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Autore: TheDarkDubhe    21/09/2014    1 recensioni
Questa è la breve storia di Manila Blackthorn.
Non so perché l'ho scritta, so solo che se dovessi descriverla con un colore sarebbe: nero.
Non è per stomaci delicati, tocca tematiche delicate, quindi se siete sensibili non entrate.
Se avete da ridire, scrivetemi!
Buona lettura.
Genere: Dark, Generale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Se a Manila Blackthorn avessero chiesto di descrivere brevemente la sua vita, lei avrebbe utilizzato solo tre parole.
Vuota. Insignificante. Piatta.
Alla veneranda età di 25 anni, Manila aveva da tempo accantonato i sogni irrealizzabili tipici dell’adolescenza, chiudendoli a doppia mandata in uno scompartimento ormai in disuso della sua memoria.
La voglia di cambiare la storia, quel sentirsi potenti, invincibili, e la sensazione di avere aperte davanti a te tutte le porte del mondo erano ormai qualcosa di sconosciuto per la ragazza, come il vago ricordo di un amico d’infanzia, che sai essere stato importante per te, ma di cui non ricordi più né le fattezze né il nome.
Manila era una ragazza tra le tante, non aveva niente di speciale: fin da che avesse memoria, era sempre stata una persona fredda, calcolatrice e scaltra. Aveva dovuto esserlo, aveva dovuto dimostrare di essere forte e capace, migliore degli altri, essendo costretta a crescere in uno dei tanti sobborghi malfamati della Grande Mela, dove il più forte vinceva e per i deboli non c’era posto.
Il quartiere era popolato da gang e spacciatori, prostitute sui marciapiedi e pub aperti tutta la notte ad ogni angolo. Le sparatorie erano all’ordine del giorno, c’era almeno un morto ammazzato ogni tre ore e la vita notturna era costituita da sirene e luci lampeggianti delle ambulanze che facevano da spola tra i vicoli bui e l’ospedale. Insomma, era un modo a sé, quello in cui Manila era cresciuta, una sorta di stato nello stato, dove contavano i soldi, i contatti influenti e il fatto di avere sempre la pistola infilata nei pantaloni.

Prima lezione: mai essere disarmati. Mai. Che tu sia a fare la spesa o a sbatterti una puttana.

La polizia era una marionetta nelle mani della malavita, e la legge che vigeva era quella del taglione.
Manila però era aveva subito capito il neanche tanto sottile meccanismo che mandava avanti la vita.
E allora aveva lavorato sodo.
Aveva fatto violenza su se stessa, costringendo il suo viso ad indossare una maschera di apatia e freddezza e i suoi occhi a non alzarsi mai da terra, per evitare di incrociare quelli sbagliati.
Aveva cercato di essere il più possibile invisibile, di confondersi  con lo sfondo: e se le capitava di ascoltare qualcosa di losco, lo teneva per se.
Manila non faceva mai domande.
E non aveva amici. Per mantenere la facciata di apatia e glacialità, era meglio non aprirsi con le persone, questo pensava Manila. Che senso aveva avere dei rapporti umani in una terra dove non sai neanche se riuscirai a vedere l’alba del giorno dopo? Che senso aveva legarsi con persone che sai potrebbero morire da un’ora all’altra?
Quando poi era giunta l’adolescenza, e le sue nuove forme avevano iniziato a fare capolino, aveva preso l’abitudine di indossare abiti morbidi e larghi per nascondesi e di curarsi del suo aspetto il minimo indispensabile.
Molte donne infatti, soprattutto le più belle, finivano col diventare il giocattolino sessuale di molti gangstar, volenti o nolenti.
E Manila era una bella ragazza, sotto quella massa di capelli neri arruffati e quella pelle grassa e piena di imperfezioni: ma se la brutta impressione che faceva alla gente, con l’apparecchio e quegli occhiali troppo grandi per il suo viso, era il prezzo da pagare per la sua salvezza, lei era più che disposta a sacrificarsi.
E la sua vita era trascorsa così, in solitudine, attenta a mimetizzarsi.
E Manila si mimetizzava alla perfezione, sempre e dovunque, tranne che a scuola. Tra i banchi, Manila apprendeva, studiava e immagazzinava qualsiasi informazione: era una delle più brave studentesse dell’istituto, una di quelle che, si mormorava nei corridoi, poteva farcela.

Seconda lezione: sapere è potere. Più sai, e più sarai temuto. Più sai, e più avrai possibilità di salvarti. La conoscenza costituisce la differenza tra la vita e la morte, qui.

Manila aveva trovato la sua chiave di volta, la sua via di fuga da quella di vita di soprusi e ingiustizie.
E per riuscirci, rimaneva sui libri tutta la notte, ignorando i gemiti,gli scricchiolii e le urla che arrivavano dal salotto.

