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Autore: Lexie94    04/10/2014    2 recensioni
Questa è la storia di Elena Hetfield, una giovane ragazza che odia la sua vita.
Elena, detta Elly, vive in un piccolo paese di provincia, dove passa la sua vita tra il liceo (del quale non le importa nulla) e i suoi pochi amici che ha, ovvero le persone a cui tiene di più in assoluto.
Spesso derisa dai suoi compagni di liceo, Elena con il suo carattere vivace (e menefreghista), riesce a ribaltare la sua situazione grazie ad un evento che lascerà l'intero liceo a bocca aperta.
Seguiremo poi Elena all'università, dove insegue il sogno della California, fino a quando riuscirà a raggiungerlo.
Ma le cose non sembrano andare come dovevano.
Intraprenderà una relazione clandestina con una rockstar, si calerà nel tunnel della droga fino a quando una telefonata la sconvolgerà e la riporterà al punto di partenza.
Questa storia non sarà a lieto fine, e sarà una storia cruda e dolorosa. Ci farà capire cos'è la solitudine.
Ci insegnerà che non sempre la vita delle star è allegra, e ancora meno per i loro figli.
Ma ci insegnerà a credere in noi stessi e a cogliere l'attimo, carpe diem.
Ecco a voi la storia di Elena Hetfield.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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PARTE 1: "Hi, my name is Elly"



1.
 
 
Mi chiamo Elena Hetfield, e questa è la mia storia.
 
Sono nata a Milano all'inizio dell'anno 1993, il 27 febbraio, per la precisione.
Ho sempre abitato con mia madre e suo marito, Michele, un tipo noioso tutto casa e lavoro. Ma uno di quelli proprio noiosi, sempre in giacca e cravatta e con i capelli pettinati rigorosamente all'indietro. Ah, e non dimentichiamoci degli occhiali rettangolari con la montatura d'acciaio blu. Non ci andiamo a genio l'un l'altra, ma ci tocca sopportarci visto che lui è il marito di mia madre e il padre di mia sorella. Mia mamma l'ha sposato nel 95, quando avevo due anni e nel 97 hanno sfornato Marta. Che bel quadretto famigliare.
Mio padre invece è un riccone americano che vedo due volte all'anno, una a Natale e una volta durante l'estate. Aveva conosciuto mia mamma durante una vacanza a Milano nel 92, e puff, sono nata io. Quand'ero alle elementari sapevo molto poco di lui, nonostante lo vedessi tutti gli anni. Sapevo solo quattro cose di lui: che era americano, che si chiamava James, che aveva una moglie di nome Francesca (evidentemente a papà piacciono proprio le italiane, oh) e che faceva un lavoro strano. Non ha mai voluto dirmi che lavoro facesse, così alla domanda «Che lavoro fa tuo papà?» ero una di quelli che rispondeva: «Non lo so, non ho capito» e poi aggiungevo: «Però il mio patrigno ha un'agenzia immobiliare». Gran bel lavoro, davvero.
Poi mia madre, o Michele (ancora non so a chi dare la colpa), o forse entrambi decisero di trasferirsi in un paesino dimenticato da Dio, circondato da campi e da mucche. Ci siamo trasferiti qui a Casali Lodigiani (un nome una garanzia!) appena prima iniziassi le medie. E non bastava il fatto che le medie sono già una scuola di merda per conto loro, no... ci voleva pure il trasferimento. Mi chiamavano "La Milanese", ma tra quei caproni non era altro che un complimento.
 
