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Autore: Guardian1    09/10/2008    1 recensioni
[Completa, riveduta e corretta.]
Sono passati tredici anni dagli eventi di Final Fantasy IX, ed ecco che la vita di Eiko Carol viene stravolta di nuovo da un nemico creduto morto da tempo. Che cosa può fare una ragazza sola per cambiare le cose?
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Eiko Carol, Un po' tutti
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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capitolo uno
quelli con le facce nere



"somewhere it is Spring and sometimes
people are in real:imagine
somewhere real flowers,but
I can’t imagine real flowers for if I

could,they would somehow
not Be real"
(so he smiles
smiling)


"in qualche posto è Primavera e qualche volta
le persone sono vere:immagina
un posto con fiori veri,ma
io non riesco a immaginare fiori veri perché se

ci riuscissi, in un certo senso
non Sarebbero veri"
(e sorride
sorridendo)

- ee cummings



Fu un po’ come il secondo in cui ci si sveglia di soprassalto da un incubo e non si riesce a ricordare con precisione cosa riguardasse, e poi il secondo dopo si ricorda tutto; solo che stavolta, al terzo secondo, mi resi conto che non avrei potuto scacciare i miei demoni.

Ero stata maledettamente rapita.

Dovunque mi trovassi era buio e stantio, e sotto il mio corpo c’erano delle assi di legno che andava a male; sopra di me c’era una coperta di soffice cotone ma umida e vecchia come tutto quello che mi circondava di quel posto orribile in cui ero finita. Ero evidentemente svenuta per il trauma di essere stata trascinata nel Portale di qualcun altro, il cui marchio aveva schiacciato la mio. Okay, non era stata mia intenzione eppure in un certo senso mi ero rapita da sola, però – cavolo cavolo cavolo!

I miei occhi si abituarono all’area attorno a me, e per qualche strana ragione mi sembrò familiare. Ero in una stanza dal soffitto molto alto, con le travi scure che parevano incombere su di me, l’aria densa per gli anni che aveva. Densa, ma secca; avevo già sentito il sapore di quella secchezza. Era fresca quanto un fastidioso brivido di freddo quando non c’è il sole – poca umidità nell’aria, pensò asetticamente la mia mente – forse ero in qualche posto in mezzo alla neve (ma in quel caso la temperatura avrebbe dovuto essere più bassa), o in qualche luogo sopra il livello del mare-

Bastardo di un clima, dove diamine ero?

Saltai in piedi, presa dai capogiri e con il cuore che mi batteva forte, e la mia mano afferrò un oggetto vicino a dov’ero stata distesa – un tavolo. Le mie dita perlustrarono inutilmente il legno, avvinghiandolo; il pavimento era cosparso di pezzi di pergamena, pagine strappate da libri scritti in lingue che non riuscivo a riconoscere del tutto ma che mi diedero l’impressione di una confusione piuttosto recente, a differenza del disordine annoso e antico che un po’ mi aspettavo. Però c’era una puzza, quasi come se qualcuno fosse morto lì dentro, odore di sangue e-

Di fronte a me si accese una candela, una fiammata improvvisa e vagamente sibilante nella stanza lunga ed enorme; era impugnata da una mano coperta di cuoio scuro, e andò a illuminare di un fioco arancione un paio di logore ali d’ebano e un cappello. Ancora più luminosi erano gli occhi d’oro che ardevano da dietro quella superficie buia che contraddistingue i maghi neri, abbastanza lucenti da farmi ghiacciare ulteriormente il sangue nelle vene.

Penso di essermi sentita come doveva essersi sentita mamma, come mi aveva raccontato – la prigioniera di Kuja, che affrontava faccia a faccia il suo rapitore. « Per un istante mi domandai di cosa potessi mai aver paura » aveva ricordato a bassa voce. « Aveva un sorriso talmente grazioso. »

Un po’ di cera gli colò sulle dita. « Dimmi » intonò, « perché non dovrei ucciderti. »

Io rizzai la schiena. « Sono la principessa Eiko del Casato dei Fabool » scoppiettai contro di lui, imperiosamente. « Uccidermi sarebbe un grave errore da parte sua, signore. »

« Sono Lady Hilda Fabool, ministro e moglie del Reggente di Lindblum – e le consiglio di non avvicinarsi. »

« Perché prenderei a calci il tuo scarno deretano da mago nero, lurido assassino figlio di puttana. »

(Quando il tempo raccoglierà tutti i discorsi eroici e stimolanti delle donne di tutte le ere, le mie parole non saranno prese in considerazione.)

