando un volto fin troppo noto e -al tempo stesso- dolorosamente estraneo. Un volto che racconta più di quanto dovrebbe, di sofferenza e costrizione, confusione e rabbia.
«Bucky-»
«Smettila di seguirmi.» sibila l’uomo con un tono freddo, ma rotto, come i cocci di un vetro; fragili ed affilati, che -se presi dalla parte sbagliata- rischiano di squarciare e tagliare. La fronte è appena perlata di sudore, il che fa semplicemente impensierire Steve. Si ferma, ma non riesce a trattenersi oltre, compiendo un passo in direzione dell’altro.
Uno sparo lo fa sobbalzare ed abbassare istintivamente lo sguardo sui propri piedi; proprio lì, a pochi centimetri, c’è il foro di un proiettile.
«Ho detto: smettila di seguirmi.» ripete la voce di Bucky, quasi più affranta. Sembra una richiesta, eppure i suoi occhi dicono il contrario; lotta e non se ne rende conto. Lotta e non lo lascia avvicinare.
«Non posso, James, non lo posso fare.» ribatte con più fermezza Steve, degluttendo un fiotto di bile, tutti i muscoli tesi, non tanto per la paura o per l’adrenalina -non vuole credere che Bucky sia capace di fargli del male, non può, non dopo che gli ha salvato la vita-, quanto per l’importanza del momento. Ora o mai più, si ripete, come una nenia.
Ora o mai più. Ora o mai più. Ora o mai più. Ora.
Deve convincerlo, deve riportarlo a casa e salvarlo da quella stessa maschera che lo hanno costretto ad indossare, fino a farla diventare il suo unico volto. Chi diavolo è Bucky?, se lo ricorda ancora; una domanda che, quando venne sentita, lasciò l’amaro in bocca.
«Ti ho lasciato cadere dal vagone, ma ora non commetterò lo stesso errore.» aggiunge, cercando di avanzare di un passo, di nuovo. Mai arretrare. Non in queste situazioni. «Mi dispiace, Bucky, mi dispiace così tanto, non ho passato giorno a rimpiangere di averti lasciato cadere e so che forse sarà difficile credermi ancora, ma voglio rimediare. Per favore, ti prego, non voglio perderti di nuovo.» la voce si spezza e gli occhi bruciano. Lo ricorda come se fosse ieri. E l’unica cosa che riesce a ricordare è il suo volto che, velocemente -troppo velocemente- scompare in mezzo ai fiocchi di neve, il rumore del treno assordante che non gli permette di urlare abbastanza e la tartassante colpa di non essersi mosso abbastanza presto.
L’ho lasciato cadere.
James, di rimando, rimane completamente in silenzio, continuando a puntargli contro la pistola. «Il prossimo colpo sarà alle gambe, non costringermi.» aggiunge, indietreggiando di un passo.
«Dovrai ammazzarmi, se è davvero fermarmi ciò che vuoi.» continua repentino Steve. Steve, solo Steve. Non un soldato, non Capitan America, non un Vendicatore. Solo Steve. Il ragazzo gracilino che faceva affidamento solo ed unicamente sul suo migliore amico Bucky, quando anche sua madre lo abbandonò, portata via da una sorte crudele, umana, natuarle.
«Steve..» sentire quel nome, come se fosse quasi una preghiera, gli stringe il cuore, facendo salire un groppo in gola. Perché non mi lasci entrare?
Avanza, ignorando quella preghiera strozzata dalla voce, ma gridata dai suoi occhi. Non può abbandonarlo. Non lo abbandonerà, così come lui non l’ha mai abbandonato. Sparami, James. Sparami, è quello che mi merito.
Sparami.
Un urlo rompe il silenzio, un urlo disumano e disperato. Un proiettile fischia nell’aria, troppo vicino al suo orecchio, facendo male, mentre un fischio gli risuona nel timpano, assordandolo per un attimo. «Smettila, dannazione! Smettila!» grida James, l’arma da fuoco che ormai è caduta a terra, nel fango.
Lo vede accartocciarsi, crollare sotto il peso di chissà quanti pensieri, invisibili e muti ai suoi occhi ed alle sue orecchie. Lo vede indietreggiare finché la parete di legno ammuffita e scurita dalle intemperie non blocca la sua schiena, facendola scivolare con un rumore scricchiolante e sordo. Lo vede raggiungere il terreno e respirare irregolarmente, spezzato, completamente scoperto. Lo vede lottare contro la propria testa, reggendola fra le mani e stringendola, celandogli gli occhi, impedendogli di poter osservare la sua espressione.
Al contempo, sa -amaramente- com’è fatta quell’espressione, quanto possano essere pesanti ed assordanti quei pensieri, quanto la parete sembri un’entità estranea, ma quantomeno rassicurante, solida, in mezzo a quel terriccio fangoso e precario. Sa com’è sentire la terra sotto i piedi e pensare di non essere ancora impazziti. Sa cosa significa nascondere la propria faccia davanti a qualcuno di cui ci si vorrebbe fidare e, al contempo, non può essere degno di fiducia, poiché è cambiato, è un’altra persona, e tutta quella potrebbe essere una semplice bugia. Come quelle che gli hanno incolcato nella mente per tutti questi anni, affollandola di elementi inutili, annichilendola quasi totalmente.
