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Autore: _juliet    20/09/2014    1 recensioni
Ren aveva iniziato a uccidere per denaro a quindici anni e, dopo dieci anni di attività, era convinto che la sua vicinanza risvegliasse nelle persone una sorta di primordiale istinto di sopravvivenza che le spingeva a non interagire con lui.
{Semi-distopia}
Alken è una città martoriata da una guerra tra organizzazioni criminali. Ren è un assassino di professione, estraneo alla faida, un lupo solitario che ama lavorare per conto proprio. Ma quanto può sopravvivere un lupo solitario se i cani sono in branco?
Genere: Angst, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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 – II –




Ren si lasciò sfuggire un sospiro e girò appena la testa verso di lei. Il vicolo era male illuminato, ma riusciva a intravedere i suoi capelli biondi che ondeggiavano nel vento.
«Buona sera, May» disse.
«Non muoverti o sparo!» gli intimò lei.
La sua voce si era alzata di un'ottava, informandolo che, anche se ostentava sicurezza, non era affatto tranquilla. Il giovane sghignazzò e si voltò completamente, per godersi meglio quello spettacolo patetico.
«Ti ho detto di non muoverti!» scandì May.
Le sue mani stringevano la pistola con tanta forza che, probabilmente, le nocche erano sbiancate. Teneva le braccia tese di fronte a sé e impugnava l'arma correttamente, ma il suo corpo era scosso da un tremito che non era causato dal freddo. La corporatura minuta, gli occhi inumiditi e i capelli chiari non facevano altro che completare l'immagine inoffensiva della ragazza; anche se fosse stato completamente disarmato, lei era meno minacciosa degli scarafaggi che gli zampettavano fra i piedi. Per qualche motivo, quel pensiero lo infastidì.
Ren tolse le mani dalle tasche e alzò le braccia, mostrandole i palmi. Dopo qualche attimo, le sorrise e appoggiò il petto alla canna della pistola, in attesa.
Gli occhi di lei si riempirono di confusione, diventando, se possibile, ancora più grandi. Il suo sguardo correva dall'arma al viso di Ren, mentre le dita si torcevano intorno al calcio della pistola. Sembrava quasi che gli stesse chiedendo il permesso.
“Il permesso per spararmi. Oh, May.”
Le concesse un altro secondo, poi reagì: afferrò la pistola con la mano sinistra e gliela tolse con uno strattone, mentre con la destra stringeva il suo collo magro e la inchiodava senza sforzo contro il muro.
May graffiò e sputò e cercò di morderlo, ma era troppo tardi: non era forte quanto lui e, ormai, era in una posizione svantaggiosa.
«Ti ucciderò, Ren» soffiò. I suoi occhi chiari lampeggiavano di furia, una collera fredda che contrastava orribilmente con il suo aspetto.
Ren la ignorò e si prese qualche secondo per osservare la pistola: una Beretta perfettamente lucida e pulita, che nella sua mano sembrava minuscola. Piccola proprio come la ragazza bionda che la impugnava nei vicoli di quel quartiere dimenticato da Dio.
Attese che May smettesse di tentare di liberarsi, poi la lasciò andare. Lei si accasciò sul marciapiede lurido, cercando il sostegno della parete e tossendo, mentre i lividi della stretta si scurivano sulla sua gola.
«Tu non puoi uccidermi» la informò Ren. Gettò la Beretta ai suoi piedi e riprese a camminare verso casa, desideroso di riscaldarsi vicino al termosifone.
Si era allontanato solo da qualche secondo, quando lì udì. Anche loro avevano abbandonato la strada per infilarsi nei vicoli sporchi e poco illuminati. Continuavano a urlare e a cantare canzoni disgustose e questo poteva significare solo due cose: o volevano attirare attenzioni sbagliate o, più probabilmente, erano troppo sbronzi per capire quello che stavano facendo.
Ren affrettò il passo. Era stanco e provato dalla lunga giornata; desiderava solo rientrare al più presto, mangiare e godersi un meritato riposo.
«Ehi, bionda» biascicò uno degli uomini, fra le risate degli altri. A quanto pare, avevano trovato qualcuno da infastidire. «Quanto per il culo?»
Senza che se ne rendesse pienamente conto, i piedi di Ren rallentarono fino a fermarsi. Si voltò verso l'entrata del vicolo, in silenzio, e non dovette attendere molto prima che un rumore sordo e un coro di fischi sguaiati lo informassero che May aveva reagito. Sentì il suo volto distendersi in un cauto sorriso, mentre visualizzava l'immagine di lei che prendeva a calci quel branco di idioti. Era piuttosto divertente.
«Era solo per dire!» strepitò lo stesso uomo, incattivito. «No, non fare così» le sue parole furono accompagnate da un grido.
«Dai, non avere paura!» esclamò un'altra voce sgangherata, mentre lei continuava a urlare. «Facciamo pace.»
Ren sospirò. Gli dispiaceva per May ma, d'altronde, cosa si aspettava? Girovagare di sera, da sola, in un quartiere come quello... Avrebbe dovuto essere più sveglia.
«Vieni qui, bionda, fatti guardare» una quarta voce, resa grottesca dall'eccitazione, si aggiunse al coro.
“Non sono affari miei”, si disse il giovane. Ma allora perché non se ne stava andando?
May urlò ancora. Un rumore sordo, orribile, di carne che si scontrava con altra carne, e le sue grida si tramutarono in singhiozzi.
«Così va meglio» commentò il primo uomo. «Quando piangono mi viene durissimo.»
“Figlio di puttana.”
Prima di capire cosa stesse facendo, Ren infilò una mano nel cappotto e afferrò il calcio della pistola.
“Spreco di spazio.”
Corse nel vicolo e si arrampicò sulla scala antincendio di un palazzo, senza preoccuparsi di essere silenzioso: il metallo cigolava sotto i suoi piedi, ma sicuramente quei pezzi di merda non gli avrebbero prestato attenzione.
La luce era fievole, ma a Ren bastò per vedere May trattenuta a terra con i pantaloni abbassati.
In quel momento, uno degli uomini con il giubbotto di pelle le si accucciò fra le gambe e le sputò in faccia. «Sai cosa mi piace in una ragazza come te? Il mio caz-»
Il proiettile centrò la sua fronte. Il cranio si aprì e liberò un fiotto di sangue e pezzi di materia cerebrale, che si riversarono sul marciapiede e sui suoi occupanti. Il corpo ondeggiò per qualche istante e poi rovinò a terra, rantolante. Non ci fu bisogno di sprecare ulteriori munizioni: gli altri quattro si dileguarono fin troppo in fretta, strillando come ragazzine.
Ren sapeva che lo sparo avrebbe potuto attirare qualcuno, ma continuò a fissare il fondo del vicolo finché fu sicuro che se n'erano andati.
Chiedendosi perché mai avesse dovuto sprecare un proiettile, sedette sulla scala, in silenzio. Rifletté finché May non fu in grado di rivestirsi e di alzarsi, tremando in modo tanto evidente che c'era da chiedersi come riuscisse a camminare. La guardò allontanarsi lentamente e girare l'angolo per tornare sulla strada illuminata.
Solo allora si diresse verso casa.