Per un momento lui si limitò a fissarmi, sollevando la candela. Ora riuscivo a vedere i libri che riempivano gli scaffali, alcuni semi-vuoti, altri ancora completamente ricoperti di grossi tomi; mi trovavo chiaramente in una biblioteca, in una biblioteca con le finestre totalmente celate da iuta pesante e spessa. Era tutto buio come la notte.

« Dubito che troverebbero il corpo. » La sua voce non era nemmeno minacciosa; stava soltanto asserendo un fatto, con praticità. « Saresti soltanto una delle tante vittime di ciò che è successo alla tua città. »

Oh. Oh. Mi si riempirono gli occhi di lacrime: la mia città, la mia terra, la mia gente. Quante persone erano morte in quelle esplosioni? « Perché? » ringhiai. « Perché? Stai tentando di scatenare una guerra? Perché dovevi assassinare tutti quei civili? Perché non te la sei presa con la nostra milizia, invece che- che- che con i rimorchiatori? » Sentii la mia voce raggiungere una nota di isteria. Tremavo. « Perché? »

« Negli impianti militari ci sono meno persone. »

« Allora volevi che morissero in centinaia! »

« Io esisto solo per uccidere » rispose, con semplicità.

Quello mi fece infuriare. La mia voce era scossa dalla rabbia, e in parte dalle lacrime. « Garnet. La regina Garnet di Alexandria ti troverà e ti ucciderà per questo, è solo una questione di tempo. Non importa se io muoio, lei e Gidan ti strapperanno le piume dalle ali, una per una, e ti tortureranno fino a- »

« Gidan non farà nulla » sbottò, nella voce il primo sintomo di una qualche emozione. Aguzzò le mezzelune d’oro degli occhi. « Le persone muoiono. Il ciclo continua. Loro dormono, si fa tanto rumore, ma nel giro di dieci anni si ridurranno a fantasmi di ricordi. Verranno dimenticati dalla tua città e dal tuo Gidan. »

« Che ti importa di Gidan? »

« Traditore-bastardo-jenoma » Se avesse avuto delle labbra, si sarebbero curvate. « Spero che i suoi bambini abbiano tutti la coda e non siano in grado di sopravvivere senza le vasche di Branbal. Spero che muoiano tutti. Spero che semini sale nel grembo di sua moglie ogni volta che scopano. »

Anche gli altri Valzer erano stati così? Non c’era da stupirsi se Gidan li aveva uccisi tutti e tre in rapida successione. Un sorriso quasi lascivo di compiaciuta superiorità s’insinuò sul mio volto con la stessa facilità con cui mi avvamparono le guance mentre lo guardavo negli occhi, cercando a tastoni dietro di me un qualche oggetto. Forse c’era un’arma con cui avrei potuto uccidere quel ratto con le ali. Qualcosa. Qualsiasi cosa. « Hanno due bambini » iniziai dolcemente. « La regina partorirà il terzo quest’estate. La principessa Cornelia – ha otto anni, è la maggiore ed è bellissima, e tu non la toccherai mai, stronzo. »