«Bucky» lo chiama, accorrendo, correndo, mai abbastanza velocemente, in sua direzione, buttando le ginocchia a terra, infischiandosene del fango, dello schifo, di tutto. «Bucky sono qui» ripete, allungando le mani senza sapere dove toccare, se toccarlo. «Per favore, voglio aiutarti, permettimi di aiutarti» Bucky non risponde, mormorando parole senza senso, emettendo dei lamenti simili ad un pianto. «Bucky.. James-»
«Tutte quelle persone..» una voce rotta proviene da oltre quel muro fatto di lamiere e carne, instabile e debole, in procinto di crollare. «Tutte quelle persone..» ripete, stringendo i pugni. «Dovevo proteggere, non..» boccheggia, lasciando a Steve il tempo di osservarlo, di allungare le mani. «Ti ho sparato.» sibila di nuovo, quasi incredulo, guardandolo finalmente negli occhi.
Le mani del biondo raggiungono quelle dell’amico, le stringono, le premono contro il volto segnato dal ghiaccio e dal dolore, dalla solitudine e dalla perdita di sé, della propria coscienza. Le tengono salde, ferme, riscaldandole -sono così fredde, così dannatamente fredde.
«Non è stata colpa tua, Bucky. Non è stata colpa tua.» la voce trema, freme, frettolosa. Ci sono tante cose da dire e così poco tempo per dirle. «Va tutto bene, ora andrà tutto bene.» gli tiene la testa ferma, senza neanche pensare che all’altro potrebbe infastidire. Non può perderlo. Non di nuovo. Ti tengo, Bucky, ti tengo stavolta.
«Steve..» sembra una realizzazione, una sorpresa quella parola, adesso. Come se lo vedesse per la prima volta.
«Sì, Bucky, sono io.»
«Mi dispiace tanto.» ansima, gli occhi lucidi, azzurri, così dolorosamente peni di colpa e dispiacere.
«Non importa. Hey, guardami. Guardami» lo tiene saldo, lo mantiene lì, presente. Non può perdersi nella sua mente. «Non devi pensarci. Non devi, hai capito?» chiede, vicino a quel volto. Continua a guardarlo negli occhi, a respirare la stessa aria che respira lui. Un groviglio troppo intricato per essere sciolto, quello creato dall’intrecciarsi delle loro vite. Uno accovacciato sull’altro, come uno scudo contro il resto del mondo, per impedire a quella realtà di entrare e ferire ulteriormente l’amico, il compagno. Non ti lascio stavolta, Bucky.
«Va bene.» mormora, piano, sommesso James, annuendo fra quelle mani grandi e calde. La voce di Steve sembra calmarlo, quel calore e quella vicinanza stabile sono confortevoli. Sanno di casa, di familiarità, di sicurezza. Lo tengono ancora saldo, coi piedi per terra. «Va bene.» ripete ancora. Steve annuisce, allentando appena la presa -strinta senza neanche accorgersene. Scosta i capelli da quel volto macchiato dalla barba incolta e dalla sporcizia, abbandonando delle carezze gentili e premurose.
«Va tutto bene.» ripete, più basso. «Va tutto bene, Bucky.» ci sono io qui con te, ora.
«Pensavo che non ti avrei più rivisto.. Pensavo..» ansima James, ansima come se avesse appena corso chissà quanti chilometri in una volta.
«Anch’io, Bucky, anch’io.» non c’è bisogno di spiegare certe cose. Certe cose le capisce, certe cose con James non devono essere esternate. Sono sempre bastati dei cenni, delle piccole frasi. Si sono sempre intesi e, tutt’ora, Steve si rincuora che qualcosa non è cambiato. Che, sotto sotto, se scavano abbastanza a fondo, sono ancora loro: i due migliori amici di sempre.
«Mi sei mancato così tanto.» è un tono basso e la voce raschia, come le persone che non parlano da giorni -troppi giorni-, come se alzandola rischiassero entrambi di rompere la pace di quel momento.
Tutto ciò che Steve riesce a fare, in risposta, è una risata soffocata, sbuffata, che lo fa inclinare appena verso l’amico, mentre gli occhi si scostano da quelli altrui per percorrere i tratti di quel volto. Bucky è cambiato; è diventato qualcun altro, è invecchiato nonostante tutto. Bucky coi capelli lunghi è un’idea bizzarra, ma ormai effettiva, reale. Bucky ha delle cicatrici in più ed un’aria fin troppo martoriata, quasi trascurata.
La risata, però, muore com’è cominciata, lentamente, ma fin troppo presto per non far notare il silenzio. Un silenzio che non viene interrotto da nessuna parola, poiché gli occhi s’incrociano e rimangono assorti, rasserenati, macchiati da una piccola sfumatura di nostalgia. E Steve riesce stranamente a vedere soltanto gli occhi di James. Lo sgomento non è ancora passato, non totalmente. Saperlo lì, vivo e vicino, sembra più l’inizio di uno di quei sogni da cui nessuno vorrebbe mai svegliarsi, poiché -quando si riaprono gli occhi- rimarrebbe solo la triste consapevolezza che non sarebbe mai stato possibile.
Le ciocche castano scuro, liscie di James vengono trascinate nuovamente in faccia all’uomo da un filo di vento, costringendolo a sbattere appena le palpebre. Quegli occhi azzurri fanno male, per un certo verso, perché stringono ancora di più il nodo al petto del Capitano. Il suo sterno è come diventato un contenitore ricolmo di emozioni, troppo forti, troppo complesse, che premono per uscire, per farsi sentire anche dal resto del mondo -da Bucky, perché ora come ora è Bucky il suo mondo, l’unico pezzo di mondo che gli sia rimasto. Eppure, quel nodo le trattiene, dando a Steve l’impressione di esplodere, lentamente, sotto la stessa pressione di quegli occhi.
« ..Entriamo?» mormora, all’improvviso, distratto, sbattendo per la prima volta le palpebre; una, sola ed unica volta.
