Disclaimer: i personaggi di questa storia non mi appartengono e non intendo dare rappresentazione di fatti realmente accaduti ù_ù Ah, sì, non scrivo a scopo di lucro ù_ù
I’ll take your hand and pick you up
Il
fatto è che qui non accade mai nulla di speciale. In una città come questa,
l’unica cosa di cui si può approfondire la conoscenza è la routine,
schiacciante, soffocante e monotona.
Una
routine che ti toglie il respiro, facendoti sentire in trappola nella tua
stessa vita, incastrata mentre te ne vai in giro per le strade. Persino l’aria
sembra fasulla e mai abbastanza per rinfrescare davvero i polmoni, come
filtrata tra quattro pareti invisibili che continuano a stringersi attorno a
te, fino a sfiorarti.
Una
routine che non si attenua mai, nemmeno di notte, nel silenzio totale, c’è un
segno che interrompa il tutto, che spezzi questa pace soffocante e che dia
l’impressione che questo mondo si muova davvero.
Persino
qui, ad Orem.
Per
questo quando la mia labrador comincia ad abbaiare come una pazza
costringendomi ad aprire gli occhi e notare con la mia vista sfocata che sono
solo le due, mi domando che diavolo stia succedendo di così eclatante. Sospiro,
arrendendomi all’idea che dovrò scollare il culo dal letto per vedere cosa
infastidisca tanto la sua calma.
Mi
avvicino appena alla finestra, scostando la tenda. Afferro gli occhiali e
aguzzo la vista sino a che non vedo la mia cucciola correre verso il cancello e
tendere le sue zampe e il suo muso al di fuori, probabilmente rischiando di
rimanere incastrata tra le sbarre in ferro nero battuto.
Ad
illuminare la scena quelli che sembrano i fari di un’auto. Deglutisco, un po’
sconcertata.
Chi
diavolo può essere a quest’ora? Osservo la scena per un po’, ma Daisy non
sembra volersi scollare dalla sua postazione, forse beandosi delle carezze di
qualcuno. Il punto è ... chi?
Infilo
le ciabatte e afferro una felpa, con l’intenzione di scoprire se ci sia
effettivamente un personaggio misterioso e con le buone speranze che non sia un
ladro.
Scendo
le scale, attraversando l’ingresso un po’ agitata, sperando in qualche
ragazzino che si diverta a passare la notte fuori e sia un amante degli animali.
Apro la porta e non appena metto un piede oltre la soglia vengo investita
dall’aria gelida della notte.
Un
brivido percuote il mio corpo, mentre comincio a muovermi verso il cancelletto.
Riconosco una figura piuttosto alta e magra e il mio cuore prima solo allarmato
ora schizza in gola, rimbalzando quasi si stesse contorcendo. Un po’ male lo
fa, a dire il vero.
Ma
ormai è troppo tardi per tornare in casa. Il suo sguardo mi ha messo nel
mirino. Mi sta fissando e sembra che un faro dalle dimensioni assurde sia
puntato sul mio corpo sciupato, sottolineando le condizioni pietose in cui sono
ora, con i capelli in chissà quale forma, gli occhi che potrebbero fare
benissimo concorrenza a quelli di un tossico e l’espressione sbalordita.
Eppure
non mi fermo. La mia mente rimane al centro del giardino, fissa nel momento in
cui l’ho riconosciuto, ma le gambe si muovono, portandomi di fronte a lui,
intento a passare distrattamente una mano sul muso di Daisy mentre mi scruta.
Un
leggero sorriso si fa strada sulle sue labbra ma non gli do nemmeno il tempo di
aprir bocca, smontando subito ogni sua buona intenzione con il modo distaccato
che a lui non sono mai riuscita a riservare.
“Che
cazzo fai qui?” la mia è una domanda, ma il tono non è affatto interrogativo.
Voglio una spiegazione.