Lui saltò in volo e coprì la distanza che ci separava, la candela alzata e pronto ad attaccare. La mia mano aveva trovato un libro pesante e glielo buttai in faccia nello stesso istante in cui la sua mano si abbassò; riuscii a diminuire la forza del pugno ma mi giunse comunque un doloroso manrovescio, le sporgenze di metallo che aveva sulle nocche del guanto mi tagliarono la guancia e mi spinsero contro il tavolo. Ci andai a sbattere forte, sussultando per il dolore, mentre anche lui incespicava all’indietro e faceva cadere la candela, che si ridusse a un soffice ammasso di cera sulle assi di legno. La luce già flebile si affievolì sempre di più durante un altro lungo silenzio; l’unico suono udibile era il mio respiro. Avrebbe potuto andare peggio. Diamine, ero un’ingegnere – ero sopravvissuta a risse sbronze da bar di gran lunga peggiori, benché quelle fossero cessate non appena compiuti i diciott’anni in seguito alla minaccia di mia madre di tagliarmi i viveri. Portai una mano alla guancia e chiusi di nuovo gli occhi, la ferita mi bruciava in maniera incredibile. Non proveniva alcun rumore neppure da lui.

« Allora » ripresi, dopo molto. « Dimmi. Perché non mi uccidi? »

Cadde un silenzio che durò ancora più a lungo, fino a che non sentii una cosa che ricordava molto un profondo, tremante respiro. « Perché il tuo cuore batte » mormorò. « Perché il tuo cuore batte e io sono – così solo qui – tanto solosolosolosolo nessunomaimai- » Un altro sospiro tremante e un singhiozzo, ed ecco che stava piangendo.

Il mio viso si contorse di disgusto. Un assassino. Un assassino frignone. « Uccidimi, ora » comandai, la voce carica di disprezzo. « Preferisco morire piuttosto che pensare che un magico passerotto lamentoso abbia ucciso tutte quelle persone. Preferisco morire piuttosto che starmene seduta qui ad ascoltare te. Mi toglierò la vita da sola se non la finisci. »

Il pianto s’interruppe quasi tanto repentinamente quanto era cominciato. Mi resi conto che, con tutta probabilità, mi ritrovavo con un mentecatto che aveva tanto bisogno di un manicomio. Non ne sarei rimasta sorpresa. Tutti i maghi neri – e questo doveva esserne un discendente – erano dei giocattoli ad orologeria abbastanza fuori di testa, esseri senzienti solo grazie alla loro bellezza.

Questo esemplare rifuggiva totalmente il concetto di bellezza, e probabilmente stava danzando nel suo piccolo mondo con metà delle luci accese e l’altra che lampeggiava di buffi colori. « Forse lo farò » disse. « Forse sto giocando con te, come fanno i gatti, e dopo ti mangerò. »

« Bene. È un sollievo. » Incrociai le braccia, il flusso del sangue aveva rallentato fino a fermarsi. Forse non avevo un bastone, ma la magia curativa scorre tra i polpastrelli di un mago bianco come acqua. « Sono scheletrica. Prima potresti dover bollire la carne. »

Un altro lungo silenzio. La testa stava cominciando a farmi male.

« Voglio andare a casa » ripetei. « Guarda, ti propongo un patto onesto. Tu mi bendi, mi riporti a casa, e poi sarò io a dover darti la caccia per ucciderti. Mi ci vorrebbero, oh, solo altri cinque minuti. »

« Siamo un po’ petulanti, vero, Principessa? » Un pizzico di… qualcosa si mosse nel suo tono. « Se sei qui è solo colpa tua, ragazzina, perché sei tonta e stupida come tutti gli altri esseri umani di questa terra e guardi le cose come se fossero sfere di vetro – non riesci a vederci attraverso a dovere, cogli soltanto il tuo riflesso distorto. »

No, una predica no. Non avevo bisogno dei suoi brontolii da pazzo. Avevo osato troppo nel crederlo lucido anche solo per un istante. « Senti. Va’ a declamare i tuoi pretesti a quella vecchia stufa nell’angolo, non me ne potrebbe fregare di meno delle tue ragioni. Chi sei? »

Un fruscio. Recuperò la candela, ma non l’accese; la sfumatura che aveva colorato la sua voce poco prima si era accentuata, ed ora il suo tono traboccava di amara ironia. « Tango. »

« Cosa? »

« Tango. Tango Nero. » Un brusio – si alzò, facendo lo stesso rumore di uno stormo d’uccelli – e accese nuovamente la candela con le sole dita, raddrizzando lo stoppino. Emanava ancora magia come una stella emana calore, e solo allora capii che era più pericoloso di quanto non avessi immaginato – era una creatura lucidamente folle, non un giocattolo.