***

Manila abitava con la madre in un piccolo e trasandato appartamento, composto da due stanze divise da una sottile tenda di perline: da una parte  il salotto e la cucina, dall’altra il letto di Manila e il bagno.
 Chastity – questo il nome della donna  che l’aveva partorita – di casto non aveva proprio niente. Era sulla trentina, una bella donna, sempre truccata. I lunghi capelli rossi, quasi viola, stonavano con la carnagione pallida, d’alabastro, facendola sembrare sempre sul punto di svenire. Chastity viveva persa nel suo mondo, dove piacere e lavoro andavano a braccetto, e il suo unico dovere era quello di fare tutto quello che i clienti che portava a casa le ordinavano, dimentica della figlia.
Chastity aveva avuto Manila in giovane età, quando già era entrata nel giro, e la considerava alla stregua di uno sfortunato incidente, come quando ti rigano la portiera della macchina o ti sporchi le scarpe nuove di fango. Imprechi e urli, per un po’, ma poi capisci che non puoi cambiare le cose e devi andare avanti. E col tempo ti dimentichi di quello che è successo, te lo lasci alle spalle.
Se a Chastity avessero chiesto della figlia, lei avrebbe ribattuto di non averne una.

***

La confusa spirale di sangue, soldi, sesso e violenza che tormentava la vita di Manila, minacciando di schiacciarla sotto suo peso aveva avuto fine l’ultimo anno di liceo della ragazza, dopo la fine della scuola.
Una prestigiosa ed esclusiva facoltà di legge aveva deciso che era giunto il momento tirare a nuovo l’immagine dell’università, considerata troppo snob, e aveva deciso di farlo ammettendo gratuitamente ai propri corsi studenti capaci ma poveri: a Manila, la lettera di ammissione era arrivata in una fresca giornata di fine giugno.
Il primo luglio la ragazza era già sul treno diretto dall’altra parte della città, le sue poche cose chiuse in un vecchio borsone da ginnastica e i suoi pochi soldi al sicuro nella tasca interna della giacca leggera.
Manila non provava dispiacere o rimpianto per quello che aveva lasciato, non provava niente al riguardo.
Solo un’immensa felicità per dove era diretta.