“Non
dovresti essere da qualche parte nel mondo... che so... in Giappone, o Europa?”
aggiungo, beffarda, con una nota di cattiveria nella mia voce.
E
lo vedo chiaramente abbandonare le sue originali intenzioni, come quel sorriso
abbandona il suo volto non appena percepisce le mie parole cariche di orgoglio.
Sì, fottuto orgoglio. Perché se non fosse per quello ora avrei già aperto
questo dannato cancello e sarei piombata tra le braccia di quello che ho sempre
considerato il mio migliore amico dicendogli che mi è mancato un sacco.
Ma
questa bestia superba di sentimento e le chiamate mancate del mio amico
trasformano quella che sarebbe stata la mia normale reazione in uno
spettacolino degno di una nevrastenica.
“Io...
Noi siamo appena tornati” mormora, abbassando lo sguardo.
Lancio
un’occhiata alla volkswagen i cui fari ci abbracciano
con la loro luce fredda. Abita due case più in là e sono le due di notte.
Avrebbe potuto benissimo passare domattina. Non capisco davvero perché dopo
mesi in cui non si è fatto sentire ora sia qui fermo con il motore della sua
auto ancora acceso.
“Mi
sei mancata...” sembra leggere nella mia mente una domanda, perché mi fornisce
queste tre parole come spiegazione.
Scolla
lo sguardo mesto dalle sue scarpe per tornare sul mio viso.
“Esistevano
le chiamate, comunque” replico lapidaria, ancora una volta stroncando le sue
scuse.
In
ogni caso non credo basterebbe dire ‘anche tu’ per fargli capire quanto persino
l’aria sembri diversa quando non c’è lui a farmi vivere in questo buco di
città.
Ed
è strano, una sensazione a cui non riesco ad abituarmi, non averlo più accanto.
Siamo cresciuti insieme, quasi vicini di casa. Da quando avevo tre anni ero
abituata a scorgere la sua zazzera di capelli biondi quasi ogni secondo della giornata.
Con
lui ho condiviso più o meno tutto. Persino i giochi, di cui i bambini
solitamente sono così gelosi.
Lui
c’era quando alle elementari le altre bambine mi prendevano in giro perché mi
comportavo come un maschiaccio. C’era quando alle medie il più figo della scuola mi aveva deriso. C’era quando sono
diventata direttrice del giornalino d’istituto, rivoluzionandolo. C’era quando
mi sono fatta il primo tatuaggio senza che i miei sapessero nulla. C’era quando
ho comprato il primo basso e mi assecondava con le note della sua chitarra.
C’era ogni dannato week end quando potevamo passare il tempo a suonare,
guardare film su film oppure sbronzarci e fare cazzate. C’era sempre. Era la
mia boccata d’aria, quella che anche dopo una giornata di merda, se respirata a
fondo, riesce a farti sentire meglio.
E
di colpo quell’aria mi è stata tolta e ancora non sono esercitata a quella
inquinata di questo posto.
“Mi
dispiace... credevo non mi volessi più sentire” il suo tono si fa un po’ più
duro, ricordandomi che qui, se proprio si vuole parlare di colpe, non ho il
diritto di doverla addossare tutta a lui.
In
fondo sono io quella che ha reagito mettendo il muso per giorni quando lui mi
ha annunciato all’apice della felicità che sarebbe partito in tour per qualche
mese. Il suo primo tour.
Avrei
dovuto fare i salti di gioia con lui. Invece no, ho soffocato il sorriso che
sarebbe dovuto nascere dal mio volto, schifosamente egoista mi sono domandata
solo quando sarebbe tornato e cosa sarebbe successo ora che la musica lo
impegnava sempre di più e lo spazio per tutto il resto si riduceva.
Avevo
paura. Una fottuta paura di perderlo, ma non ho mai avuto il coraggio di
dirglielo. Anche allora è stato l’orgoglio a prevalere, impedendomi di
esprimere i miei sentimenti.