Bucky annuisce, ma è come la scena di un Assurdo; non importa quanto ci si voglia muovere, non ci si riesce mai definitivamente e totalmtente. Anziché divergere, quei corpi paiono convergere, che altro. Tanto che è un attimo, un singolo attimo in cui l’attenzione scivola assieme al controllo, sormontata dall’istinto più recondito e nascosto, invisibile. Un attimo e le loro labbra si sfiorano, impattano, collidono. Un attimo che si dilata e non riesce comunque a finire, poiché anche il resto degli arti si prende il suo attimo: un attimo per chiudere gli occhi, un attimo per respirare l’odore familiare e colpevole di casa, un attimo per stringere quel volto fra le proprie mani, carezzandolo; un attimo per sentire l’altro reagire e muovere con altrettanta -inaspettata- passione le labbra. Un attimo per ricordarsi che si tratta di Bucky, di un altro uomo, di qualcosa che fin da giovani sono stati costretti a denigrare, data la forte idealizzazione della figura maschile.
Steve si stacca con un misto di straniamento e inquietudine, ma anche malavoglia, stranito. Ansima anche lui, adesso, come se avesse corso chissà quanto. Deglutisce, il sapore delle labbra altrui ancora sulle proprie sembra un ricordo agrodolce, come il sapore del sangue. Lo scruta, tossendo appena, in un attimo di puro e semplice imbarazzo.
«Entriamo.» ribadisce Bucky, facendo annuire Steve in un modo quasi convulso.
«Scusa. I-io..» prende un respiro, staccando le mani dalla faccia del compagno. «Non so cosa mi abbia preso.» è solo la felicità del momento, si ripete mentalmente. Si è solo trattato di un errore. Sì, un errore.
Ma Bucky non risponde, spingendolo ad alzarsi e fargli spazio per poterlo imitare poco dopo. Con un’aria abbastanza introversa, tipica del Soldato d’Inverno, tenendo gli occhi bassi -lanciandogli una sola occhiata strana, diversa, curiosa e anche schiva- prima di defilarsi all’interno della casa.
Steve rimane in silenzio, gonfiando il petto e stringendo i pugni, non sapendo bene cosa fare. Ha baciato Buck. No, no, ha baciato Buck. Cos’aveva in testa?
«Entra.» la faccia di James fa capolino dalla penombra della catapecchia, facendolo sobbalzare.
«Arrivo.» borbotta senza pensarci, quasi più come una risposta automatica, che una vera e propria, pensata. Tant’è che si ritrova a camminare fino alla soglia della catapecchia, senza fare un rumore, per poi restare lì come impalato, chiudendosi la porta alle spalle -con la netta sensazione di star facendo di nuovo la cosa sbagliata. Sì, come se volessi chiuderti dentro con lui. Oh, Cristo, perché a me?
Bucky è all’interno della catapecchia, sta rovistando fra dei barattoli di cibo precotto -o almeno, sembra cibo precotto. I barattoli sono di un metallo lucido, senza scritte od altro. Come nell’esercito, insomma.., è un pensiero automatico, non controllato, che risveglia ricordi vecchi più di cinquant’anni. Azzarda un passo in avanti e James, finalmente, si volta, afferrando sì e no tre barattoli nelle proprie mani.
«Hai fame?» chiede con una nota sconosciuta nella voce. Sembra di nuovo come se il Soldato d’Inverno avesse ripreso il controllo sulla sua faccia, sulla sua voce, rendendolo apatico e distaccato. «Ci sono solo pollo e.. fagioli, penso.» aggiunge, agitando il barattolo di latta.
Steve, nonostante tutto, vorrebbe chiedergli se ha roba fresca -non tanto perché schizzinoso, quanto perché significherebbe quantomeno che l’altro non ha campato con questo schifo per.. quanto? Tutto il tempo che gli ci è voluto a trovarlo. «Certo.» accenna, avvicinandosi e guardandosi attorno.
La catapecchia è rivestita di metallo, all’interno, come le pareti di un container, seppur lisce. C’è una stufa elettrica, in un angolo, vicino ad un comodino ed un letto ad una piazza e mezza -letto, poi.. forse è più una branda, che qualcos’altro. Sull’altro lato della stanza, ci sono degli scaffali altrettanto metallici, ricolmi di scatoloni e sacchetti di plastica. In uno di essi Steve riesce a scorgere un AK-47, assieme a probabilmente un sacco di caricatori. Come se James si fosse portato dietro un armamentario intero.
Bucky lo distrae per l’ennesima volta, aprendo con la mano meccanica i barattoli e svuotandoli in un pentolino posato su un mobile di ferro, assieme ad un fornelletto collegato ad una bombola di gas. Arcua un sopracciglio, guardandosi attorno ed avvicinandosi.
«Da quant’è che vivi qui?» domanda, indicando “qui” con lo sguardo, compiendo una sottospecie di semicerchio, prima di tornare sull’amico.
«Da quando me ne sono andato, dopo..» deglutisce l’altro, storcendo le labbra, quasi infastidito dall’argomento.
Steve, veloce, si ritrova a risparmiargli di parlarne ancora, di ricordare quell’accaduto. «Potresti vivere in città, magari.. non come un fuggitivo.» azzarda, osservandolo di sottecchi, attento ad un eventuale mutamento d’umore, pronto a chiudere il discorso.
«Steve, forse dimentichi che sono un fuggitivo, dall’Hydra -o dallo S.H.I.E.L.D., comunque tu voglia metterla.» mormora l’altro, lanciandogli un’occhiata. «Ho rischiato di mandare in aria quelle armi di distruzione di massa -è già tanto che il mondo intero non mi stia cercando.» sospira, visibilmente teso.
«Il mondo non sa la tua storia -e non deve necessariamente saperla.» accenna il Capitano, cercando di posare una mano sulla spalla dell’altro.
