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Autore: Val Nas    10/09/2014    2 recensioni
-Lagertha
-Rollo
-Ragnar
"Lei era una ragazza dello scudo, così aveva scelto di vivere e avrebbe onorato quella scelta ogni giorno della sua vita terrena."
Genere: Generale, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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THE SHIELDMAIDEN

Un grumo di sangue si rapprese nella sua bocca e lei lo sputò.
«Di nuovo» comandò suo padre tenendo l’ascia alta e minacciosa sopra la sua testa, «non ti ho allevata per essere una femmina che figlia e si fa pestare dal marito».
Anziché porgerle la mano, il padre di Lagertha le diede un calcetto nello stomaco incitandola ad alzarsi prima che quel calcio si trasformasse in una pedata.
«Sì padre» ubbidì la ragazza alzandosi affaticata.
Uno strato di terra marrone e bagnata ricopriva ogni centimetro scoperto della sua pelle, insozzandole il bel volto affilato e anche le braccia e le ginocchia, martoriate di tagli e contusioni.  Fango e altra sporcizia le imbrattavano anche i capelli biondi, annodati in un complicato intrico di trecce piccole e grandi che le ricadevano sulle spalle snelle. “È già un miracolo che non me li abbia fatti rasare tutti”.
Non si lamentava mai della dura educazione di suo padre. Lei era una ragazza dello scudo, così aveva scelto di vivere e avrebbe onorato quella scelta ogni giorno della sua vita terrena.
La giovane Lagertha raddrizzò le spalle. Ignorò lo sguardo apprensivo di sua madre, chinata vicina alla staccionata di legno scheggiato, mentre mungeva una delle loro tre capre. La pioggia martellava sul villaggio sin dalla metà del ciclo del sole. Ma sua madre non aveva smesso di mungere, né suo padre di malmenarla. Con una mano si asciugò il volto impregnato di sangue e acqua piovana. Il sudore tiepido evaporava nel gelo rigido di quella giornata di fine Inverno.
Suo padre le fu addosso senza alcun preavviso. Menò un fendente diretto al costato che Lagertha deviò con un colpo del pesante scudo di legno rinforzato. L’uomo la superava di tutte le spalle. La testa era rasata sulla nuca, mentre un ciuffo di capelli biondi e crespi era rappresa nella parte anteriore del suo scalpo.
«Fate piano!» sentì sua madre gemere.
Ma fare piano e andare cauti non si sposava bene con la mentalità del marito, né con la tendenza combattiva e presuntuosa di Lagertha, molto più simile al padre che alla madre, di natura dolce e remissiva.
Anche i lineamenti del volto, graziosi ma pungenti e a tratti freddi, erano stati quasi completamente ereditati da lui. 
E allora se era così simile all’uomo che l’aveva generata, perché non poteva batterlo?
Fece un sorriso feroce e sfrontato poi calciò l’uomo alla congiunzione tra coscia e tibia. Rapido e dalla lunga esperienza, lui fece un salto indietro attutendo il colpo che altrimenti gli avrebbe quasi spezzato la gamba. La lotta si fece serrata. L’ascia di suo padre scivolava sempre più vicino al suo corpo. Prima mancò una natica, poi un braccio. Il polso di Lagertha vibrava mentre rispondeva ai colpi con altri colpi, sempre meno precisi e logici. «Difenditi» le ordinò colpendola con il piatto dell’ascia sui lombi, sbilanciandola in avanti. Con un grugnito e un grido, la minuta Lagertha parò un fendente diretto al  collo con l’impugnatura in legno della sua ascia tenuta tra le mani di traverso. Una mossa che suo padre le aveva sempre sconsigliato di mettere in pratica. “No” pensò un attimo prima che lui sfruttasse la sua forza e la differenza di peso per spingerla e poi atterrarla con un giro del braccio. L’urto con il suolo gelido e bagnato le tolse il fiato. Ma niente la ferì di più dell’espressione delusa di suo padre, che le puntava l’ascia alla giugulare.
