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Autore: monnezzakun    06/09/2014    2 recensioni
Continuarono a parlare a lungo, per lo più Demyx, a volte Zexion con la sua voce rovinata dal silenzio che si schiariva e si faceva più sicura con il passare del tempo. Sembrava sorprendente quante cose si potessero raccontare ad una persona incontrata poco prima, quanto fosse facile dire anche quelle cose che ad altri non avresti il coraggio di confessare.
[(un)Happy Zemyx Day, come ogni anno ♥]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Demyx, Zexyon
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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And we'll one day tell our story
Of how we made something of ourselves now
 
 
 
Estate
Quando Demyx si lasciò alle spalle la porta di casa, caricando la valigia nel bagagliaio dell'auto, Agosto era ancora un mese a metà. Era una cosa che lo infastidiva, fra le tante altre, il fatto di lasciare qualcosa a metà, fosse anche solo un mese.
Avrebbe voluto che il college che si era scelto iniziasse insieme a Settembre, quando l'estate aveva già l'impressione di stare per finire e lanciava gli ultimi baluginii come una candela sul punto di spegnersi. Invece quelli che scorrevano al di fuori del finestrino erano ancora due settimane della sua stagione preferita, strappate via e occupate dai primi giorni di scuola, senza che lui ci potesse fare niente. Sua madre, le mani saldamente strette al volante come se oltre che ad esso si stesse aggrappando anche alla sua forza di volontà, lanciava sguardi nervosi all'orologio digitale del cruscotto come se non fossero pienamente in anticipo.
Demyx sapeva di non essere riuscito a convincerla fino in fondo, quando le aveva detto che voleva andare al college. Non era ancora riuscito a convincere nemmeno sé stesso, figurarsi sua madre che di sicuro non si poteva accusare di non conoscerlo.
Era sembrata la cosa migliore da fare, però. Ognuno dei suoi ex-compagni di classe aveva scelto una direzione da prendere, si era iscritto alla scuola che faceva per lui, aveva lentamente dimenticato la sua esistenza insieme alla sensazione di non sapere da che parte volgere lo sguardo che in lui era ancora ben salda, esattamente come alla cerimonia della consegna dei diplomi.
Era passato un anno in cui si erano susseguiti lavori part-time, settimane di disoccupazione passate a cercare un nuovo impiego, mesi di nottate insonni a fissare il cielo fuori dalla finestra perché era troppo tardi per mettersi a suonare e schiarirsi la mente. Alla fine aveva dovuto ammettere a malincuore di non poter più continuare così, e l'idea di decidersi a scegliere una scuola e sperare che fosse quella giusta era tornata prepotentemente, senza abbandonarlo più.
Quindi non poteva fare altro che lasciar scorrere quelle giornate fra le dita, come la sabbia delle spiagge ancora percosse da un sole violento, come le note delicate del suo sitar che scivolavano come acqua e che non avrebbe più passato tutto il giorno a suonare.
La stazione arrivò prima che lui fosse pronto a vedersela davanti. Aveva convinto mamma che non sarebbe scappato a casa invece di prendere il treno, che non c'era bisogno che aspettasse insieme a lui. Che, alla fine, sarebbe stato più semplice così.
Le baciò le guance e le sorrise, caricandosi la custodia del sitar in spalla e afferrando il manico della valigia per trascinarselo dietro, alla ricerca di una panchina su cui sedersi. Dopo l'ultimo cenno di saluto, si guardò attorno. C'era poca gente, per fortuna. Aveva paura di incontrare persone che conosceva, persone che gli avrebbero detto cose come "finalmente ti sei deciso!" come avevano fatto i suoi parenti. Invece sembrava che gli altri stessero ancora vivendo la loro estate, quella che probabilmente a loro spettava perché non avevano passato un anno a far niente. In un angolo, accartocciato contro una parete, un ragazzo chiedeva l'elemosina.
Demyx entrò dalle lucide porte meccaniche e tirò fuori il biglietto spiegazzato dalla tasca, cercando con gli occhi l'asettico display che gli avrebbe confermato di essere in anticipo di quindici minuti, e così fu. Quando si fu trovato un posticino a sedere vicino ad una signora ed ebbe comprato un pacchetto di cicche, aveva tristemente depennato tutte le opzioni che aveva per passare il tempo. Non voleva iniziare a scaricare l'ipod prima ancora di partire, così come non voleva bruciarsi la batteria del telefono per controllare di non avere messaggi o notifiche su qualsivoglia social network.
