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Autore: Lexie_Al    26/09/2014    0 recensioni
Sophie May è stata segnata da ciò che il destino ha scelto per lei, la sua vita è diventata una lotta per la sopravvivenza, una lotta contro i suoi ricordi più scuri, a cui sa che non riuscirà mai a trovare rimedio. Eppure lei continua a lottare, a cercare di dare speranza alle persone che le stanno accanto, sentendosi quasi a costretta a fingere di stare bene, perchè le persone sono egoiste e anche se apparentemente desiderano il bene altrui è sempre a se stessi che pensano. Ma arriverà qualcuno, arriverà qualcosa che le dimostrerà che tutto si può superare, che stare bene per rendere felici gli altri non è altro che essere finti con se stessi. Sophie incontrerà la luce, in mezzo all'opprimente oscurità del suo inferno.
Genere: Erotico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Il foglio bianco mi fissa triste, scoraggiato. Mi chiede di riempirlo, di accarezzarlo con parole sincere, di scrivere con l’anima e non con il cervello. Ma sa che non succederà nemmeno questa volta, lo ha capito ormai… E io? Forse comincio a farmene una ragione. Leggo e rileggo la traccia, non sto cercando l’ispirazione, ho paura di trovarla, sto solo sprecando tempo. So già cosa scriverò e alla fine delle due ore non voglio avere il tempo di rileggere il tema impersonale scritto dalle mie mani, potrei voler aggiungere un po’ di me stessa, donare un po’ delle mie emozioni a questi caratteri incolori, ma me ne sono rimaste troppo poche, le tengo dentro di me, nascoste al sicuro.
Al suono della campanella alzo lo sguardo dal mio banco e incontro gli occhi della professoressa. Mi guarda con neutralità, ma non riesce a nascondere la nota di compassione. Distolgo immediatamente lo sguardo, sono stufa di quel retrogusto amaro negli occhi di tutti. Le porgo le pagine fitte di informazioni che potrebbe trovare anche in un libro di testo, scritte con la stessa formalità. Quando mi giro per uscire dall’aula, prima che il corridoio si riempi di liceali stanchi pronti a riempire la scuola di urla e sghignazzi, la professoressa mi afferra dolcemente il braccio.
“Sophie, aspetta.” È calma, come sempre. Invidio la sua tranquillità.
“Io mi sentivo in dovere di darti questa.” Noto una busta bianca nella sua mano. Me la tende dopo un attimo di esitazione e i suoi gesti così insoliti cominciano quasi a preoccuparmi.
“Non voglio che tu ti senta costretta a farlo e forse avresti preferito che io non ti dessi un peso in più, ma una cosa te la voglio dire Sophie… Come avrai capito, insegno da molti anni e ho avuto l’occasione di leggere cose di ogni genere, eppure sono certa che non dimenticherò mai nemmeno uno dei tuoi temi, tu hai-”
“No. La prego, la smetta. Devo andare.” Corro via, lasciando alle mie spalle una persona che crede troppo in me, una persona che deluderei.
Non mi è mai piaciuto correre, ricordo che quando ero costretta a farlo durante le ore di ginnastica mi sentivo soffocare e lo odiavo. Sentivo di non poter controllare i miei battiti e detestavo non avere il controllo sul mio corpo. Ora lo detesto più di allora, ma arrendersi sembra più facile, perché c’è un limite a tutto. E io sono semplicemente stanca di dover lottare contro me stessa e contro i miei demoni. Ora ho imparato a correre perché è più semplice, anche se so di non potere realmente scappare. I polmoni bruciano e il fiato corto manda forti coltellate lungo tutto il torace, le gambe però non si fermano, cercano di allontanarsi da tutto, vogliono fuggire. Mi fermo solo quando la testa comincia a girare troppo e so quello che succede quando ignoro questo chiaro segnale del mio corpo. Mi accorgo di avere tra le mani la busta bianca e sono tentata dal buttarla nel primo cestino che vedo nel grande parco. So cosa c’è dentro e ho paura della mia concreta reazione. Non la butto, ma non la apro, la terrò per ricordo, un appunto mentale costante di quanto al destino piaccia rovinare tutto.
Mi incammino verso casa; quando sono scappata da quell’aula, senza rendermene conto, mi sono ritrovata nel nostro parco. Nostro… E’ il parco in cui sono cresciuta, un forte legame che univa me e mia madre. Nonostante i litigi o i miei capricci, non esiste giorno della mia infanzia che non abbia visto questo posto, il mio rifugio. Ora fa quasi male venire qui, si contrastano taglienti ricordi a una confortevole abitudine. I bambini ridono e si divertono, per loro basta questo, un’altalena e uno scivolo, a fargli credere che la felicità esiste e non è un obiettivo irraggiungibile. Non posso fare a meno di pensare che anch’io un tempo potevo essere felice, ma forse non ho mai lottato abbastanza per esserlo.