«Cosa me ne faccio di te» commentò aspramente, «sei una perdita di tempo?»
«No padre».
«Cosa ti ho insegnato?»
«A non usare la mia forza contro un avversario di peso superiore» si affrettò a rispondere.
L’uomo fece pressione con la lama affilata della sua ascia. «Eppure eccoti qua». La lama le incise la gola con un segno rosso.
«Non ho pensato, la prossima volta…» balbettò Lagertha.
«Non hai pensato…» ripeté con voce piatta. Sollevò l’ascia e con un colpo secco e millimetrico la conficcò tra il volto e la spalla di Lagertha, mozzando ciocche di capelli e treccine.
Lei non gridò, non si mosse. Il volto saldo e inespressivo. Non aveva paura della morte. L’avrebbe abbracciata come una madre, e per mano con lei si sarebbe seduta nelle sale dorate del Walhalla.
Se suo padre voleva punirla con la morte per la sua incapacità, poteva accettarlo. Così l’avrebbe reso orgoglioso.
Ma lui svelse la lama dal terreno duro con forza, rimandando la morte a più tardi.
 «Renditi presentabili a tua madre».
Lagertha buttò fuori il fiato che aveva trattenuto. Quando i passi pesanti dell’uomo si allontanarono, si alzò barcollando. Il dolore s’irradiava da ogni minuscolo osso che componeva il suo scheletro. Le cosce dolevano, i polsi erano in fiamme ed era certa di avere almeno una spalla slogata. Solo dopo un istante si rese conto di aver lasciato gran parte dei suoi capelli mozzati sul terreno. La sua chioma dorata si era ridotta in ciocche mozzate e irregolari. Gettò scudo e ascia per terra, poi a testa bassa, arrabbiata con se stessa, s’incamminò verso la stalla.
«Lagertha» strillò sua madre da sopra la pioggia battente, «Lagertha!»
Non si voltò. Calciò un sasso, poi un altro. Entrò nella piccola stalla e quando uscì era in sella a Turid.
«Dove credi di andare adesso?» la voce alterata di suo padre la raggiunse. Con le grosse spalle nerborute e il petto largo come una botte, l’uomo l’aveva seguita e si era messo al centro del piccolo sentiero fangoso che abbandonava la casa di Lagertha, serpeggiando sino al folto delle foreste che circondavano il villaggio.
«A rendermi presentabile» ringhiò furiosa. La collera era rivolta a se stessa, alla sua inefficacia nell’eseguire le istruzioni più semplici. Non poteva mettersi in discussione. Non c’era posto per il fallimento.
 Lagertha avrebbe imparato a essere una ragazza dello scudo o sarebbe morta nel tentativo di riuscirci. Al mondo non c’era nulla che volesse di più. Tirò le redini scorticate poi calciò violentemente Turid.
Il cavallo s’impennò, scavalcando la staccionata e suo padre, che fu costretto ad abbassarsi per evitare l’impatto con gli zoccoli dell’animale.
«Per Odino. Maledetta ragazza, torna qui!»
La voce roca e furibonda di suo padre si mischiava agli strilli acuti e nevrastenici della madre.
Ben presto niente di umano fu più udibile alle sue orecchie.  Al galoppo nella foresta, non c’era nient’altro che il movimento sinuoso di Turid tra le gambe, l’impatto degli zoccoli sul terreno che sollevavano acqua e foglie marce, il picchiettare violento della pioggia sulla volta frondosa degli alberi più in alto. Finalmente da sola e lontana, nella selvaggia natura, Lagertha lasciò spazio solo all’istinto e permise agli Dei di guidarla. Non badò a dove stava dirigendosi. C’erano solo il suo fiato concitato, il cuore palpitante, il sudore lungo la schiena e quello  che le bruciava gli occhi.