Per non lanciare all'aria ogni sua risoluzione come sua mamma temeva (forse si aspettava) che facesse, iniziò ad inseguire con lo sguardo i ghirigori sbiaditi dal tempo del pavimento. Non aiutava a non pensare che era la prima volta che faceva un viaggio così lungo da solo, ma aiutò la signora ad avere pietà di lui e a farle iniziare una conversazione con lui - addirittura su argomenti che non fossero "allora ricomincia la scuola eh".
La signora stava tornando a casa dopo un paio di mesi passati insieme al figlio e alla nuora. Sembrava felice, e glielo confermò, perché anche se l'aspettava una casa vuota e pervasa del ricordo del marito, sentiva di aver trovato la forza per andare avanti. Poi si fece un po' cupa e si avvicinò a lui, come per confessargli un segreto. Gli disse che conosceva il ragazzo senzatetto accampato fuori dalla stazione, che avrebbe tanto voluto dargli di più di quei pochi spiccioli che le erano rimasti di ciò che si era portata per andare a stare dal figlio, che non si meritava di dover elemosinare e di vivere in strada.
Il suo treno arrivò e Demyx si ritrovò di nuovo da solo con i propri pensieri. Approfittò del posto ora vuoto della signora per tirare fuori il sitar e mettersi a suonare, anche se poi lo avrebbe dovuto rimettere nella custodia alla rinfusa per non rischiare di perdere il treno. Pizzicando le corde con delicatezza, si ritrovò a pensare che almeno lui aveva una casa, una famiglia, una vita che non dipendesse da quanto la gente si sentiva generosa quel giorno. Che fosse felice di andare al college o meno, era sempre più fortunato di quel ragazzo.
I minuti iniziarono a scorrere sempre più lentamente a mano a mano che l'ora di arrivo del treno si avvicinava. Demyx cercava di affrettarlo lanciandosi nelle melodie più complesse e frenetiche, come quando i pomeriggi all'improvviso svanivano nel turbinio della musica e di colpo era ora di cena e poi di andare a dormire, quando veramente il peso d'aver passato un altro giorno nell'ozio si posava sul suo stomaco e gli impediva di spegnere il cervello.
L'ora arrivò e lentamente passò. Arrivarono altri treni su altri binari, le persone si susseguirono davanti ai suoi occhi, ognuna con un bagaglio di diverse dimensioni e diversi tipi di aspettativa dipinti in volto. Quando una voce femminile gli annunciò con stralci di frase assemblati che il suo treno non sarebbe arrivato e che il prossimo era fra tre ore, con tante scuse per il disagio, il suo primo pensiero fu quello che doveva essere un segno e che avrebbe fatto meglio a rinunciare all'istante e tornare a casa.
Il secondo pensiero che lo schiaffeggiò con violenza fu che era un codardo, che non poteva permettersi di fare marcia indietro e di dare un'altra delusione a sua madre, che era ancora orgoglioso abbastanza da non voler confermare di non essere deciso abbastanza per prendere la sua vita e cavarne fuori qualcosa di buono.
Il vecchio Demyx non l'avrebbe fatto, questo era sicuro. Ed era ora che il vecchio Demyx smettesse di vivere rinchiuso sotto lo strato di schifo che era stato quell'anno buttato nel cesso. Si alzò in piedi e andò a fare un giro nel piazzale di fronte alla stazione.
Non era cambiato molto da quando era arrivato. L'unica differenza erano le persone che avrebbero dovuto prendere il suo stesso treno, nervose e taglienti al telefono, tutte impiegate nello stesso tipo di conversazione sull'onda di "sono in stazione, il treno non arriva se non fra tre ore, vienimi a prendere non voglio aspettare qua".
Il ragazzo era ancora seduto nello stesso punto, raggomitolato con il mento sulle ginocchia, gli occhi chiusi ed i capelli, un poco unti e spettinati, a coprirgli una buona metà del viso. Quando gli fu abbastanza vicino da poterlo notare, vide che il barattolo di latta che utilizzava per raccogliere l'elemosina era praticamente vuoto, con solo un paio di monete gettate sul fondo. Tirò fuori il portafoglio e ci infilò una ventina di dollari. Tanto sapeva che li avrebbe usati per dolci e schifezze ultracaloriche come ogni volta che si sentiva depresso e non sapeva che altro fare. Il senzatetto sentì le monetine tintinnare sul fondo del barattolo e lo ringraziò, la voce debole e rauca come se non parlasse da ore.