Sono cresciuta con la consapevolezza di star maturando troppo in fretta. Da piccola, quando giocavo con le bambole, le mie storie non piacevano alle bambine. Dicevano che ero noiosa come i grandi e che la bambola più bella doveva sempre stare con il principe, dicevano che si sarebbero sposati in un castello incantato e poi pronunciavano l’immancabile “E vissero per sempre felici e contenti”. Io mi adattavo e cercavo accettare tutte quelle bugie, ma non riuscivo a crederci, e un po’ mi è sempre dispiaciuto. Forse alcune persone devono sopportare di essere sempre travolte dalla verità. E noi che ci possiamo fare? Accettiamo questo grande peso.
 Adesso mi sento una bambina, mi accorgo di tutte le cure che le persone intorno a me cercano, indirettamente, di darmi. Sono improvvisamente tornata a cercare di fare i miei primi passi, ma pare che il mio equilibrio sia troppo traballante, contino a cadere, ripetutamente, senza sosta. Perfino la mia sorellina si sente in dovere di badare a questa bimba perduta. Un tempo ero una sorella maggiore, una di quelle che cercano di svolgere al meglio il proprio ruolo. Ero lì quando Lana pianse per la sua prima cotta per il miglior amico del nostro fratello maggiore. Ero lì , e ci sono stata tutte le volte in cui aveva bisogno di me. Ora la piccola Lana è cresciuta e si sente in debito, e io mi sento terribilmente colpevole dell’obbligo che si è imposta a causa mia. Mi aspetta sempre per pranzo, con il cibo ormai freddo in tavola, sa che non mangerò quasi niente ma lei attende il mio sempre più tardo ritorno. Oggi mi guarda con più attenzione del solito, scruta attentamente il mio viso, come se sopra ci fosse scritto qualcosa di importante.
“Ehi! Scusami, sono andata a fare una corsa al parco, avresti dovuto mangiare.”
“Non avevo molta fame.” Mia sorella ha sempre fame.
“E poi volevo chiederti una cosa…” Si guarda le mani, come se queste potessero parlare al posto suo, leggo la paura nei suoi gesti.
“Lana stai tranquilla, sai di poter chiedere qualunque cosa tu voglia.” Nella mia mente prego che sia una domanda banale e che non richieda nessuna risposta troppo esplicita.
“Ecco… Io… Sono stata invitata ad una festa.” Lo dice così velocemente che impiego qualche secondo a cercare di dare un senso a ciò che ha farfugliato.
“Ma non è importante, davvero, scusa. Non so nemmeno perché te l’ho detto. Io non ci voglio andare.” Dice nervosamente, interpretando male il mio breve silenzio.
“Certo che ci vuoi andare. Ti conosco troppo bene Lana. Solo… Non capisco perché eri così ansiosa nel dirmelo, sai che non ti negherei mai del meritatissimo divertimento.” Lo penso davvero, è sempre stata brillante a scuola e non ha mai causato guai; lei è sempre stata più che perfetta, Elena non ha mai fatto qualcosa di sbagliato. Al contrario di me e mio fratello Marco. Probabilmente è proprio questo il motivo per cui si è sempre sentita in dovere di rispettare le regole; almeno uno dei tre figli doveva essere fonte di orgoglio e soddisfazione per una madre che si preoccupava troppo nel cercare di tenere a bada gli spiriti fin troppo liberi di due figli ribelli.
“Non penso che tu me lo negheresti, è solo che si tratta di una festa in un locale affittato per parte della notte e quindi una ragazza ha invitato delle amiche a dormire da lei e ha chiamato pure me”.
“Ehi, ti voglio ricordare che sono abbastanza grande per dormire da sola, non ho più paura dei mostri nell’armadio.”  Temo quelli della mia testa, ma con quelli ci convivo.
“Lo so, ma non voglio che tu rimanga tutta sola in questa casa. Non sei mai rimasta sola da quando… Ecco dall’incidente… Lo sai…”.
“Questo perché voi non avete voluto lasciarmi sola, non ho bisogno di una baby sitter. Vai a quella festa o ti ci mando io a calci.”
“Grazie Sophie. E so benissimo che non hai bisogno di una baby sitter.” Mi guarda un po’ irrequieta e si alza per venire ad abbracciarmi, involontariamente mi irrigidisco ma fingo uno dei miei migliori sorrisi. La vibrazione del cellulare mi salva da quel contatto troppo diretto.
“Pronto?”