Sospiro,
ritornando al presente quando Daisy mi salta addosso, graffiandomi appena una
mano, quasi a dirmi che sono una stupida. Mugola un po’, per poi guardare
Quinn.
Cazzo,
se potesse parlare credo ora mi urlerebbe contro.
In
effetti è vero, la situazione è ridicola. Ma non si tratta solo di questo
momento. Forse lo è sempre stata.
Perché
noi eravamo felici, lo siamo sempre stati insieme, ma abbiamo sempre ridotto la
cosa al fatto di essere solo ottimi amici, come fratello e sorella.
Che
cazzata. Quello che ci faceva davvero stare bene era la combinazione perfetta
dei nostri caratteri, i nostri stessi sguardi, i sorrisi. Lo spazio che
ritagliavamo solo per noi, escludendo fuori tutto il resto.
Il
fatto che ci amavamo. E chissà se ora, da parte sua, è cambiato questo.
Quasi
mi viene da ridere di fronte alle scuse ridicole che ci inventavamo quando le
nostre labbra erano troppo vicine, sempre ad un passo dallo scontrarsi.
Ci
siamo fatti male in nome di un’amicizia che non sarebbe nemmeno dovuta rimanere
solo tale. E ce ne siamo resi conto troppo tardi, qualche mese fa. No, non ce
lo siamo mai detti e forse sto sbagliando.
Forse
per lui sono davvero solo una sorella. Ma ora so che provo io, so che sto così
male perché se ne è andato quando avrei voluto che mi portasse con sé, non solo
perché il mio amico storico non mi aveva fatto partecipare ad un viaggio con la
sua band.
Daisy
col suo muso sfiora la mia mano, leccandola appena.
“Qui
ci congeliamo. Se devi parlare un po’ meglio che entri...” mi arrendo infine,
mandando al diavolo un po’ dell’orgoglio e della freddezza che pungevano molto
più chiaramente poco fa.
Annuisce,
spegnendo e chiudendo in fretta la macchina, mentre io faccio scattare la
serratura del cancello, aprendolo. Lo oltrepassa, arrivandomi accanto, così
vicino che le nostre braccia quasi si toccano.
Sbatto
il cancello, chiudendolo alle nostre spalle, cercando un diversivo per non
scivolare nel suo sguardo.
Il
vento si alza, facendo correre più di qualche brivido sulla mia pelle.
“Entriamo...”
dice quindi lui, notando come sia prossima al tremare.
Annuisco
lieve, mentre lui mi segue nel calore del mio salotto. Mi siedo sul divano,
aspettando che apra bocca, ma quando si mette davanti a me non fa altro che
tentare di cogliere il mio sguardo che abilmente sfugge dal suo viso.
“Bhe...?” lo incoraggio.
“Cosa?”
replica, quasi scocciato.
“Sei
piombato qui in piena notte, una ragione ci deve pur essere...O è il tuo nuovo
hobby quello di svegliare i tuoi vicini?” commento, ironica.
“Te
l’ho detto... Mi mancavi...” ripete e il mio cuore martella forte, quasi
volesse raggiungere anche il cervello per riscuoterlo, per farmi ragionare.
Il
suo tono dolce che mi ha sempre accarezzato spazza via un po’ di quel gelo che
sembra essermi entrato nelle vene in concentrazioni sin troppo alte.
Mi
decido ad affrontare i suoi occhi che ora però affogano in un punto indefinito.
“Anche
tu” lo mormoro così piano che dubito mi senta “Però hai il tuo mondo ora, fatto
di sogni avverati. Io sono ferma qui, Quinn. Ad affrontare quello reale, da
sola”
Forse
sottolineo sin troppo le ultime due parole, dandomi della completa idiota. Dio,
non credevo avrei mai potuto essere egoista a tal punto.