Demyx si sedette vicino a lui e sentì il suo corpo tendersi, forse in un misto fra sorpresa e apprensione. Però i suoi occhi rimasero chiusi e non si mosse né parlò, tornando lentamente a rilassarsi.
«Il mio treno parte fra tre ore e...» iniziò Demyx, senza sapere né perché gli stava parlando né cosa dirgli. «E ti ho visto qui, prima, mentre entravo per aspettare.»
Non ci fu risposta né segno che l'altro lo stesse ascoltando. Sentendosi sempre meno coraggioso e sempre più stupido, continuò a parlare. «Ho pensato che... sai, so suonare il sitar, è... è una specie di chitarra e magari se mi metto a suonare ti lasceranno qualche soldo in più, no?»
Il ragazzo sussurrò un altro ringraziamento, continuando a stringere le proprie gambe con le braccia e a non guardarlo. Sarebbero state tre lunghe ore se avesse continuato così, però aveva trovato un pretesto per suonare e non sentirsi inutile mentre lo faceva. Iniziò a suonare qualche canzone allegra, studiando il suo viso per coglierne le reazioni.
Quando, dopo un paio di canzoni, arrivò a suonare una delle sue preferite, vide un'ombra di sorpresa rischiarare i lineamenti tristi di quel volto pallido. Demyx continuò a suonare, cantando dolcemente e a bassa voce e intonando un ringraziando a tutti coloro che si fermavano a lasciare qualcosa nel barattolo. Finì di suonare e passò ad un brano strumentale così da potergli parlare.
«Ti piaceva quella canzone? È una delle mie preferite, penso di averla ascoltata a non finire - ti va di contare quanti soldi ci sono nel barattolo? Penso che ce ne abbiano lasciati abbastanza». Il ragazzo annuì - Demyx si maledisse perché si era di nuovo scordato di chiedergli come si chiamasse, però non poteva mettersi a parlare mentre suonava proprio ora che passavano alcune persone. Lo osservò mentre afferrava a tentoni il barattolo e pescava una moneta, poggiandola vicino al proprio piede dopo averla carezzata e mettendosi a setacciare il barattolo per cercarne altre identiche. La realizzazione che era cieco lo colpì con ancora più violenza quando la riallacciò a tutti i pensieri che aveva fatto prima. Provò ad immaginarsi come potesse essere la sua vita, quanto potesse essere difficile anche fare il mendicante e arrivare a fine giornata, senza vedere e senza nessuno che ti aiuti. Si vergognò di non voler andare al college e rimase in silenzio finché l'altro non ebbe finito, e ci volle tanto tempo che quando ebbe finito il barattolo aveva già molte altre monete da smistare alla stessa maniera.
«Come... come ti chiami?» si arrischiò a chiedere, deglutendo a fatica il nodo di tristezza che sentiva in gola. Zexion, gli rispose lui, rimettendo al loro posto le monete sparse ai suoi piedi. Continuarono a parlare a lungo, per lo più Demyx, a volte Zexion con la sua voce rovinata dal silenzio che si schiariva e si faceva più sicura con il passare del tempo. Sembrava sorprendente quante cose si potessero raccontare ad una persona incontrata poco prima, quanto fosse facile dire anche quelle cose che ad altri non avresti il coraggio di confessare. Gli parlò dell'anno che aveva passato, del suo desiderio di fare qualcosa nella vita, di come avrebbe voluto arrivare al college e scoprire che era quello che voleva fare, anche se non l'aveva mai saputo. Scoprì che Zexion era più grande di lui, che aveva frequentato un paio di anni e che aveva scelto di studiare chimica, per poi ritirarsi e buttare tutti i soldi che lui e suo padre avevano da parte per cercare di guarirlo da una malattia che non si era voluta fare da parte e allo stesso tempo tentare di frenare la cecità che sapeva sarebbe arrivata. Alla fine era rimasto senza nessun altro, senza lavoro e con troppi pochi soldi per riuscire a pagarsi l'appartamento in cui vivevano. Parlava della sua vecchia vita come se l'avesse letta in una puntata di quei programmi che fanno soldi raccontando disgrazie, la bocca sottile e pallida, le palpebre sempre abbassate. Alla fine il treno arrivò e Demyx gli lasciò quanti più soldi poté, senza dirgli niente se non un Buona fortuna che era la cosa migliore che gli era venuta in mente. Salì sul treno con la convinzione di stare facendo la cosa giusta.
 