Ero allibita. « Dimmi che mi stai prendendo in giro. »

« No. Io mi chiamo- »

« Cioè, è il nome più stupido che abbia mai sentito. D’accordo, capisco i tre tempi e il Valzer, ma che c’entra Tango? Come si chiama tuo fratello, Hokey-Pokey Nero? Swing Nero? Samba Nero? Chocobo Dance Nero? »

Ci fu un altro silenzio senza fiato, e poi Tango rise. Non era un suono felice, ma rise.

« Mi piaci » disse alla fine. « Non ti ucciderò stanotte. »

« Grazie mille. »

« Rimarrai qui » bisbigliò. « Alle volte porto delle cose vive qui perché mi piace il battito del loro cuore, ma dimentico apposta di nutrirle e muoiono. Tutto muore. Alle volte è anche più premuroso non nutrirli, così non soffriranno per la vita. Non credi anche tu? »

« Io credo che tu abbia bisogno di una giacca che ti avvolga dal davanti al dietro e di cinghie di cuoio che ti leghino a un letto » risposi io, Eiko “Gentile E Premurosa E Non Irritabile Con Gli Squilibrati” Carol.

« Fai anche le battute. » Si allontanò, lasciando la candela sul bracciolo di una poltrona alle sue spalle. « Forse sarà per domani notte. »

No. Non volevo domani notte. Volevo mia madre e questa creatura mi stava stritolando il cuore. « Io ti odio » scoppiai, stanca, turbata e disperata.

« No » disse Tango. « Io ti odio più di quanto tu potresti mai immaginare, Eiko Carol. »

Raggiunse a grandi falcate l’altra parte della biblioteca, e spalancò una porta. Immediatamente un soffio di aria calda e un lampo di luce intensa inondarono la stanza, lasciandomi sul volto un’aria inebetita; non era una porta, era un’enorme finestra improvvisata, e riuscii a scorgere solo della sabbia gialla. Il vento caldo sospinse nella stanza persino qualche granello; ci trovavamo molto in alto, da quel che potevo intravedere. Senza neanche degnarmi di uno sguardo, lui balzò fuori dall’apertura.

« Buonanotte » mi salutò, ad ali spiegate, richiudendosi l’anta alle spalle e sprofondandomi nel buio prima di sparire.

Io mi sedetti, e mi chiesi dove fossero i piccoli cadaveri, e tremai per l’eco della sua voce che pronunciava il mio nome.



Quand’ero piccola e i miei genitori mi insegnarono di nuovo a leggere – mio nonno aveva fatto tutto il possibile, ma dopo la sua morte mi ero impigrita e arrugginita incredibilmente con le parole lunghe – mia madre mi regalò prontamente un’enorme pila di libri che pensava sarebbero piaciuti a una bambina e me li fece sfogliare. Questi libri trattavano sempre gli stessi tremendi temi – giovani, romantiche damigelle in difficoltà che incappavano in giovanotti pieni di buona volontà in groppa a chocobo bianchi e non erano in grado di salvarsi da sole nemmeno se presentavi loro la fata madrina e lasciavi in giro un manuale di istruzioni.

All’inizio pensavo fosse quello il motivo per cui io non sarei mai stata una brava principessa. Non ero brava a sbattere le ciglia e a svenire. Certo, ero un asso nell’innamorarmi in maniera melodrammatica, ma non riuscivo proprio a immaginarmi rapita e imprigionata in una torre alta, tenuta in ostaggio per un probabile riscatto.

Poi mi dissi, “Ehi, Daga non ha dovuto mai fare tutte 'ste minchiate,” riposi le novelle romantiche e tornai a leggere “La fisica del volo” di Sextans Zazaria. In effetti, penso che questo illustri gran parte della mia vita preadolescenziale con i miei nuovi genitori.