Ricorderò sempre il primo giorno delle medie, ero totalmente impaurita e spaventata. Mi ero seduta in un banco alla quarta fila vicino alla finestra. La mia compagna di banco si chiamava Pamela, che poi avrei scoperto essere una stronza, ma di quelle potenti.
Il mio cognome durante l'appello era la complicazione di ogni professore che non sapesse nemmeno una parola in inglese.
«ETFIELD?».
«ETFIL? Ho detto giusto?». No, razza di idiota.
«HETTILD?».
Insomma, nessuno che sapesse leggere correttamente il mio cognome. Così ogni santissima volta mi toccava correggerli: «Si pronuncia Hetfield, è americano» rispondevo sempre.
La prima volta che avevo risposto così, il ragazzino davanti a me si era girato dicendomi: «Hetfield? Davvero?». Avevo annuito alla sua domanda e lui tutto eccitato aveva continuato con: «Wow! Come il cantante dei Pantera!». All'epoca avevo appena iniziato ad ascoltare i Green Day e i Beatles, chi fossero i Pantera non ne avevo proprio idea; potevano essere qualunque cosa. Così prima di tornare a casa, quel giorno passai in biblioteca per poter usare un computer visto che Michele non mi faceva nemmeno avvicinare al suo (a Marta però sì, le faceva usare Paint). Cercai "cantante pantera", e il risultato fu quello che all'ora mi pareva solo uno sconosciutissimo, almeno per me, Phil Anselmo. Inutile che contassi su mamma e Michele per quanto riguardava la mia cultura musicale. Mamma ascoltava e ascolta tutt'ora solamente Mozart, o al massimo i Beatles. Michele ascolta cantanti italiani pallosissimi degli anni '70.
Tornai a casa senza aver cavato un ragno dal buco e pensando che il ragazzino davanti a me si fosse sbagliato.
Il giorno dopo prima ancora di entrare a scuola il ragazzino mi aveva fermato.
«Hey, ciao. Ieri mi sono sbagliato... Hetfield è il cantante dei Metallica» mi aveva detto leggermente imbarazzato.
L'avevo guardato un po' perplessa, poi molto timidamente gli avevo risposto con un: «Ho notato...».
Il ragazzino mi sorrise, aveva i denti bianchissimi. O forse era un illusione, dato che aveva la pelle olivastra e sia i capelli, sia gli occhi neri. Il contrario mio: pallida come un cadavere, bionda e con gli occhi blu, come mio papà.
«Comunque piacere, io sono Tommaso Torelli, ma puoi chiamarmi Toro o Tom, se preferisci» mi aveva detto sorridente tendendomi la mano.
Gliel'avevo stretta e avevo risposto: «Piacere Tom, io sono Elena, ma puoi chiamarmi Elly».
Da quel momento Toro ed io siamo diventati migliori amici.
Quel pomeriggio ero tornata in biblioteca per usare nuovamente il computer, avevo lasciato la tessera alla bibliotecaria e mi ero seduta all'unico libero. Ci erano voluti circa due minuti prima che partisse il collegamento a internet (erano sempre rotti quei computer), poi avevo inserito "cantante Metallica" nella barra di ricerca.
Quasi caddi dalla sedia.
Quello era mio papà.
Non potevo crederci, per tutti questi anni non ero riuscita a sapere niente di mio padre, ed ora, in circa 20 secondi avevo scoperto che James Hetfield non solo era mio padre, ma era il cantante dei Metallica. Ero scioccata. Perché me l'aveva tenuto nascosto? Ma soprattutto, mamma lo sapeva?
Ero corsa a casa ed ero entrata come una furia.
«Tu lo sapevi?» avevo urlato in faccia a mia madre.
«Cosa tesoro?» mi aveva domandato scioccata.
«Di papà, dei Metallica. Del suo lavoro!» avevo detto con le lacrime agli occhi.
«Come hai fatto a scoprirlo?» mi aveva domandato scura in volto.
Lei lo sapeva. E non solo lei, anche Michele. Quella sera chiamai papà, e mi spiegò tutto. Non me l'aveva detto perché voleva proteggermi, perché ero ancora troppo piccola, avevo solo 11 anni. Mi aveva detto che mi avrebbe spiegato ogni cosa quando avevo 14 anni, ma oramai sapevo.
Quella sera stessa fu quella in cui cambiò la mia vita; non solo perché ora sapevo che mio papà era una rockstar di fama internazionale, ma perché non mi sarei più comportata allo stesso modo con mia madre e con suo marito.
 

 
2.
 