Il pungente odore di aghi di pino plasmò la sua essenza. A un tratto non era più solo Lagertha, la figlia di due contadini, la ragazza che picchiava gli uomini del villaggio e che rifiutava ogni pretendente. Era Turid che correva con la schiuma alla bocca attraverso il sottobosco. Sentiva quello che lui ispirava dalle froge, vedeva i colori con la chiarezza di un caleidoscopio e galoppava con le possenti zampe muscolose come se fosse il suo ultimo giorno. Era anche l’uccello che volava contro la tempesta tra le nuvole temporalesche. Vedeva le montagne, le cime innevate, affrontava le correnti ascensionali e poi si buttava in picchiata tra le implacabili onde del mare, per ghermire con gli artigli la preda più grossa.
Ma era anche Lagertha, la donna terrena. Colei che voleva essere una ragazza dello scudo, colei che prendeva i pugni di suo padre mentre le sue coetanee preferivano farsi sbattere nei fienili da uomini qualunque per avere protezione. Lei non aveva bisogno di protezione e decise che mai ne avrebbe avuto bisogno.
Pensò alla dea Frejya, ai racconti che le narrava sua madre per guidarla placidamente nell’oblio del sogno. Frejya che piangeva il suo amato Óðr, che spariva per viaggi lontani nel mondo degli uomini, lasciandola in preda a sofferenze e lacrime d’oro. Frejya non era solo la dea dell’amore e della fertilità. Era anche la dea della guerra, della battaglia, colei che si spariva il banchetto dei caduti con Odino.
Quando la sua furia si placò, Lagertha riconobbe il luogo in cui era giunta.
«Buono Turid, buono» ordinò dolcemente al cavallo accarezzandolo sul collo vellutato.
L’animale rallentò il suo galoppare furioso, sintonizzandosi sulla calma che adesso pervadeva Lagertha. Il Cerchio di Thor era una pozza d’acqua blu, circondata da una cava di sabbia, indurita dai fulmini scagliati da Thor e divenuta folgorite.
La pioggia cadeva incessante sulla superficie dell’acqua, increspandola di onde e cerchi concentrici sempre più grandi. Volteggiò giù da Turid, accaldata dal galoppo e zozza di sangue, fango e forse feci della loro scrofa, che ogni tanto, senza sapere come, scavalcava la recinzione e disseminava merda e altre schifezze attorno alla casa. Iniziò a slegare le treccine ritrovandosi ciocche appicciate e disarmoniche disseminate in testa. Tolse tutto ciò che indossava, restando con la sottoveste in lino grezzo irrigidita da ossa sul busto e sui fianchi. Dopotutto suo padre le aveva detto di rendersi presentabile. E quale modo migliore di iniziare a ripulirsi che fare un tuffo nel Cerchio di Thor?
Non era la prima volta che si gettava a peso morto in quelle acque. Solitamente lei e le altre ragazze del villaggio erano portate in quella cava di folgorite dalle anziane, per rafforzare, dicevano, la loro fertilità. Le immergevano nelle acque fredde e loro dovevano resistere ai brividi e agli scossoni nervosi dei muscoli, fino a che le anziane decidevano che erano state purificate e che il loro grembo era ancora fecondo. Ma fare il bagno in quelle acque senza il consenso delle anziane era proibito. Eventi inaspettati si sarebbero verificati se una donna avesse scelto di bagnarsi in quelle acque sacre al dio del fulmine di sua iniziativa.
Lagertha era devota. Ma quel giorno era più sfrontata. Così scelse di sfidare gli Dei. Scalza e infreddolita raggiunse la vetta di roccia più alta. Da lassù le acque sembravano un muro rigido che l’avrebbe ridotta a schegge di osso e poltiglia. Si affacciò dallo sperone, rimirando in basso. Prima che le mancasse il coraggio, prima che pensasse alle anziane, alle leggende e agli Dei, Lagertha si gettò nel vuoto.