 
 
Inverno
Dicembre era arrivato come un colpo di cannone calibrato a lungo.
Intorno a lui c'era chi tornava a casa subito, chi organizzava incontri durante le vacanze e chi piangeva come se ci si stesse lasciando per sempre, chi pensava solo ad organizzare le settimane libere per preparare gli esami più ostici. Demyx era contento di tornare a casa, di rivedere sua mamma, di ritrovare il paesaggio familiare della sua città.
Il suo compagno di stanza sembrò dispiaciuto quando si dovettero salutare, cercando di stritolarlo il più forte possibile anche se era più basso di almeno trenta centimetri e sottile come un giunco, ma riacquistò tutta la sua allegria quando finalmente lo passò a prendere il suo fidanzato dagli improponibili capelli rossi.
Sistemandosi meglio il borsone sulla spalla, Demyx controllò il telefono con la mano libera e mandò un messaggio a qualche compagno di corso. Voleva almeno evitare di perdere i contatti con le persone che si era fatto amiche. Si sentiva un po' più il vecchio sé stesso e un po' meno il Demyx inutile e triste.
Il viaggio sembrò passare in un secondo ed essere infinito allo stesso tempo, come quando la mattina ci si sveglia e si sente il peso delle ore di immobilità sul corpo, anche se non le si è provate consciamente. Era confortante essere in mezzo a così tanti estranei, aspettando solo che i minuti passassero e che la propria meta si avvicinasse, senza dover fare altro.
Iniziò a riconoscere il paesaggio e a ridestarsi dall'intorpidimento quando ancora mancavano una decina di minuti all'arrivo. Si sentì invadere da un misto di emozione ed ansia, senza sapere dove iniziava l'una e dove l'altra terminava. Quando finalmente si ritrovò di fronte a sua madre ed il suo sorriso, tutto si sciolse in un'unica, grande gioia. Se la rivide davanti come quando l'aveva lasciata e notò che sembrava più giovane, più contenta: le sorrise e vide un'ombra di preoccupazione svanirle dagli occhi. Non riuscì a impedire ai suoi occhi di voltarsi verso l'angolo in cui aveva suonato per Zexion, e quando lo vide al solito posto, con un giubotto troppo grande e consunto, di nuovo non seppe discernere le emozioni e si sentì sia triste che contento di rivederlo.
Si avvicinò e gli lasciò un po' di soldi nello stesso barattolo della prima volta, senza dir nulla, correndo poi per raggiungere la mamma in macchina.
Passò i primi giorni delle sue vacanze insieme a lei, tenendole compagnia e informandola, a volte per la prima volta, a volte per la seconda, di tutto quello che era successo in quei mesi passati lontano da casa. Le parlò del lavoro part-time che si era trovato, le raccontò aneddoti che la fecero ridere e altri che gli fecero beccare un'occhiataccia un puro stile mamma-minacciosa. Non si lamentò mai nemmeno dei suoi voti più bassi e Demyx le fu grato per questo, perché sapeva di non essere brillante, di essere spesso a malapena mediocre, ma aveva sviluppato la certezza che il college non fosse il posto più adatto per lui, e che quello era il massimo che poteva sperare di raggiungere.
Continuò a pensare a Zexion a scatti, specialmente durante la notte e durante i pasti, come aveva fatto spesso anche durante il periodo di assenza. Si chiese dove dormisse, se riuscisse a mangiare tutti i giorni. Se avesse vestiti abbastanza pesanti per passare una giornata intera in mezzo alla neve, seduto su un cartone bagnato che di sicuro non lo isolava dal freddo. Scavò nel suo armadio per cercare dei vecchi maglioni e delle sciarpe, maledicendosi per aver portato via così tanti vestiti quando gli sarebbero stati più utili lì.