 
2011
 
«Prego Signor Hetfield, si accomodi» aveva detto cortesemente la preside a Michele che era appena entrato nel suo ufficio.
«Lui non è mio padre» le avevo ringhiato in faccia.
Ero in presidenza da circa mezz'ora, seduta su una di quelle scomodissime sedie di plastica rosse e più incazzata che mai.
«Elena, vedi di calmarti» mi aveva detto Michele, e per tutta risposta l'avevo guardato in cagnesco, poi si era rivolto alla preside: «Sono il signor Rocco, il patrigno di Elena».
Michele Rocco, ogni volta mi viene da ridere. Che nome di merda.
Il mio patrigno si era seduto sulla sedia uguale alla mia di fronte alla scrivania della preside, una donna magra, sulla sessantina, con capelli castani ricci e corti, occhiali rotondi spessi come fondi di bottiglia e indossava sempre tailleur che sembravano anteguerra talmente erano belli.
Michele pure quel giorno aveva un completo scuro e una cravatta color cachi invece che le solite blu tutte uguali. "Wow, si è sbilanciato! Che botta di vita!" era quello che avevo pensato mentre osservavo la sua super cravatta.
«Come mai mi ha fatto chiamare, signora preside?» aveva domandato preoccupato Mister Cravatta-Color-Cachi alla vecchia.
La preside aveva appoggiato alla scrivania una cartellina di colore rosa con dentro dei fogli. Tanti fogli.
«Questo è il tuo fascicolo, signorina Hetfield. E questa è già la terza volta che ci vediamo quest'anno, e siamo solo a dicembre...» aveva incominciato la preside.
«Cos'ha combinato?» aveva chiesto Michele allarmato.
«Oh, cominciamo con la prima volta che ci siamo incontrate quest'anno...».
La donna aveva preso il mio fascicolo e aveva iniziato a leggere quello che c'era scritto: «Sei stata trovata a fumare in bagno durante le lezioni, e nonostante ne abbiamo già parlato, qui c'è scritto che non hai ancora pagato la multa di 200€. Poi hai risposto al professore di scienze, insultandolo e... Sei salita in piedi su un banco?!». La voce della preside era diventata più stridula.
«Eddai, quell'uomo è un idiota!» avevo risposto.
«Elena...» aveva cercato di ammonirmi Michele.
«Signorina, la sua situazione così non migliora...» mi disse con occhi severi attraverso gli spessi occhiali, poi aveva ripreso a leggere: «Hai portato in classe una birra, hai bestemmiato in faccia alla professoressa di religione e hai dato fuoco a un banco».
Ero scoppiata a ridere a quelle parole: «Dar fuoco è un esagerazione! Ci ho solo messo un po' di scolorina liquida, ho avvicinato l'accendino e ha fatto una fiammella! Non è bruciato, quel banco lo uso ancora...» avevo detto contrariata.
«Elena, ma come osi?» mi aveva domandato il mio patrigno. In sua risposta mi ero limitata ad alzare gli occhi al cielo.
Poi la preside aveva ripreso a leggere: «Per non parlare delle assenze ingiustificate e della tua media scolastica: insufficiente in filosofia, scienze, matematica, francese e spagnolo, il resto hai un misero 6. Tutto questo però sembra opera di una che gioca a fare la teppista... Fino a quello che è successo oggi».
Mi ero irrigidita, sapevo che quella volta avrei rischiato molto...
«Che ha combinato?». Un velo di sudore imperlava la fronte di Michele, era teso perfino più di me.
«Ha picchiato uno studente di prima». La preside aveva una voce grave e preoccupata, ma i suoi occhi erano ridotti a due fessure.
«Elena, ma sei impazzita?!». Michele era fuori di sé.
«Ha insultato mio padre!» gli avevo urlato in faccia.
La preside improvvisamente sembrò colpita.
«Tuo padre?» aveva chiesto interessata.
«Sì» avevo borbottato incrociandomi le braccia al petto in segno di disapprovazione.
«Cos'ha detto? Che non sa cantare?» mi aveva domandato Michele spazientito.
«Ha detto che la sua musica fa schifo, che è scontata e banale. Ma lui non sapeva che gli stava passando da parte la figlia. L'ho sistemato per bene».
«Gli hai spaccato il naso!» aveva urlato la preside.
Michele era sempre più sudato e agitato, infatti si era allentato il nodo della sua super cravatta color merdina.
«Signorina Hetfield, questo ti provocherà una sospensione di due settimane con frequenza obbligatoria. Verrai a scuola a seguire le lezioni, ma sarai considerata assente. Non potrai saltare nemmeno un giorno, altrimenti la sospensione si allungherà di una settimana ogni giorno che salti la scuola. Durante l'intervallo sarai obbligata a rimanere nell'aula, non potrai assolutamente uscire in corridoio in mezzo agli altri studenti. E per tutto il resto dell'anno, ti proibisco di avvicinarti nuovamente al ragazzo di prima D. Chiaro?».
La preside era stata più che chiara, ed io avevo deglutito pesantemente.
Merda. Rischio già la bocciatura di mio, con una sospensione mi tocca rifare la quinta. No, cazzo, no.
«La festa di Natale quest'anno non si fa, giusto?» avevo domandato improvvisamente alla preside.
«Non fare la spiritosa...» mi aveva risposto la vecchia.
«Mi risponda: si fa o no?» avevo insistito.
«No. Ora torniamo alla questione...» aveva continuato la preside.
«Mancanza di fondi, giusto?» avevo domandato.
«Non vedo il motivo per cui continui a insistere con la festa di Natale. Stiamo parlando di te!». La preside cominciava a spazientirsi.
«Lo prendo come un sì...» avevo risposto, per poi aggiungere: «Le propongo un accordo».
Michele aveva spalancato gli occhi, forse aveva capito dove volevo arrivare. No, in realtà è troppo scemo per poter capire.
«Io non faccio nessun accordo» mi aveva risposto acidamente la preside.
«Nemmeno per salvare la festa di Natale? Eddai, qui dentro già la odiano tutti... Come sarebbe se non ci fosse nemmeno la festa di Natale?».
«Attenta a come parli...» aveva sibilato la preside.
«Lei raccoglie 2€ a studente, con i 1300€ raccolti potrebbe affittare il palazzetto dell'anno scorso, far montare un palco e comprare il cibo necessario per il buffet...» le avevo detto guardandola fissa negli occhi. Avevo la voce calma, volevo portarla dove volevo io.
«Pensi che non ci abbia già provato?» aveva chiesto, «Poi non ci sarebbero più soldi per chiamare un dj o una band, nemmeno se fanno schifo e chiedono poco. Nessuno è disposto a suonare gratis».
Mi ero staccata dal poggiaschiena della sedia e mi ero sporta in avanti, verso la preside.
«Io le posso procurare una band. E non una band qualunque, ma le assicuro che sono davvero grandiosi. E per questa volta possono suonare gratis» avevo detto con la voce più persuasiva che sapevo fare.
«Elena, non avrai intenzione di -» aveva iniziato Michele, ma l'avevo zittito alzando semplicemente il dito.
«Gratis? Davvero?». La preside era interessata alla proposta.
«Sì. Ci penso io a contattarli e a spiegare loro tutto quanto. Lei deve dirmi il giorno, l'ora e il luogo dove farà la festa, e io ce li porto». Sapevo di essere stata convincente.
«Affare fatto. La sospensione è annullata, puoi tornare in classe» aveva sentenziato la preside e io sapevo di aver vinto.
Mi ero alzata dalla sedia e mi ero diretta verso l'uscita dell'ufficio di presidenza. Michele mi aveva preceduto ed era già in corridoio quando la preside mi fece girare nuovamente verso di lei.
«Per curiosità, il nome della band che porti...?» aveva chiesto.
«Metallica» le avevo risposto con un sorriso stronzo stampato in viso.
La faccia della preside aveva l'espressione più stupita che le avessi mai visto.
«Molto bene... Ah, e se non si dovessero presentare la tua sospensione verrà prolungata ad un mese» aveva aggiunto come clausola non scritta.
«Oh, ma non si preoccupi, non mancheranno». E detto questo ero uscita dall'ufficio della preside e mi ero allontanata lungo il corridoio, mentre i primini si dileguavano da me perché spaventati.
 

 
3.
 