Così, costretta in una torre plausibilmente alta centinaia di metri, con una candela tremolante a guidarmi e nella testa la promessa di un bastardo alato appassionato di genocidi e senza dubbio Un Po’ Tocco che aveva un pessimo gusto per i nomi, non me ne sarei di certo stata seduta a piagnucolare come una principessina tanto, tanto carina. Già era imbarazzante anche solo essere rapita, se si aggiungeva che era pure colpa mia… Ma che cazzo.

« Bene, Eiko, ragazza mia » mi incoraggiai allegramente, la mia voce un miserabile nulla nell’opprimente, buia biblioteca circolare. « Vediamo di farti scendere da qui, e andrà tutto da favola. » Se Tango non mi becca. Se un antoleon o qualche altro mostro nascosto nella sabbia non mi mangia appena sarò arrivata in fondo.

E una volta laggiù, come diavolo sopravvivo in un deserto? E se ci trovassimo a milioni di miglia nel nulla? Probabilmente siamo a un milione di miglia nel nulla! Siamo in un deserto!


« L’evocazione » mugugnai tra me e me. « Giusto. Sai evocare. Ora ti metti d’impegno e ripeti la storia del bastoncino-cerchio-salmo, e immagino che persino Madain sarà incazzata e si sarà sentita trascurata in tutto questo tempo, ma loro sanno che li amo comunque anche se non ci Chiamiamo da un pezzo, giusto? »

C’era un silenzio terrificante in quella biblioteca. C’era anche un’agghiacciante oscurità, quasi famelica. Era una stanza circolare, con delle mensole che rivestivano praticamente ogni centimetro di muro e qualche tavolo sparso, quasi sempre coperto da libri aperti. E c’erano tanti libri fatti a pezzi, fogli di carta strappati che dovevano essere stati consultati invano, e scorsi ovunque dozzine di candele sciolte. Afferrai rapidamente un paio delle più grandi e le accesi con la candela che aveva portato Tango, che (miracolosamente) non si era spenta quando era uscito. Non rischiararono granché, ma mi avrebbero permesso di vedere dove mettevo i piedi.

Allungai il collo, vagando con una mano nel vestito in cerca dei miei occhiali avvolti in una stoffa ricamata, prima di accorgermi – con mio sommo orrore – che non li avevo. Facendo la danza che ogni persona che porti gli occhiali fa immediatamente in questi casi – tastare la faccia, tastare la testa, tastare invano il collo – notai con non poca angoscia che erano spariti. Dopo tutto quel casino per vedere dove mettevo i piedi. Oh, beh; tanto mi servivano solo per leggere, e per quanto utili avrebbero potuto essermi per avere una visione definitissima della stanza avrei dovuto arrangiarmi. Inoltre, forse non morivo esattamente dalla voglia di vedere cosa giacesse negli angoli.

Tango Nero. Solo l’ennesimo mostro della schiera dei migliaia che avevo incontrato nella mia breve vita. Il modo in cui parlava mi dava sui nervi, però; c’era qualcosa di saldamente senziente nei suoi pigolii sulla solitudine, nel modo in cui parlava, nella maniera in cui mi aveva insultata. Sentii una vampata di calore salirmi di nuovo alle guance quando ricordai la sua imprecazione incredibilmente cruda e veemente su Gidan e Garnet; fu abbastanza per mutare ogni mia perplessità in semplice odio.

E se stava pensando di attaccare Alexandria, ora? Il mio cuore saltò un battito al solo pensiero. Esplosioni nel castello, Daga impossibilitata ad agire in tempo, o forse sarebbe riuscita ad evocare tempestivamente Alexander per affogare quell’oscena cornacchia appiccicosa nella magia sacra-

Tremai infelicemente, fui costretta a sedermi su uno dei tavoli e da lì feci saettare lo sguardo per la stanza alla ricerca speranzosa di una qualche arma, di un pezzo di metallo o di una fune. Niente; il resto di niente. Il mio stomaco brontolò – avevo sete e non avevo fatto colazione e veramente non vedevo l’ora di un bel pranzo.

Passaggio segreto. Forse c’era un passaggio segreto.