Non riuscì a trovare il tempo di andare a trovarlo se non dopo una settimana. Riempì uno zaino con tutte le cose che aveva recuperato, uscendo di casa con la scusa di andare a cercare un po' di regali per i parenti. Gli ci volle più di mezz'ora per arrivare alla stazione a piedi, gli scarponi che affondavano nel marciapiede coperto di neve. Lo trovò al solito posto e gli si avvicinò lentamente, inginocchiandosi davanti al barattolo e sostituendolo con uno più grande che si era portato da casa. Travasò il contenuto (pochi spiccioli), mischiandolo con le monete che già riempivano il barattolo più grande. Sorrise quando Zexion avvicinò la mano per capire cosa stesse succedendo e gliela prese nella propria, scaldandola fra i propri guanti.
«Sono io, Zexion» e lo vide sussultare, voltandosi verso di lui come per un istinto che non aveva ancora perso. «Sono tornato per le vacanze natalizie e... quando avevo un po' di tempo libero suonavo ai lati delle strade, così ho racimolato un po' di soldi e... te li ho portati».
Si sedette di nuovo vicino a lui, frugando nello zaino e porgendogli un paio di barrette di cioccolata. Zexion rimase in silenzio, aprendola e addentandola lentamente prima di stringergli la mano e lasciare che un paio di lacrime gli scivolassero lungo le guance.
Demyx distolse lo sguardo e lo rivolse al cielo scuro, gonfio come prima di una tempesta, sentendosi invaso da un pudore del tutto irrazionale, visto che l'altro non avrebbe mai saputo se lui lo stesse guardando o meno. Sembrò più giusto così, però, e lui aspettò semplicemente che si calmasse per parlargli delle cose che gli aveva portato.
Riuscì a convincerlo a venire a pranzo con lui, a casa sua o in un ristorante qualsiasi, e a dormire in un posto che non fosse un rifugio per senzatetto. Zexion sembrava restio ad accettare e fu difficile fargli accettare la proposta, fosse anche per un paio di notti e solo per qualche pasto. Quando tornò a casa, quella sera, con lo zaino vuoto e nessun regalo per i parenti, aspettò di finire di cenare per parlare a sua madre di quello che aveva fatto quel pomeriggio. Lei lo ascoltò in silenzio, le mani in grembo e gli occhi voltati verso l'albero di Natale che occupava un angolo del soggiorno. Non ci volle molto per spiegarle quello che voleva fare, però il silenzio continuò a lungo anche dopo che ebbe finito di parlare.
Demyx aspettò con pazienza, carezzando il suo profilo con lo sguardo. Gli ricordava la sera in cui le aveva detto di volersi iscrivere al college, solo con meno tensione - c'era più dolcezza nell'aria, più speranza. Alla fine lei sospirò e lo strinse, lasciandolo scivolare fino a che non lo ebbe con la testa sulle proprie gambe, carezzandogli i capelli come quando era bambino e papà gli mancava troppo per riuscire a dormire. Demyx chiuse gli occhi e provò ad immaginare come fosse il nero che vedeva Zexion, senza quelle macchie di colore che si agitavano sotto le palpebre, senza la sicurezza che bastava aprirle per scacciare l'oscurità.
Mentre fuori dalla finestra iniziava a nevicare, nel calore familiare della sua casa e nell'abbraccio di sua madre, si sentì come se lentamente la sua vita iniziasse ad avere la direzione giusta.
 