 
Quella sera stessa Michele e mia madre mi avevano fatto una ramanzina per tutte le cazzate che avevo fatto dall’inizio dell’anno scolastico.
Avevo le orecchie così piene delle loro stronzate che iniziava a farmi male la testa, così avevo mandato un sms a Tom: “Ti prego, vienimi a salvare” gli avevo scritto, e venti minuti dopo avevo sentito il suo clacson provenire dalla strada sotto casa.
«Grazie» gli avevo detto entrando in macchina.
«Figurati Elly».
Oramai non ci salutavamo nemmeno più, come se non ci fossero mai interruzioni e fossimo sempre insieme. Cosa un po’ bizzarra, lo so…
Eravamo andati alla nostra birreria di fiducia, dove facevano birra artigianale fantastica e la musica rock era sempre sparata ad un volume altissimo. Ci sedavamo sempre allo stesso tavolo, e oramai i baristi ci conoscevano bene.
«Ciao ragazzi, il solito?» aveva detto Ale avvicinandosi al nostro tavolo. Ale era un uomo sui trentacinque anni, aveva la barba nera, lunga, con quale filo bianco, era pelato e aveva sempre un’aria stanchissima. Però era simpatico.
Dietro al banco invece c’era Marion, la sua ragazza. Lei era abbastanza antipatica, quindi con lei non ci parlavamo praticamente mai. Era magra, quasi ossuta, alta, con capelli neri corti tagliati a spazzola. Ci salutava sempre con un cenno di capo, guai sbilanciarsi a salutare!
«Io il solito, grazie…» aveva risposto Tom ad Ale, «Tu?» mi aveva chiesto il mio amico girandosi verso di me.
Avevo fanno cenno di sì con la testa, per indicare che anche io volevo il solito.
«Anche lei…» aveva poi spiegato Tom ad Ale che si era allontanato per dire a Marion quello che doveva farci.
Appena Ale si era allontanato, Tom mi aveva guardato con occhi severi. Era preoccupato, glielo leggevo in faccia.
«Elly, che succede?» mi aveva domandato, ma era stato poi interrotto da Ale che tornava indietro con le nostre birre.
«Katerpillar per te» aveva detto il barista appoggiando la media davanti a Toro, «E Spaceman per te…» aveva aggiunto mettendo giù la mia.
Poi aveva aggiunto: «Le patatine arrivano… dateci un paio di minuti!».
Tom l’aveva ringraziato per entrambi.
«Allora, Elly?» aveva detto il mio amico riprendendo la conversazione.
«Oggi sono stata in presidenza…» avevo iniziato.
«Lo so…».
«Bene. La preside voleva sospendermi per aver rotto il naso a quel nano rompi cazzo» avevo detto acidamente, per poi bermi un sorso abbondate della mia birra.
«Sospenderti?!». Tom era basito, si era fermato con il bicchiere a metà strada tra il tavolo e la bocca.
«A-ha» avevo annuito, «Ma le ho proposto un accordo».
Toro era dubbioso: «Elly, che cazzo hai fatto?».
«Sai che la festa di Natale non si fa, no?» gli avevo domandato e lui aveva annuito.
Toro faceva il liceo scientifico, io il linguistico, ma l’istituto era lo stesso: il Dante Alighieri di Viale Trieste.
«Mancanza di fondi, giusto?» mi aveva chiesto Toro in attesa di conferma.
«Esatto…».
Mi ero fermata perché era arrivato Ale a portarci le patatine fritte, e porca vacca, erano le più buone della zona. Davvero, da nessuna parte le facevano così; erano fenomenali. Per di più te le servivano in un pentolino d’alluminio e il tutto era molto rock’n’roll. Adoravo quella birreria.
Toro aveva iniziato a mangiare le patatine, mentre io continuavo a spiegarli la storia di quella mattina.
«Bene, dato che non ci sono soldi per pagare alcun gruppo o dj, ho proposto alla preside che le porto una band gratis, e lei mi annulla la sospensione!».
Tom non era sicuro di aver capito: «E che gruppo porti disposto a suonare gratis per un liceo sfigato di provincia? Elly, nessuno ti dirà di sì…».
«Ecco… Ho detto alla preside che mio papà è disponibile».
Tom si era strozzato con una patatina e aveva cominciato a tossire. Stava soffocando dal colpo improvviso.
«Bevi!» gli avevo urlato.
Il mio amico aveva fatto come gli era stato detto, e presto torno a respirare normalmente.
«Ma sei impazzita?!» mi aveva chiesto.
«No, perché?».
Toro si era avvicinato a me e aveva abbassato la voce: «I Metallica a Casali? Ti pare possibile? Eddai Elly, non verranno mai… e tu dovrai farti una sospensione di due settimane!».
Tom era più agitato di me.
«Un mese».
«Cosa?».
«Un mese di sospensione se la band non si presenta» avevo spigato abbassando lo sguardo contro il mio bicchiere.
«Cristo Elly… Ma sei impazzita?». Tom era davvero preoccupato per me, ed era per questo che gli volevo un gran bene… Si preoccupava più lui per me che io per me stessa.
«Quando torno a casa faccio una videochiamata con papà e gli spiegherò tutto… Sperando in bene, altrimenti verrò sospesa e mi tocca rifare la quinta».
«Eh, speriamo in bene allora…» aveva concluso Tom non troppo convinto.
 