“Sai,
Hayley, non ho mai sopportato questo di te” mormora,
e nonostante la critica il suo tono si mantiene carezzevole “Non sopporto di
vedere che tu ti arrenda continuamente, dannazione. Sei ferma qui solo perché
lo vuoi, con le tue foto saresti potuta andare dovunque, avresti potuto
lasciare questo mondo molto prima di me. Ma non hai mai avuto abbastanza
fiducia per lanciarti. Quando ti deciderai a farlo, umh?”
la sua domanda ha un tono scontento, mentre mi fissa incerto, storcendo un po’
la bocca, quasi si sentisse male per me.
“Tanto
cosa otterrei Quinn? Fai presto a dire che bastano un paio di buoni scatti per
realizzarsi. Tu ora sei felice, vivi il tuo universo d’oro e vedi tutto il
resto in rosa... Ma non è così. Probabilmente otterrei solo una porta sbattuta
in faccia...” ribatto, forse troppo secca “E poi dovrei rialzarmi da sola,
stavolta” aggiungo amara.
“No,
sai che non è vero... Io”
Lo
interrompo, ancora una volta troppo orgogliosa, troppo esuberante.
“Tu
cosa Quinn? Eh? Tu tra poco prenderai un altro aereo... E sono felice per voi,
davvero, ma non raccontarmi cazzate, per favore. Non ci siamo sentiti per
qualcosa come quattro mesi e sebbene sia un periodo corto le cose sono già
cambiate. Stiamo solo discutendo ora... Tu non potresti fare nulla Quinn, qui
si è già spezzato tutto” ribatto arrabbiata più con me stessa, per non aver mai
avuto le palle di prenderlo in mano io, quel dannato cellulare per chiamarlo e
sentire come gli andava la vita.
Il
mio tono è amaro, mentre spero vivamente di non aver ragione.
Dio,
sono una gran cogliona. Qui a cercare mille scuse al fatto che non ci siamo
sentiti quando vorrei gridargli in faccia tutt’altro, quando vorrei dirgli
che... che lo amo. Già.
“Cazzo,
Hayley” sbuffa “Io sono qui ora, no? E non me ne
andrò per un po’” ribatte, alzando un po’ la voce “E tra noi non si è spezzato
proprio nulla, lo sai. Ci conosciamo da troppo tempo perché quattro mesi ci
separino. Anche volendo, abito a otto metri da te...” aggiunge, riuscendo a far
mutare un filo la mia espressione, a far nascere in me l’ombra di un sorriso,
anche se incerto e stiracchiato.
“Ho
sbagliato a non chiamarti, è vero, perché ora ti sei fatta un sacco di paranoie
inutili. Solo che i tuoi saluti non erano stati dei migliori, credevo ti avrei
solo ferito facendomi vivo dall’altra parte del mondo....” mi spiega, sincero,
il suo sguardo fisso nel mio, senza alcuna esitazione “Comunque ero venuto qui
per chiederti una cosa, stanotte...”
Lo
interrompo nuovamente, ma stavolta non è l’orgoglio a comandarmi. Anzi, questo
viene allegramente mandato a fanculo quando allungo
le mie braccia verso di lui, stringendolo forte.
Si
lascia sfuggire una risatina, ricambiando la stretta. Mi era mancato il calore
del suo corpo così vicino al mio, mi era mancata la sensazione di benessere che
mi dava.
“Spara
Quinny!” esclamo quindi, mandando al diavolo quelle
paranoie inutili.
Lo
fisso negli occhi, quegli occhi marroni, che forse potranno sembrare comuni, ma
di cui ho imparato a conoscere ogni sfumatura, trovandoli dannatamente
speciali. Perché vi si legge qualsiasi cosa dentro e soprattutto perché sono
puri, sinceri. Ora felici.
Ritrovo
il mio sorriso quando finalmente l’espressione funerea scompare definitivamente
dalla mia faccia, insieme alle mille domande. Abbiamo sbagliato entrambi, è
vero, ma come ha detto lui, ci conosciamo da troppo perché tutto possa morire
così.