Bucky si ritrae di scatto, come preso alla sprovvista. Contatto non desiderato, ricevuto.
«Ho un braccio meccanico, Steve, come pensi che dovrei nasconderlo?» chiede, quasi amareggiato. «Sono diventato tutto ciò da cui volevo proteggere la gente, gli innocenti -ho tradito l’unico ideale che mi aveva spinto ad arruolarmi.» Steve vede James stropicciarsi il volto con la mano destra, massaggiandosi l’estremità dell’arcata sopraccigliare, traendo un sopracciglio.
Steve ancora ha la mano a mezz’aria, stenta ad abbassarla. Non capisce, minimamente, ma inizia quasi a farsi un’idea.
«Non è stata colpa tua.»
«Perché mi hai baciato prima?»
Un attimo di silenzio segue a quella domanda, mentre Rogers rimane interdetto, sgranando gli occhi e trattenendo il respiro, come se Bucky avesse appena svelato un segreto che avrebbe fatto meglio a restare sepolto.
«Io.. non lo so.» rimane in silenzio, scorgendo gli occhi di Bucky.
E gli occhi di Bucky, per un attimo, sembrano speranzosi, prima di rabbuiarsi e perdere l’ennesimo barlume di normalità, quando quelle parole vengono pronunciate.
Un sospiro abbandona le labbra del Capitano, mentre James torna a preparare la sottospecie di cena in scatola. Non può far altro che restare in silenzio, mentre quello solleva la pentola e la svuota in due barattoli di latta, ficcandoci dentro una forchetta a testa.
«Bucky.»
«Smettila di usare quel nome.» sembra più irascibile, quando avanza quella richiesta. «Solo.. smettila, ti prego.» aggiunge, senza guardarlo negli occhi.
«Come dovrei chiamarti, allora?»
«Non lo so, non mi hanno mai dato un nome.»
Fa male sentirlo parlare come se fosse ancora un’arma nelle mani dell’Hydra.
Fa dannatamente male.
«Non posso smettere di chiamarti così, lo sai.» accenna Steve, avvicinandosi di nuovo. «Non importa cos’hai fatto o cosa pensi di meritare o meno, sei l’unica persona importante che mi rimane.»
«Non sono più lo stesso, lo vuoi capire?!» sbotta improvvisamente James. «Non riesco a far finta di nulla e tornare lo stesso di sempre, è sbagliato fare così. Non..» un sospiro lascia cadere in sospeso la frase -o, semplicemente, neanche più James sa più come continuarla.
Steve, in silenzio, lo osserva con aria comprensiva. Cerca di avvicinarsi, di nuovo, afferrando poi i barattoli dalle mani di James con un gesto delicato, attento, dandogli tutto il tempo di scostarsi. L’altro rimane in silenzio, in rimando, seguendo i gesti del biondo con aria stanca, provata.
«James» cambia nome, lo accontenta, ma non riceve tutt’ora risposta. «Solo tu puoi perdonarti.» cerca il suo sguardo e lo trova, azzurro ed amareggiato. «Io non potrei mai avercela con te e.. non posso immaginare di perderti un’altra volta.» insieme fino alla fine, ricordi?
Bucky rimane immobile a scrutarlo, il respiro appena irregolare. «Non sai davvero perché mi hai baciato, Steve?» ribadisce.
Stringe i pugni il Capitano, come se poi stesse per commettere un omicidio -o suicidio, considerando che a morire sarebbe lui, sotto certi punti di vista. «No.» esala, infine, distogliendo lo sguardo. «E forse non era così non voluto come pensavo.» aggiunge, rialzando lo sguardo verso di lui.
Tutt’ora non è abituato alle stranezze del ventunesimo secolo. Che siano la libertà d’espressione, che siano le coppiette d’innamorati o la libertà nella scelta dell’orientamento sessuale. Ora come ora, però, gli sembra di essere tornato negli anni della guerra, quando “gay” era sinonimo di “innaturale” e “eretico”.
Sospira, strizzando gli occhi e serrando le labbra.
«Non sei cambiato.» la voce di Bucky irrompe nella sua testa come un martello, rompe quella campana di vetro che conteneva i suoi pensieri e li fa disperdere, svuotando la sua mente e facendolo concentrare solo sul moro. «Neanche un po’.» e lo dice come se fosse una cosa positiva, sorridendo e facendoglisi più vicino.
«Non farla sembrare come una cosa positiva.» mormora il Capitano, assorto, più speranzoso quasi, mentre il silenzio si impossessa nuvoamente di loro.
Lo sguardo di Bucky è sempre stato intenso, magnetico. Era capace di infondere sicurezza e fiducia nei pensieri del gracilino e bullizzato Steve Rogers. Ora, invece, sembra più che quegli occhi azzurri abbiano bisogno del contrario, di essere ricolmati di quella fiducia e sicurezza di sé.
Sono due tipi differenti di azzurro, quei colori che riempiono i loro occhi, ma in quell’istante si allacciano come se fossero un solo colore, attraendosi ed avvicinandosi. Steve abbassa lo sguardo, così come nota fare lo stesso a Buck; le iridi ricadono sulla linea del naso e, poco più in basso, incorniciate dalla barba incolta, le labbra dell’altro. La sensazione di poco prima pare ritornare ad affollare i pensieri. Disidratate, screpolate e, via via, più morbide verso l’interno, fredde e calde al tempo stesso, vive e mobili. Perfette, vorrebbe quasi pensare. Perfette per le proprie, di labbra. Mai un contatto simile gli è sembrato più perfetto e normale. Si vogliono bene, ma il loro è un tipo diverso di “bene”, è qualcosa di più profondo, più intimo e familiare, dettato da tutte le giornate e serate passate assieme, tutti i segreti confessati, i sentimenti dichiarati e l’aiuto, le parole, le discussioni a fin di bene, gli abbracci, le strette sulle spalle, il suo braccio che lo cingeva e sembrava un’ala sotto cui ripararsi, nonostante il suo orgoglio gli impedisse di abbassare il capo, di guardarlo ed accettare quella stretta, ricambiandola.