Ren era seduto all'unico tavolo del suo piccolo appartamento. Aveva già finito di mangiare da un pezzo e osservava con rabbia il piatto di pasta di fronte a lui. Ormai doveva essere freddo.
Stufo di aspettare, si diresse verso l'armadio in cui custodiva le sue armi e ne prese alcune per lucidarle. In quel momento, udì il cigolio della porta d'ingresso.
«Sei in ritardo» commentò, quando lei entrò nella stanza.
May gli lanciò un'occhiata tagliente e non replicò. Trangugiò in pochi bocconi la pasta e si chiuse in bagno senza degnarlo di un secondo sguardo.
Ren decise di perdonarla per il suo comportamento: dopo tutto, aveva avuto una brutta esperienza ed era sconvolta. Probabilmente si era infilata sotto la doccia e si stava stronfinando il corpo con forza, per lavarsi via di dosso le mani di quei pezzi di merda.
Lasciandosi sfuggire un sospiro, il giovane raccolse la borsa di lei dal pavimento dove l'aveva gettata. Con disgusto, si accorse che era lurida: la stoffa, un tempo, doveva essere stata arancione, forse addirittura gialla; ora sembrava marcia e faceva schifo.
Trattenendo il respiro, Ren vi infilò una mano, per verificare che, nello scontro con i pezzi di merda, non avesse perso la Beretta. Trovò senza sforzo la pistola, quindi controllò che ci fossero anche il portafogli e gli altri oggetti personali: l'avevano già derubata una volta e aveva dovuto occuparsene lui; non aveva alcuna intenzione di ripetere l'esperienza.
Toccò con le dita un pezzo di carta e lo estrasse, credendo si trattasse di denaro, ma era solo la fotografia strappata che May si portava sempre dietro. Ren la lisciò contro la coscia, per cercare di eliminare le pieghe che la rovinavano, e la esaminò.
Ritraeva una bambina bionda fra le braccia di una donna di rara bellezza, seduta; alle loro spalle un uomo calvo e rubicondo si appoggiava allo schienale della poltrona. La tensione sui visi dei genitori era evidente persino dietro l'alone di impronte e di grasso che ricopriva la foto.
“Davvero una splendida famiglia”, si disse Ren, riponendola nella borsa.



Quando May uscì dal bagno, era tornato al lucidamento delle armi e si stava occupando di un Derringer.
La ragazza spostò una sedia trascinandola sul pavimento e si sedette il più lontano possibile.
«Asciugati i capelli» le disse Ren, evitando di cogliere la provocazione. «E mettiti qualcosa addosso. Fa freddo.»
Lei ringhiò ma obbedì: aveva capito da tempo che era meglio non farlo arrabbiare. Entrò in camera e ne uscì indossando una felpa e dei pantaloni di tuta. Si era coperta con il cappuccio, notò lui. Probabilmente i lividi sulla sua gola si erano scuriti e non voleva dargli la soddisfazione di vederli. Come se gliene importasse qualcosa.
«A titolo informativo, ti consiglio di non andare in giro da sola quando fa buio» continuò Ren. «Sei una preda facile, bionda
May colpì la mano di lui con il dorso della sua, e il Derringer cadde sul pavimento.
«Ti seguirò sempre, ovunque andrai!» gridò. «Non mi importa a che ora esci! Ti seguirò finché non avrai pagato!»
Ren raccolse la pistola e la ripose con cura nell'armadio. «Vattene a dormire, May» sibilò.



