Secondo capitolo. E
sì, parla sempre di mobili. Per cui, se siete passat*
indenni dallo scorso capitolo, spero che sopravviverete anche a questo!
Come al solito ci vuole un ringraziamento immenso a Ida che, davvero, è l'ispirazione e il supporto di tutto ciò. Perché senza di lei i mobili sarebbero rimasti solo mobili. E, invece, parlano.
Una cosa che certamente non ci si aspetta
nel 221B di Baker Street è di sapere che anche oggetti
più piccoli hanno i loro
personalissimi ricordi. Insomma, una poltroncina è un
oggetto solido, importante,
imponente persino. È logico,
dunque,
pensare che abbia dei ricordi altrettanto solidi ed importanti.
Spesso,
invece, ci si dimentica degli
oggetti più fragili, quelli che si maneggiano sempre con un
certo rispetto
perché pronti a rompersi da un momento all’altro.
Come possono oggetti simili
avere memorie degne di essere tali? Com’è
possibile che non dimentichino tutto
in pochi secondi? Del resto, piccoli come sono, dovrebbero avere una
memoria
breve. Ma non è così.
La
prova più lampante dell’incorrettezza
di questa teoria proveniva certamente dalla tazzina del servizio da
tè.
La
tazzina aveva molti più ricordi di
quanto si credesse perché, nonostante l’apparenza
ancora perfettamente lucida
della sua porcellana – era una tazzina di squisita fattura -,
cominciava ad
essere decisamente vecchiotta. Più vecchia della
poltroncina, ma, grazie al meraviglioso
strato di vernice lucidante che la ricopriva, sembrava sempre
nuovissima.
Il
primo ricordo della sua esistenza a
Baker Street non era legato a quello scorbutico di Sherlock Holmes. Non
l’aveva
certo comprato lui il servizio da tè. E come avrebbe
potuto?, si chiedeva
spesso nelle sue lunghe ore passate al buio della credenza in cucina,
quell’uomo
non sapeva neanche vagamente come si preparasse un tè! Cosa
che lei, d'altronde,
trovava estremamente disdicevole per un uomo con quella classe innata.
Comunque, le tazzine, si sa, tendono a divagare, il suo primo ricordo
era
legato ad una simpatica signora un po’ troppo ciarliera, ma
con un cuore grande
come l’intero universo.
Era
stata Mrs. Hudson che l’aveva
prelevata dallo scaffale dove giaceva mezza impolverata. Era stata Mrs.
Hudson che,
appena arrivata a casa, l’aveva immersa in un bel lavandino
con l’acqua calda,
ma non troppo, per ripulirla da quell’odioso strato di
pulviscolo che le faceva
quasi il solletico.
Aveva
vissuto un’esistenza tranquilla in
quella casa per dieci anni: tè con le amiche di Mrs. Hudson,
uno o due parenti
che la venivano a trovare e, infine, uno strano giovanotto dai capelli
neri di
cui Mrs. Hudson aveva tessuto le lodi per un paio d’ore,
mentre lui sembrava
incredibilmente seccato. Non le era piaciuto o, meglio, le aveva fatto
uno
strano effetto quando l’aveva presa in mano per la prima
volta. Aveva delle
dita strane, fredde e calde al tempo stesso. Come se fossero due
persone in
una.
Poi,
un giorno, Mrs. Hudson l’aveva
consegnata proprio a quell’uomo.
“Sherlock,
visto che ti devi sistemare in
questa casa, ho pensato di regalarti questo.”
Era
andata proprio così. Era un ricordo
un po’ strano e, in certi momenti, amaro. Perché
dalle mani di Sherlock Holmes
era passata direttamente alla credenza e vi era rimasta per un tempo
che le era
parso infinito.
Per
questo motivo aveva un altro ricordo
che la rallegrava. Uno di quelli che, quando ci si soffermava sopra, le
faceva
scaldare il cuore. Proprio come faceva il tè quando veniva
versato al suo
interno.
Un
giorno, non sapeva dire che giorno
fosse, aveva sentito una voce non familiare provenire
dall’esterno della
credenza. Sherlock aveva raramente delle visite e lei aveva
un’ottima memoria
nel ricordarsi le voci. L’uomo che stava parlando in quel
momento aveva una
voce sconosciuta. Una voce calda, così diversa dal tono
baritonale di Sherlock.
Le piacque subito.
“Sherlock,
dove tieni le tazze da tè?”,
aveva chiesto.
E
così la tazzina fu eternamente grata a
John Watson perché, dopo mesi di buio, rivide la luce e il
tè. E che tè. John
Watson, il nuovo (e unico) coinquilino di Sherlock, preparava un
tè magnifico.
Migliore, persino, di quello di Mrs. Hudson. Caldo al punto giusto, con
un
aroma perfetto.
Ma il
ricordo non era nello specifico
questo. Era legato a questo perché John aveva preparato il
tè per Sherlock e a
quell’uomo, sempre così freddo e posato, si erano
illuminati gli occhi quando
il biondo gli aveva porto la tazza. John non se n’era
accorto, ma lei sì. Era
un’ottima osservatrice, la tazzina. Non potevano sfuggirle
certi elementi. L’uomo
freddo-caldo era diventato caldo-bollente, aveva persino balbettato un
ringraziamento mentre prendeva la tazza. Non lo aveva mai fatto prima
d’allora.