Ora.. ora è diverso. Ora può essere anche lui un’ancora, un’ala sotto la quale ripararsi, ora è Bucky l’essere incompreso e bisognoso d’aiuto. Forse è stato stupido non dirglielo subito, perché l’ha baciato senza pensarci. Bucky non l’ha respinto. Bucky è restato sempre lì, senza far diventare il tutto strano ed imbarazzante -non più del necessario.
Non servono più gli occhi per ciò che devono dirsi ora, però. Non servono più le parole per esprimere ciò che il contatto delle dita può dire, ora. Il respiro di entrambi si spezza, mentre -con la disabitudine di coloro che non vivono da persone normali per troppo tempo- si avvicinano e si sfiorano. Steve abbandona una carezza sul volto di James, una carezza che si fa più salda e presente, mentre lo spinge appena, senza pensarci, senza preoccuparsi che l’altro si spezzi sotto quel tocco. Hanno lottato, si sono rotti le ossa a vicenda, si sono sparati proiettili, quasi messi sotto in automobile.. non sarà una carezza data con più forza a spezzare quel volto, a farlo indietreggiare. Di rimando, sente un freddo inusuale, all’altezza dei fianchi, lì dove la mano meccanica si è posata, seguita a ruota -dall’altra parte- da quella fatta di carne. Caldo e freddo, mentre i volti si avvicinano, sempre di più, scrutandosi attraverso una fessura fra le folte ciglia. Il respiro di entrambi si fa più corto, spezzato, mentre l’esitazione viene vinta dall’impazienza.
Le labbra si raggiungono, in fretta, troppo lentamente, le dita si stringono attorno alla stoffa, come a volerla strappare, come se quel gesto rischiasse di far perdere l’equilibrio ad entrambi. E stavolta, mentre le bocche si forzano per aprirsi a vicenda, per lasciar spazio alle lingue, i capi si inclinano, senza alcuna regola scritta, senza che nessuno dei due l’abbia deciso. Mossi insieme, come sempre, vicini e legati da qualcosa che va oltre il contatto fisico. Sintonia. Sincronia.
Il silenzio è un vago ricordo nelle orecchie di Steve, il silenzio non è mai stato tanto impossibile e lontano, affollato dal rumore prodotto dai loro respiri che si mischiano, si infrangono sulla pelle e la riscaldano. Si tirano, si spingono, si forzano in una lotta-non-lotta che ha il sapore rude della loro vita, degli avvenimenti che li hanno resi quel che sono. Due lottatori. Hanno combattuto e tutt’ora sembrano combattere, uno contro l’altro, per chi si aggiudicherà una mossa, una decisione.
E Steve è avvantaggiato, sotto questo punto di vista; l’unica cosa contro cui dovrà lottare è un braccio meccanico oltremodo forte, ma il resto di Bucky è solo carne umana fragile, forte quanto può essere, ma mai quanto il corpo di Captain America. Camminano, inciampano verso una direzione che entrambi hanno dimenticato, segnata ed appuntata nei loro inconsci, mentre il bacio si approfondisce, così come il loro contatto ed i loro gesti, più ampi, meno preoccupati, più intensi e presenti.
Le mani corrono, sfiorano, segnano, mentre il cervello è alla spasmodica ricerca di un pezzo di carne. Lo trova ed un sospiro abbandona le labbra di entrambi, pesante, caldo, umido. Steve sente la propria testa leggera, come un palloncino ringofio di elio, riempita solo di Buck. Buck che ricambia il proprio bacio, Buck che lo stringe e lo attira a sé come se davvero intendesse trattenerlo lì, come se davvero non lo volesse lasciare andare, come se non avesse aspettato nient’altro in tutti questi anni, se non di trovare quel posto fra le proprie braccia; Buck che ansima, Buck che.. Oh, Bucky.
Qualcosa blocca il loro incedere, qualcosa che -evidentemente- ha quattro zampe ed una superficie morbida -beh, “morbida”- su cui distendersi. Sente il corpo di Bucky esitare, sotto la propria spinta relativamente gentile, prima di chinarsi ed inclinarsi verso il basso, fino a stendersi. Steve rimane lì, immobile, ad osservarlo mentre si accomoda, lasciando che le braccia siano le ultime a rischiare di separarsi, sentendo ancora però la stretta delle sue mani, le dita che s’intrecciano alle proprie, stringendole, attirandole. Scendi, vieni anche tu, sembra un invito. Un invito molto allettante e desiderato.
Tornare assieme. Finalmente, dopo anni di solitudine, leccarsi le ferite e ricominciare, sapere che tutto è realmente andato bene e che ora potrà finalmente andare per il meglio.
Non una parola viene spiccicata quando anche Steve si inclina in avanti, trascinando le mani di Bucky verso l’alto, sopra la sua testa, bloccandole sotto il peso del proprio corpo per potersi poggiare e trattenere in equilibrio, carponi, sul corpo dell’altro.
Sembra un sogno, un sogno molto strano, quasi surreale -impossibile. Impossibile, ripete la sua mente. Impossibile ed irrealizzabile. Eppure, proprio lì, davanti a lui, vero, caldo, accogliente. Stringe le mani di James, quasi convulsamente, mentre un sospiro abbandona le proprie labbra, facendogli stringere le palpebre fino a vedere delle piccole luci bianchi lampeggiare qua e là nel buio.
