Diciannove settembre: chiavi.
Gli occhi gemono annebbiati dalle
ore di sogni lacerati e strappati, portati
bruscamente alle fredda realtà dei giorni;
le dite sussultano appena contro la calda
ceramica della tazza e i pensieri scorrono
lenti, inesorabili, dolci come il miele ed
insidiosi come un nugolo di spine e rovi.
È un lieve senso di estraneità quello che
respiro, che annuisco, che ricorderò tra
uno sbadiglio e l’altro; un sentore di non
conoscenza, d’impotenza verbale, morale,
corporea, spirituale – inizia ad impastarsi
la lingua con tutto questo zucchero; inizia
la nausea percettiva – e l’empatia scrolla
i nervi saldamente con mani d’acciaio e
pugni di ferro tiepido, caldissimo, rovente.
Non ho paura di bruciarmi; temo il lezzo
dell’indifferenza. Ho paura di perdere le chiavi del
mio nascondiglio, di smarrirle, di dimenticarle e
di non essere più in grado, d’un tratto, di ritrovarle.
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