 
 
Inverno, reprise
«Credo di poter ricordare queste due persone, separate da una breve distanza, impicciolite al mio sguardo nell'atto di chinarsi o di inginocchiarsi a terra, mentre io andavo a passo incerto dall'una all'altra» lesse, tenendo il libro in grembo e scandendo le parole perché fossero il più chiare possibile. Prese un sorso di tè quando si sentì la bocca secca, godendosene il calore contro il palmo che rimaneva freddo nonostante il fuoco scoppiettante nel cammino. Risolse il problema afferrando meglio il libro con una mano sola e cacciando l'altra nell'ammasso di coperte sul divano, mentre Zexion si lamentava perché era la sua pancia quella contro cui aveva deciso di scaldarla. Demyx rise e continuò a ridere, carezzandolo perché era bello sentirlo così sensibile e vicino - oltre che al caldo, al sicuro, su un divano invece che contro un muro di fronte ad una stazione.
Lui si lasciò toccare e rimase in silenzio, ascoltandolo parlare e spiegandogli il significato di alcune parole quando non le capiva - ricordava d'aver letto Dickens a scuola, Demyx, e che non gli era mai sembrato più semplice e scorrevole e importante prima. David Copperfield era improvvisamente la cosa meno noiosa del mondo, se leggerla a Zexion lo rendeva felice. Dovette interrompere la lettura per mettere qualche pezzo di legno nel camino, dopo diverse pagine e numerosi sorsi di tè. Rimasero in silenzio - non era una cosa strana, fra di loro. Avevano parlato per settimane, da quando Demyx era tornato a casa e si era deciso a raggiungerlo quel pomeriggio. Quando non erano in stazione erano a casa, sul divano, su un letto fino a che non veniva il momento di dormire, la mattina nelle rare occasioni in cui Zexion rimaneva per la notte e allora lui il giorno dopo lo accompagnava al solito posto.
Lui avrebbe voluto che smettesse di elemosinare e di dormire al rifugio, che venisse a vivere con loro in pianta stabile, aiutando sua madre a scacciare la solitudine e riprendendo a condurre una vita che meritava più di chiunque altro. Si ritrovò a pensare alle parole della signora che aveva incontrato quel giorno in stazione, a come le fosse grato di averlo spinto ad avvicinarsi a quel ragazzo che tutti gli altri sembravano ignorare.
«Demyx». Sussultò, facendo cadere un pezzo di legno nel camino senza volerlo e spargendo della cenere su tutto il tappeto. Cercò di arginare il danno e di non farsi sentire da Zexion, che di sicuro l'avrebbe preso per cretino. Gli chiese cosa succedesse, senza avere risposta. Lasciò che si prendesse il tempo di scegliere le parole, abituato ai suoi modi di fare lenti, ponderati. Nel frattempo riuscì a spazzare via la cenere dal pavimento senza che rimanessero della macchie troppo evidenti. «Non ricordo molte cose con chiarezza, di quando potevo vedere. La maggior parte dei visi, anche quello di mio padre, se ne sono andati» prese fiato, muovendosi sotto le coperte per mettersi in una posizione più comoda. «Anche la sua voce è sparita. Non mi ricordo più che suono avesse. Però...» si fermò di nuovo, incerto. Demyx si avvicinò, tacendo, e si sedette davanti a lui. «Anche se l'avevo sentita una sola volta, la tua voce non è mai sparita».
 