***

Dopo quattro anni, Manila si era ritrovata alla porta della sua università con in mano una laurea in legge e ai suoi piedi non più uno, ma due borsoni.
Dopo tanto tempo, la ragazza aveva ripreso a sperare nel futuro. Voleva diventare un avvocato, fare parte di uno studio legale importante e risolvere le ingiustizie del mondo.
Aveva trovato posto come stagista in un piccolo studio, ma aveva accettato con il sorriso, pensando che anche i più grandi iniziano dal fondo e che di sicuro avrebbe avuto altre  possibilità in futuro.
Aveva sgobbato duramente per un anno, iniziando la mattina presto e finendo la sera tardi, lo stipendio che a malapena riusciva a coprire le spese del suo nuovo appartamento e a permetterle di avere lo stomaco pieno due volte al giorno.
Quando era arrivata al limite, aveva chiesto di avere un aumento o una promozione, e aveva ricevuto un bel calcio nel culo, che l’aveva ributtata in strada, da dove veniva.
Aveva dovuto rimboccarsi le maniche, ancora una volta, ma Manila non aveva demorso: mentre di giorno cercava un posto come segretaria o socia o stagista nei vari studi di avvocatura, la notte lavorava come barista e spogliarellista in un bar, per mantenersi l’appartamento e il frigo pieno.
Era andata avanti un po’, con questa doppia vita, fino alla svolta: l’avevano presa come segretaria di uno dei più importanti soci dello studio Lawrence & Clark, uno dei più rinomati di New York.
Per una volta, Manila si era concessa di festeggiare l’accaduto con una birra, spesa extra,  da sola, nel suo appartamento.
Infatti, anche se aveva abbandonato il quartiere, il quartiere non aveva abbandonato lei.
Manila non riusciva più a scollarsi di dosso la sua maschera apatica e fredda, tanto che ormai vi aveva rinunciato. Dopo anni che se n’era andata da quel luogo malfamato, ancora non riusciva a stringere rapporti interpersonali che avessero una qualche importanza, oh no.
E fu proprio quella maschera glaciale la causa di tutto, la causa del perché il suo corpo in parte denudato sarebbe stato trovato morto da li a sei mesi sulla riva del fiume Hudson, mezzo sbocconcellato dai pesci, le orbite vuote.
Il signor Hornby era il socio a cui era stata assegnata. Lavorarono proficuamente insieme per più di due mesi, con soddisfazione da ambo le parti, finché il signor Hornby iniziò a provare un sentimento diverso dalla stima sul piano professionale per quella ragazzetta tutto pepe con quei magnetici occhioni neri.
Il signor Hornby la desiderava, e non perdeva occasione per farglielo capire;  Manila invece non era interessata, non voleva mischiare la sua vita privata con il lavoro e poi, si disse la ragazza, “il signor Hornby ha il doppio dei miei anni”.
Ma, si sa, quello che gli uomini ricchi e potenti desiderano, quegli stessi uomini ottengono.
Una sera erano rimasti solo loro due allo studio, intenti a riguardare per l’ennesima volta che le carte per il processo dell’indomani fossero perfette.
Il signor Hornby era continuamente distratto dai movimenti della ragazza che, di fronte a lui, si risistemava meglio sulla sedia o ricercava qualcosa in mezzo al mucchietto di fascicoli posti sul piano di legno che li divideva. Il socio non le toglieva gli occhi da dosso, non riusciva a farlo, era più forte di lui. L’uomo stava iniziando a sudare freddo, pregando che finissero presto.
Ma le cose non vanno mai come si spera.
Complice un movimento brusco, la giacca del tailleur di Manila scivolò di lato un poco, giusto quel che bastava per scoprire un po’ di più il decolleté: Hornby, dal canto suo, riusciva benissimo a vedere i dolci pendii del suo seno.
Hornby non ci vide più: già eccitato fino allo stremo, tediato dai continui rifiuti della ragazza, si lasciò andare ai più bassi istinti.
Si alzò di scatto dalla sedia, fece il giro del tavolo, avvicinandosi alla ragazza, che alzò a malapena lo sguardo.
Hornby si sentì rifiutato ancora una volta. Quella ragazza non lo degnava nemmeno di uno sguardo. Era la persona più frigida che avesse mai conosciuto, ma l’uomo moriva dalla voglia di dimostrarle il fatto suo, di farla sciogliere, di affermare la sua volontà. Nessun’altra donna lo aveva mai trattato in quel modo, e Hornby si sentiva sminuito nella sua mascolinità.
Ma le avrebbe fatto cambiare idea, oh se lo avrebbe fatto: quello scricciolo di donna non poteva osare ignorare un uomo potente come lui.
Le avrebbe imposto la sua, di ragione.
E fu con questi pensieri che gli rimbalzavano in testa che l’uomo afferrò Manila per un braccio, sbattendola prona sul piano ricoperto di fascicoli che fino a pochi attimi prima stavano consultando.
La donna fece per urlare, ma Hornby ormai era in preda a un raptus, non capiva più niente, aveva un unico pensiero in mente -“lei è mia, ora”- ed agiva di conseguenza: l’afferrò per i capelli e sbatté con forza la testa sul tavolo.
Manila tentò di lottare, facendo forza con le braccia sul legno per rialzarsi, ma l’uomo si gettò di peso sulla schiena di lei, appiattendola sulla tavola e svuotandole i polmoni d’ossigeno, bloccandogli così gli strilli sul nascere.
Per evitare che le urla della donna attirassero qualcuno, Hornby si slacciò velocemente la cravatta, per poi avvolgerla stretta al collo di Manila: mentre teneva quella specie di cappio improvvisato con entrambe le mani, si piegò in avanti, soffiando sull’orecchio della donna un avvertimento.
Il corpo di lei, dapprima teso, dopo un momento divenne molle, rilassato, e non perché era svenuta: Manila era impaurita  ma perfettamente cosciente mentre udiva il clangore della cintura del socio che veniva slacciata, per poi rimbalzare a terra. Sentì benissimo le mani dell’uomo che le alzavano la gonna sui fianchi, e le strappavano le mutandine. Percepì perfettamente la pelle, i peli e il calore dell’uomo, quando questo si appoggio alla sua femminilità con la sua virilità in mano. Sentì perfettamente il dolore che le esplose nel bassoventre quando la penetrò da dietro, come una cagna, sentì le sue lacrime calde scorrerle sulle guance per l’umiliazione, la rabbia e la paura.
Percepì perfettamente la tensione che aumentava sul suo collo, il cappio che si stringeva sempre di più a ritmo delle spinte, tenuto ora con una sola mano, mentre l’altra andava a esplorare il suo seno e il suo fianco, fino ad arrivare alla sua bocca, dove un dito le aprì a forza le labbra prima di tuffarcisi dentro.
Riconobbe distintamente le ginocchia dell’uomo che sfregavano sulle sue cosce, che le spostavano le gambe per avere più spazio, e anche la giacca dell’uomo che sfregava forsennatamente sul suo tailleur pagato a rate.
Percepì dentro di sé il seme dell’uomo, quando venne, l’ansito prima di ricominciare a spingere nuovamente.

Ma a quel punto il cappio divenne troppo stretto e i suoi pensieri divennero nebulosi, mentre la vista si oscurava lentamente, sfumando nel nero.
Prima di perdere i sensi per l’ultima volta, Manila riuscì solo a formulare un ultimo pensiero.

Terza lezione: la realtà non è mai quello che appare. Il mondo non si divide in lupi e agnelli, oh no. Il mondo si divide in lupi e in lupi travestiti da agnelli.
 
 
   
 
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