“Sof hai da fare? Ho bisogno di te.” La voce abbattuta di Emma mi fa sussultare, non sento quel tono nella sua voce da tanto tempo, speravo di non sentirlo più.
“Emma… Sono da te appena posso, un quarto d’ora al massimo”.
“Va bene, grazie.”
So già che si tratta di Nicola, ultimamente le cose si erano fatte strane e i miei dubbi iniziali riguardo a quel ragazzo troppo sicuro di sé, si stanno rivelando veri.
Sento il bisogno di una doccia, la corsa micidiale sotto il caldo di Aprile non lascia mai buoni risultati.
“Non mangi niente?” La solita domanda. Il solito nodo nello stomaco. La solita bugia.
“Avevo fame dopo la corsa e ho preso un panino al parco. Tu mangia pure, io vado da Emma, ha bisogno di me.” Mi guarda preoccupata, ma sta zitta, si è arresa all’inutilità delle parole.
La doccia lava il sudore e parte della mia stanchezza, una parte non va mai via se si dorme a stento tre ore a notte. Tengo gli occhi chiusi sotto il getto d’acqua, la mia nudità mi intimorisce, è piena di segni indelebili che si portano appresso troppi terrori.
Il piccolo specchio del lavandino mi permette di vedere solo il volto, guardo quella ragazza così diversa dalla me stessa che conoscevo, guardo quel viso pallido e troppo magro, le guance rosse di una volta sono ormai lontane da questa realtà, gli occhi blu si sono spenti, nessuno complimenta più la loro vivacità.
  Dieci minuti dopo cammino per le strade di una Torino illuminata dal sole, per la prima volta dell’inizio dell’anno è tornato il caldo, la gente cammina con  uno strato di vestiti in meno, sembra che solo io abbia ancora freddo. Emma abita a dieci minuti a piedi da casa mia, abitiamo vicino al centro e le strade sono sempre piene di macchine e di persone, non esiste il silenzio nella nostra zona.
Quando la porta si apre mi trovo due occhi rossi e lucidi e una Emma triste che faccio fatica a riconoscere. I suoi capelli castano scuro sono arruffati e il nasino all’insù sembra non voler smettere di colare. E’ bella anche così, insolitamente in disordine e piangente, lo è sempre.
Vorrei correre da lei e abbracciarla, darle un confronto fisico di cui so benissimo che ha bisogno, ma ancora una volta sono troppo egoista e tutto ciò che posso fare è stringerle le mani e asciugare le sue lacrime.
Emma è tutto per me, una sorella, un’amica, una stronza quando ho bisogno di essere sgridata, è tutto. Non posso nemmeno immaginare come sarebbero stati i primi mesi dopo il mio incubo senza il suo sostegno, lei non ha avuto paura del mio rifiuto, lo ha accettato e combattuto e alla fine era l’unica amica rimasta. Gli altri temevano di essere di troppo o di non essere ben accetti in una situazione così difficile, ma lei no, ha insistito e ha sacrificato tutto per me. Ora voglio esserci, voglio insistere anch’io e non essere ancora la bambina che tutti trattano come fosse una fragile bambolina.
“Mi ha detto che andava da sua nonna perché era malata. Quello stronzo ha usato sua nonna per andare a scopare con chissà quale puttana! Come si può essere così vigliacchi?”
Non le so rispondere… La guardo e non so cosa dire, mi riempio di una vuota sensazione di inutilità, ma le parole non escono. Devo essere forte, devo essere forte per la mia Emma.
“Vigliacco e coglione, quale puttana potrebbe mai essere migliore di te? Sai cosa? Ha dei seri problemi mentali se non si rende conto di come andrebbe trattata una come te. Sto per usare un clichè terribile, ma fidati, questa volta è proprio vero… È lui che ci perde, non ti merita.”
Dopo un’ora di minuziosi dettagli dell’avvenuto e diversi insulti verso Nicola, Emma comincia a riprendere le sue sembianze e a mascherare un po’ della tristezza dietro timidi sorrisi. Non è la prima volta che abbiamo conversazioni del genere e purtroppo so che non sarà l’ultima. Lui si farà perdonare, lei opporrà resistenza inizialmente ma poi piano piano si addolcirà e ricadrà in questo ciclo continuo che è la loro relazione. Che strano l’amore, si presenta sotto ogni aspetto diverso e attrae le proprie prede senza che esse se ne accorgano, ma prima o poi colpisce e fa male, un male che non passa mai. Credo che l’amore sia l’ultima cosa di cui ho bisogno ora come ora, un’altra complicazione sarebbe la ciliegina sulla mia torta avvelenata.
Con la musica che rimbomba nelle orecchie, cammino verso casa mia quando comincia già a fare buio. Fingo di non avere paura, ma nel mio profondo sto tremando e a ogni passo accelero, fino a ritrovarmi correndo.