 
 
Primavera
Le cose avevano iniziato a cambiare con lentezza, ma non c'era stato modo di arginare il danno. Era cominciato con la nostalgia di casa, con il cuore gonfio di malinconia e di voglia di prendere il treno e tornare dove voleva restare. Si era detto di smettere di fare il bambino, che mancava poco a quando avrebbe potuto rivedere sia Zexion che sua madre.
Però il nuovo semestre sembrava diventare ogni giorno più lungo e inaffrontabile. Ogni ora sembrava allungarsi fino all'impossibile, ogni paragrafo letto incomprensibile se non dopo numerose letture. Il primo esame andò come sempre, il secondo anche, già al terzo i voti iniziarono a calare. Invece che affrontare lo studio con più decisione, Demyx si concentrò sul lavoro part-time e cercò di mettere da parte quanti più soldi possibili.
Quando finalmente Marzo si affacciò con timidezza, spazzando via le temperature più basse e riportando le prime lunghe giornate di sole, riprese in mano il sitar e usò ogni briciola di tempo libero per suonare agli angoli di strada.
Suonare per Zexion l'aveva portato a trovare il coraggio di iscriversi, a non abbandonare come tutti si aspettavano che facesse. Seduto a gambe incrociate su un muretto, le ore che passavano al ritmo delle sue note, sperava che come la prima volta qualcosa arrivasse a riscuoterlo dallo scoraggiamento. Continuò a suonare per una settimana ininterrotta, anche quando il cielo cedeva alle pressioni di un inverno più restio a lasciarli del solito, chiedendosi se anche Zexion fosse sotto lo stesso cielo gonfio di pioggia, se anche i suoi alberi si opponessero al vento impetuoso. Se anche lui stesse cercando di ridare un senso a tutto ciò che era.
Era evidente che non avrebbe potuto continuare a lungo. Presto sarebbero arrivati nuovi esami, nuove lezioni da seguire e memorizzare, ulteriori fallimenti che questa volta non avrebbe potuto evitare di confessare. Nonostante gli sforzi, non arrivò nulla ad esortarlo a continuare quella vita. Mentre tutti gli altri si muovevano con passi sicuri lungo un cammino sicuro, senza mai guardarsi alle spalle, Demyx si sedette di nuovo sul suo sgabello, il sitar in grembo, con solo un muro ed una cabina telefonica a definire il suo futuro, al di là della strada.
Capì che se dal muro non poteva ottenere nulla, né tentando di scavalcarlo né provando ad abbatterlo con blandi tentativi di recuperare la sua carriera scolastica, la risposta doveva essere decidersi a fare quella chiamata. Ci volle tempo come ce ne voleva sempre, nella sua vita, per fare qualsiasi cosa. Rispose Zexion.
Demyx strinse la presa sul telefono, il coraggio che iniziava a vacillare. Mi dispiace, disse, non riesco ad andare avanti. Sua madre gli chiese di continuare a provare, di cercare di finire almeno il semestre. Se fosse servito solo a confermare che costringersi non serviva a niente, l'avrebbe ritirato ed insieme si sarebbero messi a cercare un lavoro per lui.
Era la prima volta da quando papà se n'era andato che lei gli parlava con quel tono. Gli parve di essere di nuovo il bambino che sorrideva sempre ed era amico di tutti, l'adolescente che sorrideva sempre ed era amico di tutti, e che poi passava le serate sul divano a stringere e consolare la propria madre. Anche se sapeva di essere l'ennesima delusione, l'ennesimo problema da affrontare, non riuscì a frenare l'idea che almeno tutto questo non era stato inutile. Aveva capito dalle parole di Zexion che le aveva parlato e le era stato vicino, con la sua discrezione ed il suo pudore, che aveva aiutato molto più di quanto si faceva aiutare.
Promise, ma solo a lui, che avrebbe fatto del suo meglio senza tirarsi indietro. Riuscì a vederlo sorridere, quando rispose che qualsiasi cosa sarebbe successa, sapeva dove trovarlo.
 