Gli scarponi finiscono da qualche parte che, ora come ora, interessa realmente poco ad entrambi. Il corpo di Bucky è caldo, completamente teso a rigonfiare i muscoli, mentre Steve vi si distende sopra, aderendovi completamente. Sente l’altro contrarsi, muoversi sotto di sé come ad una reazione involontaria, sente il suo ventre che si preme contro il proprio al ritmo di un respiro irregolare. Sceglie, alla fine, di lasciar libere le mani dell’altro, facendo scorrere le proprie lungo le braccia dell’altro, sentendo il metallo a contatto con i polpastrelli e lisciandolo ugualmente, come se fosse un arto vero e proprio. Scende, lento, fino ai fianchi, cominciando dal costato, seppur separato dallo spesso strato di stoffa, fino ad arrivare ai lembi della giacca, stringendoli appena e cercando di nuovo gli occhi di Bucky nella penombra. Li osserva e ci si perde per un attimo, prima di tuffarsi nuvoamente in quel groviglio di braccia, labbra e sospiri.
Lentamente, le mani s’insinuano sotto la stoffa, con un’esitazione sola ed unica, che scompare quando sente fremere l’altro sotto il proprio tocco, freddo rispetto al resto dell’addome. Stringe le dita, mantiene il controllo e l’altro soffoca piacevoli mormorii nella propria bocca, facendolo rabbrividire dietro la testa, lungo tutta la spina dorsale.
Lentamente, le mani continuano a risalire, sempre più avide, sempre più curiose. Sfiorano i segni delle cicatrici, cicatrici nuove, sconosciute, che non ha mai visto, né notato. Cicatrici che portano il peso di consapevolezze ed una storia che non appartiene del tutto al suo Buck, quello che realmente conosce.
Lentamente, le dita si ritraggono fino ad arrivare nei punti importanti degli indumenti, slacciandoli, sbottonandoli e tirandoli, finché la giacca non si apre mostrando i segreti che l’altro porta scritti sulla pelle, mostrando le cicatrici di una vita passata lontana da lui, una vita sopravvissuta fino a questo giorno, come se fosse stata vissuta solo per poterlo rivedere, nonostante l’amnesia e la manipolazione dell’Hydra.
Lentamente.. oh, se solo lentamente fosse lento abbastanza. Non è mai abbastanza il tempo, la fretta rovina anche i momenti più belli, tindengoli di necessità e passione. La stessa fretta che fa scordare a Steve e Buck di essere uomini, di essere uomini appartenenti ad un secolo ormai morto, ma comunque figli della loro storia e delle loro ideologie, di essere stati amici e nemici, di essersi persi e poi ritrovati, di essere morti e di essere tornati in vita.
Lentamente, una lacrima solca il volto di Steve, interrompendo i suoi gesti, facendolo fermare per reprimere un sobbalzo. Freme il militare, freme anche il suo migliore amico, prima di tendersi e puntellarsi sui gomiti, cercando di osservarlo, confuso. Che succede?, non c’è bisogno di chiederlo. Il silenzio, quell’espressione appena intravista parlano da soli.
«Non sei morto, Buck.» spiega il Capitano, il commilitone, il migliore amico, Steve. «Sei.. sei vivo.» e sobbalza di nuovo, un sorriso che strozza quel gemito di gioia e dolore. «Sei vivo e sei qui con me.. Sei di nuovo con me.»
Gli occhi si tingono di sollievo misto a mancanza. Assenza di affetto, di contatti umani, di una persona con cui parlare, qualcuno a cui rivolgere i propri pensieri.
Il bacio riprende, più intenso e spietato di prima, più assillante e pressante di prima. Gesti frettolosi e goffi guidano le mani di James; si fanno strada sugli abiti di Steve, li trascinano con sé fino a sollevarli e sfilarli dal loro posto, rivelando anche il corpo del biondo, contratto e teso, completamente rivolto a James, completamente a disposizione di quello sguardo e di quelle dita.
I pantaloni seguono, senza mezzi termini, senza alcuna attesa.
Hanno atteso così tanto, così tanto tempo per poter essere nuovamente insieme che, adesso, quella vicinanza non sembra abbastanza, non è mai abbastanza e probabilmente non lo potrà mai essere.
Così tanto tempo che gli intermezzi vengono totalmente dimenticati, completamente lasciati ad un’altra volta, ad un altro giorno.
Nessuno dei due sembra troppo preoccupato da cosa tralasciano e cosa semplicemente desiderano, poiché entrambi sono persi uno contro l’altro, a ricreare un attrito fra i loro corpi, ansimando e stringendo le dita attorno alla carne, mordendo ed umettando le labbra, strizzando le palpebre e soffocare la voce.
Ed è Steve a sentirsi scivolare fra le gambe di Bucky, senza capire se sia stato l’altro a cedere o se sia stato lui a forzare quel movimento, troppo occupato a sentire la stretta dell’altro sui propri fianchi, sul proprio bacino, in una tacita richiesta, silenziosa e rumorosa al tempo stesso.
Movimenti sconnessi si uniscono ad altri sinuosi e melliflui, armoniosi, in un ritmo spezzato e continuo, morbido e scattante al tempo stesso. Il cervello entra in confusione, mandando impulsi sconclusionati agli arti, facendoli completamente muovere senza un raziocinio vigente. La ragione dorme, sotterrata e soffocata da tonnellate di sentimenti e battiti cardiaci troppo rumorosi per essere ignorati, troppo desiderosi per passare inosservati. Un fiume in piena che travolge e trascina, mentre le dita s’insinuano sulla pelle, sotto la pelle, dentro di essa, strappando gemiti bassi e gorgoglianti a Bucky, incantando ed inebriando le orecchie di Steve, spingendolo -forzandolo, costringendolo, rassicurandolo- a continuare, a non fermarsi, a proseguire.