Appena Tom mi aveva riportata a casa avevo acceso il pc e Skype, sperando di riuscire a parlare con papà.
Bingo.
Il faccione di mio papà si presentò sullo schermo del mio pc.
«Ciao papà!» gli avevo detto con un enorme sorriso stampato in viso.
«Ciao tesoro!» mi aveva risposto.
«È Helena?» aveva chiesto quella che mi pareva essere la voce di Francesca.
«Sì» aveva risposto papà alla voce femminile.
«Salutamela!».
«Sentito? Ti saluta Francesca…» aveva detto papà tornando a parlare con me.
«Salutami anche lei…» avevo risposto con un sorriso.
«Allora tesoro, come va?».
Era incredibile come internet mettesse in contatto le persone. Io ero in Italia, in un paesino sfigato e stavo conversando e vedendo live una persona che abitava in California, sopra San Francisco, letteralmente dall’altra parte del mondo. Sia benedetto chi ha inventato ‘sta roba.
«Papà, devo chiederti un piacere…» avevo detto tentennante.
«Dimmi pure… Lo sai che faccio sempre quello che vuoi!».
Ed era vero, papà mi dava sempre quello che volevo… Probabilmente era un modo per ripagarmi del vuoto causato dalla sua assenza.
Gli avevo spiegato tutta la storia per filo e per segno, ma non mi era sembrato entusiasta della proposta.
«Papà, ti prego… è importante». Speravo di essere stata convincente, ma mio padre era estremamente dubbioso.
«Penso a tutto io…» avevo aggiunto, «Vi prenoto l’albergo, il pullman, la security… Voi dovete solo portarvi gli strumenti. Se zio Lars non vuole portarsi la batteria, posso prenderne una a noleggio al conservatorio di Piacenza…». Lo stavo supplicando.
«Elly, tesoro… Devo parlarne con gli altri… Ti faccio sapere domani, okay?».
Era dubbioso, molto.
«Papà, ti prego…».
«Elly, ora vai a letto che lì sarà tardi. Ti telefono domani».
«Ma…».
«Buonanotte tesoro».
Aveva chiuso la videochiamata. Mi aveva lasciato lì da sola, era la prima volta che chiudeva così di colpo una chiamata.
Guai in vista.
 
Il giorno dopo, durante l’ora di storia, l’ultima della giornata, il mio telefono aveva iniziato a vibrare furiosamente nella tasca dei jeans. 
«Scusi, prof… Mi sta chiamando mio padre» avevo detto con il telefono in mano.
Il professore mi aveva acconsentito di uscire dalla classe per poter rispondere.
«Pronto papà?» avevo detto nel ricevitore.
«Ciao Elly… Ho parlato con gli altri…».
Trattenni il fiato, non ero pronta al verdetto.
«Tu lo sai che qui è notte, vero?» aveva domandato papà.
Guardai velocemente l’orologio del corridoio: erano le 13.25, in California erano quindi le 4 del mattino.
«Sì…» avevo risposto.
«Bene, sono rimasto fino ad adesso a parlare con gli altri, i roadies e il manager…».
Trattenni nuovamente il fiato. Ma stava facendo apposta a farmi rimanere sulle spine?
«I Metallica suoneranno gratis nel tuo liceo» aveva concluso papà.
Improvvisamente mi sono sentita più leggera, mi ero accasciata a terra con la schiena contro il muro del corridoio e l’unica cosa che ero riuscita a dire era stata: «Grazie, ti voglio bene…».
«Figurati tesoro… Questo e altro per la mia bambina. Ti voglio bene anche io».
Ce l’avevo fatta, non potevo più essere sospesa. Avevo ancora una possibilità per arrivare sana e salva alla maturità. Non mi sembrava vero.
«Tesoro, ora vado a dormire… Ci riaggiorniamo nei prossimi giorni» mi aveva detto mio padre.
«Va bene, grazie ancora papà. Ciao» e poi avevo riattaccato.
Ero rientrata in classe, leggera come una piuma e per il resto dell’ora ero pure rimasta attenta nel seguire la lezione.
 

 
4.
 