 Non sento il trambusto che si crea introno a me, la musica a palla nelle orecchie me lo vieta. Vedo delle persone che corrono nella mia direzione per controllare se mi sono fatta male, mi tolgo le cuffie e rielaboro ciò che è successo in due secondi. Io che corro in mezzo alla strada, una macchina che mi sta per investire, qualcosa che mi viene addosso e mi fa cadere a terra prima che l’impatto con l’auto possa avvenire. Ma cosa ho fatto io di male? Probabilmente in una vita parallela ero un’assassina e ora il mondo si sta rivendicando.
“Stai bene?” Il “qualcosa” che mi è arrivato addosso parla e ha una voce proprio gradevole.
“Sì… Sì credo di star bene”.
“Riesci ad alzarti?”  Sono sdraiata vicino  al marciapiede, me ne rendo conto solo ora.
“Se non voglio essere investita un’altra volta, forse dovrei alzarmi.” Ma rimango immobile.
“Beh, in realtà non ti hanno investita, ma ci mancava poco”.
“Già. Uhm… Grazie per… Essermi saltato addosso. Tu stai bene?”
“Benissimo. Sono emozionato, è la prima volta che una ragazza mi ringrazia per esserle saltato addosso.”
Deve notare la mia espressione sorpresa, perché il suono dolce di una risata si diffonde intorno a noi.
“Sto scherzando!” Si avvicina e mi ritrovo davanti il suo volto incorniciato da capelli neri, che creano un contrasto particolare con gli occhi azzurri. Deve avere vent’anni al massimo.
“Stai bene? Sei comparsa all’improvviso e non ho avuto il tempo di frenare, scusami!” Un uomo si inginocchia vicino a me, sconvolto.
“No, è solo colpa mia e comunque sto benissimo, non c’è nulla di cui preoccuparsi, ora mi alzo.” Il ragazzo con il bel volto mi porge una mano, io la guardo, immobile.
“Dovresti darmi la mano così ti aiuto ad alzarti, sicura di star bene?”
Quando riesco a calmare tutti e a rassicurarli, rimango sola con il mio salvatore, insiste per accompagnarmi a casa ma per oggi ho avuto già troppa compagnia, voglio solo restare sola.
“Sicura? Guarda che per te potrei anche sacrificarmi e rischiare la vita un’altra volta nel caso ti venisse ancora voglia di correre in mezzo alla strada.” Mi sta prendendo in giro, giusto? Eppure suona come una rassicurazione.
“Terrò le mie voglie suicide a freno, ma grazie. Ora devo proprio andare.”
Si prende il suo tempo per scrutare ogni centimetro del mio corpo e mi sento improvvisamente nuda, sotto esame. Dopo la sua accurata ispezione si ferma sul viso, sugli occhi. I suoi occhi sono come una fonte di energia, come una calamita e non riesco più a distogliere lo sguardo dal quell’azzurro brillante. Finché non mi accorgo che si sta avvicinando. Perché si sta avvicinando?
“Allora ciao Sophie.” È ciò che dice prima di buttare qualcosa nella tasca della mia giacca. Non mi lascia il tempo di chiedere spiegazioni, si avvicina lasciando un dolce bacio all’angolo della mia bocca, e se ne va, lasciandomi sola, pietrificata da mille brividi.
Quando entro in casa c’è un insolito silenzio, niente musica o televisione a tenere compagnia a Lana. Ho dimenticato di chiederle quando sarebbe andata alla festa, ma avrebbe sicuramente avvisato se fosse stata questa sera.
“Cazzo Sophie! Cosa ti costava avvisarci che eri viva e che avresti fatto tardi?”
Vengo assalita dalle facce arrabbiate e preoccupate di mia sorella e mio fratello. Ho fatto così tardi? L’orologio indica le 21:00, anche se fuori è già buio pesto, è ancora presto.
“Mi prendete in giro? Ma avete visto che ore sono? Capisco la vostra preoccupazione ma state seriamente esagerando! Sono stufa di tutto questo, quindi mettiamo in chiaro alcune cose. È successo quello che è successo, è vero, ma come pretendete che io mi riprenda se quando rientro all’ora che era il mio coprifuoco a quattordici anni voi impazzite?” I loro sguardi si addolciscono mentre si rendono conto di aver esagerato. Siamo una famiglia, non quella di un tempo, non torneremo mai quella famiglia forte e affettuosa che eravamo; no… Questo è il presente e se non possiamo più avere il meglio, possiamo cercare di avvicinarci il più possibile.
Un film e una pizza dopo sono esausta e mi lascio avvolgere dal sonno tra le braccia di mio fratello Marco.
 
   
 
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