 
 
Autunno
Demyx scaricò l'ultimo scatolone dal bagagliaio della macchina, iniziando a salire le scale con un lamento, le braccia formicolanti per lo sforzo. Lo appoggiò insieme agli altri nel salotto spoglio, premendosi contro la parete bianca mentre cercava di riprendere fiato.
Dalle finestre aperte entrava una luce debole, ancora vagamente settembrina e frizzante, che faceva sembrare il candore smorto della stanza più triste e vuoto. Sorrise quando dovette scendere di nuovo le scale per recuperare i secchi di vernice azzurra e non si lamentò più dei muscoli indolenziti e della stanchezza che sentiva in corpo.
Era una casa piccola. Non si era fatto troppi problemi vedendo che aveva solo due stanze, una cucina, un bagno ed un salotto che poi era solo un prolungamento abbozzato dell'ingresso. Sarebbe bastata, l'avrebbero fatta bastare.
Non era lontana dal suo lavoro né dalla sua vecchia casa. Affacciandosi dalla finestra e guardando con un sorriso la via sgombra e silenziosa ripensò agli ultimi anni.
Si era ritirato da scuola. Era tornato a casa e aveva cercato di trovare un modo per ottenere comunque qualcosa dalla sua vita. Aveva passato un anno cambiando lavoro quasi ogni mese, senza mai trovarne nessuno che lo assumesse a lungo termine. Alla fine un vecchio amico di famiglia lo aveva preso nel suo negozio di dischi e strumenti musicali, e da allora passava le giornate a sistemare gli scaffali e a suonare il sitar nei momenti morti.
Adesso aveva un appartamento, un proprio stipendio, una sorta di futuro in cui fare progetti che non sembrava labile come una bolla di sapone.
Quando Zexion entrò in casa, facendosi strada lentamente, il bastone bianco teso in avanti per evitare gli ostacoli degli scatoloni per il trasloco, Demyx seppe di essere finalmente al posto che gli spettava nel mondo. Gli corse incontro, trascinandoselo dietro per tutta casa così da potergli descrivere quanto sarebbe diventata bella una volta dipinta ed arredata. Forse lui non l'avrebbe mai potuto sapere, quanto effettivamente fosse bello il loro appartamento, ma di solito si fidava di quello che gli diceva, di solito si fidava della sua voce.
«Qui potremmo mettere una targhetta, così finché non ti abitui a com'è fatta la casa saprai che questa è la porta del bagno, no? Targhetta uguale bagno, poi uhm... fammi pensare...» disse, tenendolo stretto mentre parlava. Zexion sorrise e alzò una mano per carezzargli il viso, passando il pollice sulle sue labbra per zittirlo. Mentre si chinava a baciarlo, la mano sulla sua schiena e gli occhi socchiusi, Demyx pensò che aveva perso un'estate, ma aveva ottenuto molto, molto di più.
 
 

 
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Of how we made something
We made something of ourselves
 
 
 
 
Note dell'autore
Sembrava impossibile ma ce l'ho fatta. Questa, signori e signore, è la mia storia per lo Zemyx Day, scritta in tempo recordo dopo che ieri sera ho trovato due prompt che mi piacevano verso le otto e mi sono lanciata a scrivere con la certezza che non l'avrei finita in tempo X'D così non è stato, per fortuna, quindi eccola qua <3
Grazie mille per aver letto, se vi va lasciate un commentino, che non vi mangio.
E come tutti gli anni, (un)happy Zemyx Day!
 
[I pezzi di canzone vengono da Two of us on the run, Lucius]
 
 

 
   
 
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