La sicurezza va a braccetto col desiderio, man mano che l’attesa strenua i nervi e testa la resistenza di entrambi.
Finché non si tratta solo di Steve, né soltanto di Bucky, ma di entrambi, di due corpi fusi, unici, raccolti in un ammasso di carne bollente e febbrile, uniti da una spinta ripetuta più e più volte, ferma, salda, che dimentica facilmente la gentilezza e la cura. Ed entrambi non si curano del silenzio tutt’attorno a loro, del silenzio che viene violato e che assiste, impotente, all’atto, alla scelta volontaria di due persone di consumarsi l’una con l’altra, in quanto l’una dell’altra e viceversa.
Un paio di braccia non sono mai state così rassicuranti ed accoglienti, la pelle non si è mai scoperta così facilmente, non è sembrato mai così giusto condividere un’intimità tanto fragile e preziosa con qualcuno. La fiducia è reciproca, ma se mai testata, sono solo parole -belle parole.
Un atto di fiducia.
Lo sta compiendo Steve.
Lo sta compiendo James.
Finché entrambi non giungono al limite fisico e mentale della sopportazione, finché Steve non sente finalmente la soddisfazione e l’appagamento pervaderlo completamente, urlando assieme a Bucky, premendo la propria bocca contro la sua e soffocando il piacere -nuovamente- fra quelle labbra, dandogli lo stesso potere che aveva quando era Buck a salvare lui.
Finché non rimangono che un ammasso di corpi febbrili e strenuati, l’uno sopra l’altro, l’uno dentro l’altro, ad ascoltare ancora il rumore degli ansiti, dei sospiri e dei loro cuori. Un rumore ipnotizzante, tranquillizzante, poiché bastano pochi istanti, quegli stessi istanti che servono ad accomodarsi, Bucky fra le braccia di Steve e Steve fra le braccia di Bucky, prima di cadere in un sonno tanto agognato. La pace ed il calore che entrambi attendevano, ma mai ottenuti.
Almeno, fino ad ora.


Un rumore seguito da una sottospecie di spinta.
Steve apre gli occhi, la bocca e gli occhi impastati dalle ore trascorse fermo a dormire. La stessa spinta si ripete, così come il rumore.. non indefinito, sembra più un verso, vicino, troppo vicino. Le prime luci dell’alba inondano la stanza, gettandola in una penombra indefinita che sa di quiete e pace. Non per la figura accanto a lui.
Bucky se ne sta contratto con le spalle al muro e le braccia poste in una sottospecie di posizione di difesa davanti al volto, i pugni stretti, sobbalza e ringhia, trema e contrae i muscoli, l’arto meccanico che comincia ad emettere il tipico suono di metallo contro metallo, macchinari che si attivano per aumentare la forza.
Bucky sembra avere tutta l’aria di chi è nel bel mezzo di un incubo.
«Bucky.» mormora Steve, la voce bassa ed impastata, quasi biascicando le parole, mentre si puntella su un gomito, voltandosi verso di lui nel tentativo di avvicinare una mano sul suo fianco, carezzandolo.
In quell’istante, rivede quegli occhi azzurri spalancarsi, iniettati di terrore e furia, ciechi davanti al biondo. Il mormorio si trasforma in un’esclamazione confusa, gutturale e profonda. Si tratta di un attimo, il tempo di realizzare di avere una figura estranea davanti a sé, adombrata ed irriconoscibile, che il braccio meccanico parte, veloce, preciso.
Steve non riesce a vederlo arrivare, troppo assonnato per reagire come vorrebbe, ritrae la mano, ma il volto viene colpito in pieno -e Steve è quasi sicuro di poter udire qualcos’altro di più sgradevole, come il suono di qualcosa che si spezza. Assieme alla spinta che si stava dando e la botta del pugno, finisce per rotolare giù dal letto, reggendosi la faccia e sentendo il dolore esplodere come una mina.
«Bucky! Sono io, Steve!» grida nuovamente, più alto.
Il ringhio di James, lentamente, si placa, finché -assieme ad un rumore confusionario di coperte e cigolii della branda- il volto del Soldato fa capolino da sopra di essa, preoccupato e terreo.
«Merda.» lo sente sibilare, cercando di districarsi dal groviglio di coperte. «Merda merda merda merda -stai bene?» chiede, buttando le gambe di sotto dal letto e scivolando giù davanti a lui, in ginocchio, allungando le mani senza però cercare di toccarlo, come se avesse paura nuovamente di fargli altro male. Ansima, di nuovo, sul volto ci sono ancora dei rimasugli del sogno in cui la sua stessa mente lo aveva intrappolato.
Stavolta, è Steve ad osservarlo, più rincuorato. Bucky è preoccupato. Preoccupato per lui. Quantomeno non ha cercato di rompergli anche l’altro, di zigomi -visto che ora manca solo quello, all’appello.
Fatto sta che, senza pensarci, si ritrova a ridere sommessamente, assistendo al cambiamento di espressione di Bucky: da preoccupazione a confusione. E non può che ridacchiare, ancora, prima di borbottare per il dolore al naso.
«Scusa, scusa..» si affretta a dire, prima che Bucky capisca chissà che. «Stavo solo pensando che avere il naso rotto e te qui è molto meglio e sopportabile del contrario.» e sorride, prima di sospirare. «Ah, ora però dovresti aiutarmi a raddrizzarlo, sai?» chiede, fissando in basso. C’è sangue, lì dove l’arto meccanico ha lacerato la pelle, ma -per fortuna- Steve non è un essere umano normale, altrimenti ora probabilmente avrebbe il naso al posto del cervello, come minimo.