La caduta durò pochi istanti e poi il muro di acqua ghiacciata la avvolse, risucchiandola verso gli abissi, più giù, sempre più giù. Aprì gli occhi ritrovandosi l’opprimente oscurità dell’acqua dolce che la soffocava. La consapevolezza di non riuscire a nuotare verso l’alto la travolse all’improvviso. Più Lagertha cercava di nuotare verso l’alto, più sembrava che il fondo del lago di Thor e il cielo si fossero invertiti di posto. Ecco lo spietato trucco degli Dei. Ecco svelata la vera natura di quel luogo divino.
Così cercò di invertire il suo nuotare affannato. Nuotò verso il fondo, ma una forza l’attirava verso l’alto, verso quella che doveva essere la superficie e invece non lo era. La voce di suo padre la raggiunse, laggiù nell’oscurità. «Non hai pensato» le diceva, «non hai pensato figlia mia».
“Non ho pensato” ripeté. Non lo aveva solo pensato. Aveva spalancato la bocca alla densa oscurità e un fiotto di acqua le aveva invaso la gola addentrandosi nel suo petto. Dibattersi contro la morte non serviva. Lagertha la vide avanzare verso di lei. Sembrava un magnifico corvo che volava tra le acque.
«Io ti accolgo» le disse. E poi spalancò le braccia per lasciarsi catturare.
 
Sputò acqua, fango e detriti. Le convulsioni la destarono, costringendola a rannicchiarsi di lato per vomitare. Combatté con l’acqua, ma non si trovava più sotto la superficie perfida del Cerchio di Thor. Il blu che la sovrastava era il cielo e l’acqua sul suo volto era la pioggia.
«Ragazza» la apostrofò una voce maschile.
Ma lei era scossa dai conati di vomito e il freddo le conficcava i suoi artigli in tutto il corpo, dilaniandola di brividi. Due rudi mani la scossero, poi la issarono per le spalle agevolando il suo stomaco e i suoi polmoni a liberarsi. Lagertha provò l’impulso di difendersi. Mal sopportava essere toccata senza che fosse suo desiderio. Un palmo ruvido le tolse i capelli appiccicati dalla fronte e lei la respinse con un debole schiaffo. «Non toccarmi» minacciò cercando di dibattersi. Provò ad alzarsi e ricadde sulla gambe malferme. Maledisse la sua stessa sfrontatezza e pregò gli Dei affinché la perdonassero, ma farle pagare un tuffo con uno stupro le pareva un prezzo da pagare esagerato. Quando ripiombò con il sedere sulla nuda roccia, avvertì una risata roca che la stava deridendo.
«Ragazza dello Scudo» mormorò la voce dell’uomo.
Riuscì a volgere lo sguardo verso di lui, che con un guizzo aveva notato l’ascia e lo scudo di Lagertha. Un uomo, con barba e capelli bruni, la fissava duramente. Solo il luccichio di un vero divertimento gli illuminava gli occhi scuri. Aveva il torace grosso, le mani sfregiate da tagli e l’ascia che portava di solito al cinturone era abbandonato sulle rocce. Gli abiti erano poveri e completamenti bagnati.
«Mi hai tirata fuori?»
Lui si strinse nelle spalle.
Biascicò qualcosa di simile a una maledizione, poi cercò di nuovo di mettersi dritta. Prima che potesse ricadere pateticamente, Rollo l’aveva afferrata per un braccio. Un pugno ben  mirato lo colpì dritto in un occhi. «Non toccarmi» lo ammonì rimpiangendo di aver sprecato quel briciolo di energie che aveva per colpirlo.
«No. non ti tocco» bofonchiò lui piegandosi per schivare un altro cazzotto, «ti trascinerò».
Passò le braccia attorno alle sue ginocchia e la sollevò a peso morto.
«Andiamo a casa che ne dici, Ragazza dello Scudo?»



 
  
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