 
I preparativi procedevano alla grande. Avevo già prenotato l’intero piano di un hotel di Milano per la band ed il loro entourage. Avevo prenotato un pullman che li portasse avanti e indietro, e pure la security per la festa di Natale.
La preside dal canto suo era stupita della mia organizzazione e mi aveva chiesto di aiutarla. Mancava oramai una settimana alla festa e mi aveva chiamato nel suo ufficio per farmi distribuire il biglietto d’ingresso alla festa, per l’appunto.
Dato che c’era una band importante si poteva entrare solamente se si era studenti del Liceo Alighieri, gli amici provenienti da altre scuole non erano ammessi.
Per ogni studente aveva fatto fare un cartoncino giallo con il nome e cognome, che sarebbe stato da esibire all’ingresso del palazzetto con tanto di carta d’identità, tessera dell’istituto e nome della classe alla quale si apparteneva; all’ingresso ogni studente sarebbe poi stato depennato da una lista divisa per singole classi. Un’organizzazione della Madonna.
Su un carrello di quelli per il trasporto merci c’erano accumulate delle scatole e ognuna sulla parete laterale aveva il nome di una classe scritta in pennarello nero.
«Sono i biglietti di ingresso, devi portare le scatole in tutte le classi e distribuire uno per uno i talloncini… Se ne manca qualcuno sei pregata di scriverlo su questo foglio e poi portarmelo una volta finito il giro» mi aveva spiegato la preside dandomi un blocco per gli appunti dove segnare i biglietti mancanti.
«Tutte le classi?!» avevo domandato con gli occhi sgranati, «Ma ci metterò una vita!».
«Hetfield…».
«Va bene».
 E così ero uscita dalla presidenza con quel carrello e mi ero diretta verso la prima classe.
Sembro un cazzo di fattorino, ma è mai possibile? Questo è sfruttamento.
1 A. Ero entrata, avevo letto ogni singolo nome su ogni cazzo di bigliettino e li avevo distribuiti.
1 B, uguale.
Poi 1 C, eccetera.
«Hey, Hetfield, adesso fai la bidella?». Quella voce fastidiosa, Dio se non la sopportavo.
«Zanetti, sta’ zitto».
Zanetti era un compagno di classe di Tom, ed era un metallaro. Era uno dei pochi della scuola, ed erano quelli che più odiavano me e Tom. Quando eravamo in prima, un giorno ci eravamo avvicinati a loro, io avevo una maglia dei Sex Pistols, Tom una dei Metallica e questi ci avevano preso allegramente per il culo.
«I Metallica è roba da femminucce» aveva detto Toselli, detto Il Toso, a Tom.
Ci avevano liquidato, e da quel momento era stata guerra aperta. E poi erano così scemi da non aver ancora capito che ero la figlia di Hetflied. A dire il vero, a scuola lo sapevano solo Toro e due miei compagni di classe: Sara, la mia amica più stretta (dopo Tom) e Claus, il mio unico compagno di classe maschio (essendo un linguistico eravamo tutte femmine, tranne lui).
«Allora Hetfield? Sei diventata una bidella?» insisteva Zanetti.
«Oh, ma taci. Sto facendo un lavoro per la preside…» avevo risposto bruscamente.
«Ah, adesso sei una leccaculo della preside? Complimenti… Il tuo ragazzo sarà contento!» aveva detto schernendomi.
«Zanetti, Cristo, piantala. E Tom non è il mio ragazzo, lo sai benissimo». Eppure insisteva, ogni volta che ci vedeva insieme. Magari capitava che ci abbracciavamo, bhe, lui ci urlava «Prendetevi una camera!». Tom lo ignorava, io gli urlavo indietro di andare a farsi fottere.
«Ma se è così evidente…» aveva continuato.
Dio, ora lo uccido e lo faccio a pezzi, così non troveranno mai il suo cadavere.
«Smettila, o ti ammazzo».
«Che è, una minaccia? Vuoi spaccare il naso anche a me? Non ho paura di te!».
Stavo preparando il pugno, quando la preside passò di lì.
«Tu, signor…?».
«Zanetti» aveva risposto lui irrigidendosi un attimo.
«Bene, signor Zanetti, vai in classe, prima che ti chiami nel mio ufficio. Non dovresti essere in giro, ma a lezione. Veloce». La preside lo fissava con gli occhi stretti a due fessure, mentre lui si dileguava velocemente verso la sua classe.
«Hetfield, puoi continuare…» aveva detto a me, prima di allontanarsi.
Avevo ripreso il giro delle classi, ero passata da tutte le prime dello scientifico che erano cinque sezioni, del classico che era una sola, e del linguistico che erano due.
5 E, la classe di Tom. Avevo bussato, e la voce della professoressa di chimica era arrivata chiaramente dicendomi di entrare. La conoscevo, perché era stata la mia prof di scienze in biennio, ed era un’amica stretta di mia madre… Anzi, era la sua testimone di nozze per intenderci. Lei era sicuramente più brava a spiegare di quel coglione che avevamo quell’anno.
«Buongiorno, devo consegnare i biglietti di ingresso per la festa di Natale» avevo detto entrando nell’aula con la scatola di cartone con su scritto 5 E.
Avevo iniziato a chiamare i nomi che c’erano sui cartoncini ed uno ad uno gli studenti si alzavano per prendere il loro.
«Torelli» chiamai.
Tom si era alzato dalla sedia al penultimo banco e mi si era avvicinato per prendere il suo biglietto.
Zanetti aveva urlato: «Torelli, tiraglielo fuori e ficcaglielo in gola!».
La classe era scoppiata a ridere, ma in quel momento la professoressa era uscita per andare a prendersi un caffè mentre aspettava che io finissi il lavoro di distribuzione.
«Crepa» gli avevo risposto e Tom era scoppiato a ridere.
«Okay, io ho finito, ciao ragazzi» avevo detto andando verso la porta.
«Hey, Hetfield, aspetta… Manca il mio!» aveva urlato Zanetti.
«Davvero?» avevo chiesto sarcastica.
 Guardai nel cartone, ed eccolo, un cartoncino giallo con scritto “Elia Zanetti – 5 E”, come se non l’avessi visto prima…
«Mi dispiace, ma qui non c’è…» gli avevo risposto.
«E quindi? Come faccio?» aveva domandato diventando pallido.
«Semplice, rimani fuori» avevo concluso per poi andarmene da quella classe e dirigermi verso la III Classico.
Il mio telefono aveva vibrato due volte, segno che mi era arrivato un sms.
Toro: “Hai intenzione di darglielo o cosa?”. Aveva capito che mi ero tenuta il biglietto di Zanetti.