Lei ne
fu immensamente felice. Le piaceva
trovare conferma che le sue deduzioni, proprio come quelle del
detective, erano
corrette. Quei due insieme erano perfetti ma, con suo estremo
rammarico,
sembrava che non se ne accorgessero. A lungo si chiese come fosse
possibile: si
guardavano, ridevano delle stesse cose, John era l’unico che
fosse mai riuscito
a far comportare Sherlock in maniera decente. Sherlock quasi obbediva a
John.
Innamorato. Eppure non diceva nulla.
E le
mani di John, quando la passava a
Sherlock, tremavano leggermente e lei poteva chiaramente sentire il
pulsare del
suo cuore sotto il sottile strato di pelle. Batteva forte. Innamorato.
Eppure,
anche lui, non diceva nulla.
Strani
gli esseri umani, pensava ogni
tanto.
Ma non
tutti i suoi ricordi, purtroppo,
erano rose e fiori. Ne aveva uno che cominciava in maniera assurda.
Cominciava
il giorno in cui Sherlock Holmes preparò la sua prima, vera
tazza di tè. All’inizio
non si capacitò di cosa stesse succedendo. Lei, nonostante
le sue ottime
capacità deduttive, era quasi sempre chiusa
nell’armadietto e aveva una
conoscenza estremamente basilare di cosa succedesse
all’esterno. Per questa
ragione era sempre stata molto invidiosa degli altri mobili,
soprattutto della
poltroncina, tanto che, una volta, si era persino permessa di versarle
il tè
addosso per macchiarla. Un dispetto.
Comunque
- come si può notare, davvero le
tazzine divagano sempre – Sherlock quel giorno aveva
preparato il tè. Per un
attimo aveva pensato che la stesse preparando per John, che fosse
l’inizio di
qualcosa d’importante. Ma le mani di Sherlock, quando la
toccarono, erano
fredde. E non erano mai fredde quando pensava a John.
Sherlock
l’aveva consegnata ad un uomo
che non conosceva, un uomo che Sherlock, evidentemente, disprezzava. E
lei, nel
suo piccolo corpo di porcellana, non poté che essere
d’accordo con il giudizio
del detective.
Ricordava
ancora le fredde dita dell'uomo
che Sherlock non osava quasi chiamare per nome. Le sentiva intorno al
suo
manico e rabbrividiva. Non potevano essere dita umane, come potevano
esserlo?
Non c’erano sentimenti, non c’erano emozioni. Solo,
qua e là, un minimo tremore
d’eccitazione quando Sherlock sembrava soccombere alle sue
insinuazioni. Anche
le sue labbra erano fredde. Faceva paura quell’uomo.
Moriarty. Sperò di non
vederlo mai più.
Ma la
cosa che più le spezzò il cuore fu
vedere Sherlock dopo che l’uomo se ne fu andato. Non disse
niente per cinque
minuti. Semplicemente la sollevò e la appoggiò
nel lavandino. Poi si mise a
piangere. Un singhiozzo dopo l’altro. Lui, l’uomo
impassibile, l’uomo che non
aveva mai lasciato trasparire le sue emozioni, si stava sciogliendo in
un fiume
di lacrime.
“John…”,
aveva detto con voce tremante “John,
perdonami. Perdonami. Io… ho paura che dovrò fare
una cosa. Una cosa che non ti
piacerà. Una cosa che non voglio fare, ma dovrò
farla. Per te, John. Mi
dispiace. Scusami.”
Perché,
poi, non avesse mai detto quelle
parole direttamente a John, lei non riuscì mai a
capacitarsene.
Fortunatamente,
quel ricordo tanto triste
(a cui, purtroppo, ne seguirono molti altri) che l’aveva
tenuta sveglia più di
una notte fu sostituito da uno decisamente più felice, anche
se giunse molto
tempo dopo. Era il suo ricordo preferito. Un ricordo talmente perfetto
che, se
avesse potuto, avrebbe urlato ai quattro venti quanto fosse bello.
Era il
ricordo delle dita di Sherlock e
John che si sfioravano sul suo manico e che, per la prima volta, non si
ritraevano secondi dopo. Rimasero lì, ferme: indice su
indice, medio su medio,
mano calda su mano calda. Sentì i battiti di entrambi
accelerare al contatto
prolungato, li sentì tremare per l’anticipazione
del momento, li sentì vicini
come non lo erano mai stati. Elettricità che si accumulava
nell’aria, uno
sguardo infinito tra i due. E, infine, Sherlock si era abbassato verso
John, il
viso a pochi centimetri di distanza, finché le labbra non si
erano incontrate.
La tenevano sempre in mano, stringendola con forza, mentre si
baciavano. Riuscì
a sentire tutto quello che non si erano mai detti, tutto quello che
avevano
nascosto, in quel bacio. Che fu un’esplosione, che fu fuochi
d’artificio, e fu
dolce, e fu tenero. Fu tutto.
Per un
momento pensò che sarebbe andata
in frantumi dall’emozione. Riuscì a trattenersi,
fortunatamente. Non era bello rompersi
di punto in bianco in mano alla gente. E lei era una tazzina educata.
Quel
ricordo era ciò che di più
importante aveva. Non era sicura che qualcos’altro di
più bello avrebbe mai
potuto sostituirlo. Ma, forse, per la prima volta nella sua vita, si
stava
sbagliando.