Le
pulsazioni corrono mentre mi sfiora il pensiero che potrei rischiare tutto ora,
dirgli cosa provo. Ma ancora una volta mi manca il coraggio, perciò lascio sia
la sua voce a riempire il silenzio.
“Il
prossimo tour sarà in Europa...” comincia sorridendo.
“Ma
andrete anche lì? Grande!” esclamo, finalmente dimostrandogli quanto sia fiera
di loro, della strada che stanno facendo, nonostante questo significhi vederlo
di meno.
“Sì...
Andremo anche lì” calca un po’ troppo
su quel plurale, mentre mi fissa in profondità.
Lo
guardo stupita. No, non vorrà mica intendere che...
“Andiamo,
Hayley. Devo farti un disegnino? Sai che faccio
cagare con la matita...” scherza “Allora... vieni o no con noi?”
Mi
osserva, sgranando un po’ i suoi occhi, tentando di montare un’espressione da
bimbo imbronciato.
“Cazzo!
E me lo chiedi?!” esclamo, scoppiando a ridere.
Mi
metto sulle ginocchia, scompigliando la sua zazzera platino.
Lego
ancora le mie braccia dietro al suo collo, stringendolo forte. Lui fa lo
stesso, sorridendo. E mi sembra di tornare a respirare di nuovo dopo tempo, di
nuovo aria vera.
Una
sua mano corre sulla mia t-shirt, cominciando a farmi il solletico. Mi
divincolo, con tutta l’intenzione di farlo smettere tra le risate,ma perdo
l’equilibrio costringendolo a stendersi sul divano mentre io atterro sul suo
petto col mio corpo, il mio viso a qualche centimetro dal suo.
Le
risate si spengono poco alla volta, mentre il suono che prevale ora alle mie
orecchie è quello dei battiti del mio cuore, sempre più forti, tanto da sembrare
una gran cassa ai miei timpani. Ci fissiamo per qualche secondo, o almeno la
logica mi porta a pensare sia così, perché in realtà la nostra occhiata sembra
lunga un’eternità. E ancora una volta conferma che siamo stati dei cretini a
giocare a fratello e sorella quando il sentimento che ci legava era ancora più
forte.
Prima
di essere del tutto incapace di muovermi per la corsa del mio cuore decido di
seguire l’istinto e annullare quella lieve distanza. Per un istante resto
immobile sulle sue labbra, a contatto con le mie, così morbide. Sento il suo
respiro caldo sul mio viso e spero vivamente non si scosti.
Ma
non mi lascia nemmeno un dubbio quando asseconda la mia mossa premendo le sue
labbra sulle mie, facendosi strada nella mia bocca con la sua lingua che poco
dopo lotta passionevole con la mia.
Corro
con le mani tra i suoi capelli, mentre le sue sono salde sui miei fianchi,
accarezzando la mia pelle sotto la felpa. Interrompiamo il contatto solo quando
siamo a corto di fiato, stando a sorridere come due ebeti e guardarci negli
occhi, proprio come ragazzini.
Ci
vorrebbero più spesso sorprese come questa, a sconvolgere la routine
schiacciante.
Il
tempo è più piacevole se trascorso con qualcun altro. Soprattutto se quel
qualcuno è una persona che ha passato più o meno tutta la vita con te, già
indissolubilmente legata a te, in barba alle poco credibili manipolazioni del
destino.
A
volte semplicemente capita che due persone si incontrino, da una parte o
l’altra del mondo, da neonati oppure adulti e quello che succede dopo
assomiglia un po’ ad un terremoto per il proprio cuore, ma in realtà è solo un
avvertimento.
È
solo quel piccolo muscolo che ci avvisa che l’abbiamo trovato. Che quella è la
persona con cui potremmo anche passare il resto della vita. E quando succede,
persino l’aria che si respira sembra diversa.
As long as you’re alive and care, I promise I will take you there