Velocemente avevo risposto: “Nah, me lo tengo. O magari lo brucio”.
Una volta finita la III Classico ero tornata nella mia classe, portando con me l’ultimo cartone. 5 L.
Li avevo dati alle mie compagne e non ne mancava nemmeno uno. Perfetto, non dovevo tornare in presidenza.
Mi ero seduta al mio posto, in banco con Sara e Marzia e avevo ripreso a fare lezione tranquillamente. Andavo d’accordo con le mie compagne di classe, non erano snob, non avevano la cosiddetta puzza sotto al naso, erano ragazze normali. Solo con due non ci parlavo, ma non c’erano mai state liti o nulla del genere. Quelle se ne stavano per i fatti loro e basta.
All’uscita di scuola mi aspettava Tom, oggi ero passata io a prenderlo, quindi dovevo anche riportarlo a casa.
L’avevo salutato, e avevo tirato fuori le chiavi dell’auto dalla tasca dello zaino mente ci dirigevamo verso la mia vecchia Dodge Challenger del 1970, regalo di papà James per i miei diciotto anni.
Tom la chiamava Queen, perché secondo lui era la regina di tutte le macchine della zona. Bhe, lui aveva una vecchia Punto, di sicuro la mia Challenger era meglio.
«Hey Hetfield, bella caffettiera…».
Io ora ‘sto cazzo di Zanetti giuro che lo uccido.
«Che vuoi?» gli avevo detto mentre stavo sbattendo lo zaino sul sedile posteriore.
«Volevo sapere se fa il caffè…».
«Sei simpatico come un sacco di merda, lo sai?» gli avevo risposto velenosamente.
«Allora?», insisteva.
«Allora cosa?» avevo domandato non capendo.
«Fa il caffè o no?» aveva continuato scanzonato.
«Guarda che la mia auto va più veloce della tua, eccome».
Non ero sicura però… cioè lui aveva quest’Audi nuova e non sapevo se la mia andava davvero più veloce della sua.
«Certo, credici…».
«Guarda che è vero… La mia straccia la tua» avevo insistito con quel tono duro.
«Bene, allora vieni tra tre giorni alla Hot Road, e vedremo» mi aveva detto.
«Alla che…?».
Zanetti si era portato gli occhi castani al cielo, «Hetfield, la Hot Road, la corsa di auto sulla statale nuova».
Avevo sentito dire che sulla statale nuova non ancora aperta al traffico ci facessero delle gare di velocità, ma pensavo fossero solo voci.
«Okay, ci sto» avevo replicato.
«Elly…» la voce di Tom arrivò chiaramente dalle mie spalle.
«Hai paura che la tua ragazza perda?» l’aveva beffeggiato Zanetti.
«Zane, non è la mia ragazza, smettila» gli aveva risposto calmo Toro.
Zanetti ci aveva guardato con occhi di sfida, poi mi aveva guardato e puntato un dito contro: «Venerdì, a mezzanotte».
«Ci sarò» gli avevo risposto con tono secco.
 Una volta che Zanetti se n’era andato ero salita al posto di guida e Tom a quello del passeggero. Era imbestialito, e preoccupato.
«Elly, ma sei impazzita?! È pericoloso, lo sai!». Tom era davvero preoccupato per me.
Io lo ero per la mia auto, Queen ce l’avrebbe fatta?
«Ha bisogno di un check-up» gli avevo risposto, senza nemmeno prestare attenzione a quello che lui mi stava dicendo.
Invece di andare a casa io e Tom eravamo passati dall’officina di un nostro amico.
Avevo parcheggiato nel cortile, e lui ci era venuto in contro sorridendoci.
«Ciao Gian» l’avevo salutato.
«Ciao ragazzi» ci aveva risposto lui.
Gianluca Bruschini aka la mia prima scopata. E anche la seconda, e la terza, e forse la sesta e di sicuro la settima.
Non avevo mai avuto una relazione, ma solo grandi notti (o pomeriggi) di sesso, e lui rimaneva il mio preferito, era il migliore.
Aveva la nostra età e l’avevamo conosciuto agli scout, dove sia io che Tom non avevamo resistito più di due anni. Poi c’eravamo mantenuti in contatto, e ci vedevamo spesso tutti in compagnia con l’annata 93 degli scout, c’erano parecchie persone. Poi una sera ci siamo ritrovati a fare sesso in camera di una nostra amica che stava facendo una festa a casa sua, e da quel momento l’abbiamo fatto parecchie volte. Non stavamo insieme, e passavano mesi senza la quale magari nemmeno ci salutassimo. Era una cosa leggermente strana, in pratica scopavamo quando ci incontravamo e quando ne avevamo voglia. Poi lui aveva una ragazza fissa, ma tra me e lei era odio profondo, quindi non ci salutavamo mai. Sì, anche lei lo tradiva con altri ragazzi. Ma a quanto pare a loro andava bene così.
Una volta era venuto nella mia scuola a salutarmi, e avevamo finito per farlo nella sua macchina, in un parcheggio a cento metri dal liceo.
Non che lui non andasse a scuola e avesse mattinate libere. Faceva l’itis indirizzo meccanico a Crema, e non so come, aveva già passato il test per ingegneria meccanica al Politecnico di Milano. Mistero, dato che non era questa gran intelligenza.
Mi si era avvicinato e mi aveva abbracciato, ci salutavamo sempre così, quando e se ci salutavamo.
Poi aveva salutato Tom con una pacca sulla spalla. Toro era geloso di lui, ma nel modo in cui un fratello è geloso di sua sorella che va con un ragazzo. O almeno credevo fosse così. Ma noi non ne avevamo mai parlato, quindi significava che la cosa non era importante.
«Ho bisogno di te, Gian…» gli avevo detto.
«Dimmi piccola, sono qui per te…». Detto così suonava un po’ male, ma Gian faceva apposta ad essere sempre malizioso.
«Mi sono iscritta alla Hot Road, devi fare un check-up completo a Queen» gli avevo spiegato indicandogli l’auto.
A quel punto Tom si era spazientito: «Ti prego Gian, spiegale anche tu che è una pessima idea… Non lo vuole capire questa zuccona».
Gian aveva annuito e poi aveva detto: «Toro ha ragione, Elly, però se è quello che vuoi…».
Ci aveva messo un’ora a fare il check-up completo alla macchina, e aveva chiamato un suo zio elettrauto per fargli dare una controllata anche alla parte elettronica, la mia Queen ne era uscita in perfette condizioni.
«Spaccali tutti, Elly…» mi aveva detto Gian prima che partissimo.
«Puoi contarci!» gli avevo risposto, poi avevo messo in moto ed eravamo usciti dal cortile della Officina Bruschini.
 