Credeva che non sarebbe mai riuscito a prendere sonno ma, nel momento in cui il suo corpo toccò il materasso, si addormentò.
Sognò la prima volta che May si era presentata alla sua porta. Erano passati solo alcuni mesi, ma a volte sembravano anni. I suoi capelli sembravano un nido di uccelli e aveva le guance scavate. Gli avambracci che spuntavano dalla felpa enorme sembravano troppo magri per appartenere a un'adulta. Stringeva fra le mani una scheggia di vetro recuperata chissà dove e gli occhi chiari lo perforavano con la stessa collera fredda che gli riservava ogni giorno da allora. Gli aveva detto che l'avrebbe ucciso, perché lui aveva assassinato i suoi genitori.
Quella era stata una brutta giornata e Ren aveva pensato che sì, era un cane e si meritava qualunque cosa potesse accadergli, e dato che prima o poi qualcuno si sarebbe vendicato di lui, tanto valeva che fosse quella ragazzina. D'altronde, lui lo sapeva meglio di chiunque altro: la vita di un uomo non vale poi granché.
Le aveva dato la possibilità di farlo, le aveva offerto la gola... ma lei era rimasta immobile, stringendo convulsamente la sua arma, senza riuscire a colpire.
Ren l'aveva guardata bene: sembrava che potesse cadere in pezzi da un momento all'altro. Forse era passato del tempo dall'ultima volta che aveva mangiato e sicuramente aveva bisogno di farsi un bagno. Non sapeva cosa l'avesse spinto a dirglielo, ma l'aveva fatto. Aveva chiesto: «Perché non entri?»
Aveva ancora sulla retina l'espressione esterrefatta di lei quando il sole, filtrando dalle tapparelle, lo svegliò.
Sbadigliando, Ren si passò una mano sul viso e si sollevò, facendo cigolare il letto sotto il suo peso.
Un mugolio alla sua destra attirò la sua attenzione. May dormiva su un fianco, rivolta verso di lui; si era mossa e ora le lenzuola lasciavano scoperto il suo busto. Affondava la testa nel cuscino e i capelli biondi ricadevano sul suo viso, nascondendolo in parte. Teneva un braccio disteso sul materasso, l'altro piegato, la mano vicino al volto.
Per qualche momento, Ren ammirò la luce giocare con il suo corpo, accarezzare la linea morbida della sua spalla, creare chiaroscuri tra le coperte.


 

***



May si svegliò con un sussulto, senza essersi resa conto di aver dormito. Ogni rumore le faceva temere che loro fossero tornati a prenderla. I quattro che erano rimasti, perlomeno.
Annodò i capelli con un elastico e si asciugò la fronte sudata, cercando di calmarsi. Non era la prima volta che le succedeva di essere aggredita, ma prima era sempre riuscita a cavarsela da sola. Non aveva mai avuto bisogno di aiuto. Specialmente del suo aiuto. La rabbia la fece avvampare e colpì il materasso con un pugno.
Mentre si specchiava, le macchie scure sulla sua gola, perfettamente compatibili con le dita di una mano, le fecero venire il voltastomaco.
“Fanculo.”
Il tonfo dell'uscio che si chiudeva la riscosse dai suoi pensieri cupi e si precipitò fuori dalla stanza.
«Ren!» gridò, ancora imbambolata dal sonno. «Ren! Stai andando al lavoro?»
Corse fino all'ingresso e aprì la porta, rimuovendo la barriera che li separava e specchiandosi negli occhi scuri di lui, tanto profondi da sembrare neri, impenetrabili. Occhi da assassino.
«Non sono affari tuoi.»
«Sono affari miei!» ribatté May, alzando la voce. «Stai andando a uccidere qualcuno?»
Ren sorrise. «E allora?»
Non attese la risposta e si allontanò, con la borsa del fucile in spalla.
La ragazza rientrò in casa di corsa e aprì l'armadio delle armi, afferrando una pistola a caso. L'avrebbe raggiunto e gli avrebbe sparato, così avrebbe impedito che altri padri e altre madri fossero assassinati. Avrebbe vendicato i suoi genitori e, allo stesso tempo, avrebbe fatto la cosa giusta.
Tornò all'ingresso con l'arma fra le mani e la puntò contro di lui. Strinse il calcio, ripetendosi che ora l'avrebbe fatto, solo un secondo per calibrare il colpo e avrebbe sparato, lui sarebbe morto e lei si sarebbe purificata nel suo sangue.
Tu non puoi uccidermi.
May sospirò, guardando la figura di Ren farsi sempre più distante, e abbassò le braccia di scatto.
Perché era rimasta con lui così a lungo?

  
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