«Hai battuto anche la testa?» Bucky lo fissa con aria stranita, come se non sapesse reagire a quelle parole di poco prima.
Steve ridacchia ancora, scuotendo il capo. «Andiamo, Buck, aiutami.» aggiunge, vedendolo restio all’idea di toccarlo di nuovo. «Per quanto ti sembrerà strano, mi fido ancora di te.» e sì, dalla reazione di Bucky -occhi sgranati e subito dopo un cipiglio da far invidia ad un permaloso- sembra aver nuovamente colto nel segno.
Alla fine, James si avvicina. «Okay.» decidendosi ad allungare le dita e, con un gesto veloce e preciso, raddrizzare il setto nasale. Lo stesso rumore sgradevole, un sonoro scrock, arriva alle orecchie di entrambi, mentre Steve sbuffa.
«Ouch.»
«Ecco, questa sì, che è una reazione normale, Steve.»
«Dubito che ormai “normale” sia una parola adatta a me, Bucky.»
«...»

 

Bucky è bravo a prendersi cura delle persone. Lo è sempre stato, almeno con Steve. Il tampone impregnato di disinfettante continua a picchiettare sul naso di Steve, provocando un senso di prurito ed irritazione, quando il liquido frizza a contatto con la superficie della ferita.
«Quindi, niente paracetamolo?» chiede Bucky, sovrappensiero.
«Sopravvivrò.» conclude Steve, sospirando ed osservandolo, attento, mentre Bucky non lo scorge -benché sia un po’ difficile.
Ogni tanto l’altro gli lancia delle occhiate, come per controllare cosa stia facendo, per poi tornare sul naso.
Il silenzio si è protratto per un bel po’, ormai, e alla fine a Steve sono sorte domande, interrogativi. Ad alcune ha dato risposta, mentre ad altre..
«Da quanto hai cominciato a ricordare?» chiede di getto, sentendo l’altro esitare e rallentare il gesto del tamponamento, all’udire di quella domanda.
«Qualche.. settimana, credo.» deglutisce James e Steve sente la gola secca, mentre riflette su quell’ipotesi.
«Perché non sei tornato?»
Il tampone si ferma, il volto di Bucky si contrae appena. Lo sente deglutire e, infine, «Sono stato al museo.» aggiunge, senza che Steve riesca a capire il collegamento, il punto a cui vuole arrivare Bucky. «Ho cominciato ad avere dei.. delle sottospecie di flash, incubi di io che cado in un burrone, il tuo volto, stralci di conversazioni, cose. Cose che non riconosco.» sospira, distogliendo lo sguardo da Steve.
«Poi, ho cominciato a ricordare gli allenamenti, la guerra, le nostre missioni e.. e ho ricordato com’ero, come la pensavo a quei tempi, chi fossi tu e perché mi stessi tanto a cuore.» si siede sul letto, di fronte allo sgabello su cui è seduto Steve.
Steve, in tutto ciò, rimane in silenzio, gli avambracci posati sulle ginocchia e lasciati convergere verso l’interno per permettere alle mani d’intersecare le dita fra loro.
«Quando ieri ho detto che sono diventato tutto quello che disprezzavo e da cui volevo proteggere le persone..» Bucky, furtivo, lancia un’altra occhiata a Steve, tornando a parlare. «È.. -È fondamentalmente questo il motivo per cui ho preferito restare da solo.» annuncia, di nuovo. «Per evitare di peggiorare la situazione e per» un sospiro esasperato abbandona le labbra, mentre Bucky mette via il tampone e si passa una mano fra le ciocche, pettinandole all’indietro. «perché voglio capire chi sono e cosa posso fare per essere nuovamente -anche solo la metà- la persona di un tempo.» conclude, lanciando un’occhiata a Steve per l’ennesima volta, solo che ora lo sguardo non si allontana, rimane lì, come ad aspettare una reazione, una parola. Qualcosa, qualsiasi cosa.
«Ed io non posso aiutarti? Non possiamo affrontarlo assieme?» come abbiamo sempre fatto.
Bucky rimane immobile, pensieroso. Riflette e Steve spera stia prendendo seriamente in considerazione quella possibilità, qull’eventualità, quel futuro.
«Io..» tira le labbra, trattiene il respiro. «Credo di sì.»
Il sorriso di Steve si spegne per un attimo, prima di tornare più prepotente che mai sul suo volto.
«Non te ne farò pentire, Bucky. Te lo giuro.» fosse l’ultima cosa che faccio.


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NA:
okay. #deep breath# eccoci qui ò.ò
farò tutte le gradazioni di colore, prima o poi(?)
manca solo il rosso, penso(?)
in ogni caso, mi scuso in anticipo per eventuali errori di battitura, ma non sono proprio capace di riconotrollare i miei lavori xD in più ho il tasto della E che funziona e non funziona -devo premerci proprio tanto per farlo funzionare y.y- quindi se mancano delle "e" sapete perché D:
spero che questa storia vi sia piaciuta. fondamentalmente proviene dal mio bisogno ossessivo-comulsivo(?) di raccontare di questi due personaggi dopo che ho visto -mea culpa- in ritardissimo TWS. purtroppo il primo Captain Amerca non mi aveva fatto questa granché impressione, quindi ero restia anche a vedere il secondo, finché non ho avuto niente di meglio da fare che cazzeggiare e pensare "vabbeh, guardiamolo"
pessima, pessima idea.
penso di avere una nuova OTP D:
in ogni caso, grazie mille se siete arrivati fin quaggiù -dopo 7150 parole direi che avete fatto un bello sforzo xD

paZZo e chiudo,
Shà <3

  
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