 
5.
 
 
Era mezzanotte meno dieci, ed io ero tesa come una corda di violino.
Tom e Sara erano con me, ma entrambi invece di incoraggiarmi continuavano a ripetermi che era stata una pessima idea. Ed avevano ragione.
Alla Hot Road partecipavano ed assistevano tutti gli amici di Zanetti, e già questo era un punto a mio sfavore. Come seconda cosa c’era il fattore auto: Queen era veloce, ma non credo lo fosse più di quella Audi nuova scintillante. Altro problema che non avevo considerato: la statale era costeggiata da due fossi, uno per lato, ed erano pieni d’acqua; nonostante il guardrail fosse già stato montato, questa cosa dei fossi mi indispettiva ugualmente. Ultimo punto, ma non meno importante degli altri: tutto questo era illegale. Se i carabinieri ci avessero trovato, ci saremmo procurati tutti una bella multa, e magari anche la perdita di qualche punto sulla patente. O peggio, il ritiro della patente stessa. Ma la cosa peggiore poteva solo essere la confisca dell’auto; in quel caso credo che sarei svenuta.
Queen era già parcheggiata parallela all’Audi di Zanetti, entrambe sulla linea di partenza pronte a scattare come pantere.
Faceva un freddo boia, ma per fortuna quella sera non era ancora ghiacciato l’asfalto: quello era decisamente un punto a favore per noi.
Un ragazzo che non conoscevo aveva fatto cenno a me e Zanetti di raggiungerlo.
«Zane, Hetfield…» aveva incominciato, «Tra poco inizierà la gara… Le regole sono semplici: dovete arrivare fino al segno per terra in rosso, fare inversione di marcia e tornare indietro. Il primo che arriva a tagliare il traguardo vince».
Tutto chiaro. Easy peasy.
Ci avevano fatto stringere la mano, giusto per fare un po’ di scena, poi eravamo saliti nelle rispettive auto.
Avevo abbassato il finestrino, e Tom mi si era avvicinato.
«Un ultimo consiglio?» gli avevo chiesto leggermente tesa.
«Non morire».
Tom era più teso e nervoso di me. Gli avevo mandato un’occhiataccia e lui mi aveva detto come ultima cosa: «Straccialo», poi si era allontanato mettendosi a distanza di sicurezza assieme agli altri spettatori.
«Ti farò mangiare la polvere!» mi aveva urlato Zanetti dalla sua auto.
«Ti piacerebbe…» gli avevo risposto con occhi di sfida.
Tempo di tirare su il finestrino, e il ragazzo di prima si era messo tra le due auto.
Ci aveva fatto un gesto per indicarci che di lì a pochissimo saremmo partiti. Aveva alzato il braccio.
3, 2, 1. Partiti.
Avevo schiacciato l’acceleratore a tavoletta, cambiando le marce quando il motore mi dava segno di farlo. La mia auto era in testa, di poco, ma lo era.
Erano trecento metri ad andare e trecento metri a tornare.
La strada era a due corsie, una ciascuno. Io occupavo la destra, lui la sinistra. Era troppo stretta. Se fossimo arrivati insieme al segno rosso ed avremmo dovuto fare inversione contemporaneamente ci saremmo schiantati. A questo non ci avevo pensato. Uno dei due avrebbe dovuto far passare l’altro. La cosa non mi piaceva.
Ero arrivata al segno rosso con circa dieci secondi d’anticipo su Zanetti, il che non era poco.
Avrei dovuto rallentare, quasi fermarmi e girare l’auto per poi ripartire.
Non c’era tempo però per tutto questo.
Avevo visto dallo specchietto Zanetti che rallentava, io non volevo fermarmi.
Avevo diminuito di poco la velocità, e appena superata la linea rossa, avevo invaso la corsia di sinistra e poi avevo tirato il freno a mano. Era pericoloso, anzi rischioso.
La Dodge si era bloccata di colpo, col rischio che le ruote si fossero bloccate e avrei dovuto far riavviare il motore per sbloccarle. Per non parlare del fatto che avrei potuto far spegnere il motore stesso.
Avevo sentito gli pneumatici stridere contro l’asfalto nuovo mentre l’auto faceva una rotazione su se stessa di più di 190 gradi. Avevo quasi picchiato la testa contro il finestrino. Appena mi ero sistemata un attimo, avevo tolto il freno a mano, scalato la marcia ed ero ripartita immediatamente.
Ero ripartita a razzo, e dopo trecento metri ero arrivata.
Avevo vinto.
Non ci credevo. Avevo inchiodato e avevo aspettato che Zanetti arrivasse prima di scendere dall’auto.
«Fanculo Hetfield» fu la prima e unica cosa che mi disse il ragazzo.
Tom e Sara invece mi erano venuti e mi avevano letteralmente stritolato in un abbraccio di gruppo, quasi ero soffocata.
 Avevamo lasciato la Hot Road alla svelta, ed eravamo andati in birreria. Solito posto, solito tavolo, solite birre, solita gente. Ma mi andava bene così, loro erano le uniche persone con cui andavo d’accordo. 







Angolo di Alexis:
Buongiorno ciurma ed eccomi qui con una nuova storia! 
Lasciatemi spiegare un paio di cosette su questa nuova ff... Sarà divisa in più parti, e ogni parte a sua volta è suddivisa in più capitoli, contrassegnati dai numerini che leggete. Le parti in corsivo sono i pensieri di Elena durante il momento preciso della storia, non quando la racconta. 
Per quanto riguarda la coppia, ho messo sia "nessuna" che "het", ma per il semplice motivo che non ci sarà nessuna coppia di fatto, ma un sacco di relazioni con vari ragazzi/uomini da parte della nostra protagonista.
L'ho inserita in Metallica perché Elena è la figlia di James, ma di fatto la storia è incentrata su di lei e non sui Metallica (ci tenevo a sottolineare questa cosa).
Ci sarà una partecipazione di un'altra band meheheheh (anche se probabilmente già avete letto di chi si tratta!)
Ora non mi viene in mente più niente da dire, ma come minimo appena pubblico mi ricorderò di tipo centomila cose che dovevo scrivere e mi sono dimenticata e.e
quindi non mi rimane che salutarvi e chiedervi di lasciarmi una recensione, se vi va!
la pubblicazione non sarà velocissima, però nemmeno lentissima, giuro!
a presto, e un bacione a tutti i lettori!
Alexis <3
  
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