Balzata in piedi, con la gonna pesante che sibilava tra le mie caviglie – dannato vestito! – mi misi a condurre una minuziosa ispezione dell’area. Tango mi aveva detto almeno una cosa vera: al posto delle proficue uscite d’emergenza, continuavo a inciampare su minuscoli cadaveri, scheletri imputriditi e soffici fagottini di carne in decomposizione. Repressi l’impulso di vomitare, la fame ormai dimenticata, e proseguii nella mia inutile ricerca. Il pavimento era di legno, cosa strana per un’area deserta, e c’era qualche occasionale frammento di assi che dovevano essere state sgretolate dal tempo. La stanza puzzava di morte vecchia.

Cercai in lungo e in largo finché non trovai finalmente quello che mi serviva, una maniglia, e dopo aver sfregato attentamente, il vecchio contorno di una porta quadrata segreta. Con tutta la forza che avevo in corpo, spinsi e tirai immediatamente l’impugnatura di ferro, ma quella non si sarebbe smossa per nulla al mondo. Ovviamente, con mio feroce disappunto, era stata serrata dalla ruggine. Iniziai un’altra vana ricerca per trovare qualcosa in grado di forzarla, ma non c’era nulla; il resto di nulla. Solo libri, candele e oscurità.

E freddo, nelle ombre. Mi rimisi la coperta sulle spalle e mi sedetti su un tavolo, non volendo star vicina ai vecchi “amichetti” di Tango. Neanche avevo l’incontrollabile bramosia di diventarne uno. Dopo qualche minuto di agitata indecisione, andai alla porta da cui era uscito Tango, e l’aprii con uno spintone.

Un’immediata raffica di vento mi scosse, e temetti per la mia carissima vita; c’era una lunga, lunga, lunga parete scivolosa e nessuna scala.

La richiusi. Maledizione, dannazione, per tutti i dannati Inferi maledetti. Potevo solo aspettare; aspettare qualcuno che forse non sarebbe mai arrivato. Non potevo neanche tentare di uccidere Tango; lui era la mia unica via di scampo da quella torre. Garnet, mio padre e Gidan sarebbero venuti a prendermi. Prima o poi. Dovevo soltanto sopravvivere fino al momento in cui non fossi riuscita a scappare, o fino a che loro non fossero riusciti a trovarmi.

Tremai. Avevo sempre avuto paura del buio. Non era una di quelle inspiegabili paure dell’infanzia che provengono dalle profondità del subconscio; era una paura venuta dopo, una paura allevata attorno alle ceneri di un focolare quando ero raggomitolata sotto una coperta da viaggio e mi chiedevo se sarei sopravvissuta ai mostri della notte. Infilavano sempre me e Vivi nella stessa tenda – nonostante io protestassi per stare vicino a Gidan – e dovevo passare la notte schiena a schiena con lui. Imparai in fretta che Vivi, da piccolo stregone carino qual era, aveva il corpo più caldo di tutti noi, e che più stavo vicino a lui più il freddo si dissipava. Quando Mogu era ancora con me, rannicchiata nella tasca frontale della mia tuta, c’erano tre cuori che battevano fermamente all’unisono. Lui addormentato e io curvata dietro di lui, e ogni tanto osservavo attraverso un risvolto della tenda chi si accostava al focolare per il suo turno di sentinella notturna. Ricordo con chiarezza, ancora oggi, come si muovesse Amarant quando perlustrava l’accampamento affilandosi gli artigli, e il modo in cui Quina girasse le patate che stava cucinando sulle braci con la sua forchettona.

L’odore. Ricordo l’odore di tutti loro. Vivi profumava di ceneri, e di fumo, e di lamponi.

In qualche modo riuscii a dormire. Accovacciata scomodamente sulla punta del tavolo per la troppa paura di dormire sul pavimento umido, vacillavo dalla coscienza al sonno senza sosta e conforto. Mi accorsi anche di un terribile bitorzolo sulla testa; probabilmente si era formato quando Tango mi aveva picchiato. Quando finalmente tornò, ero acciambellata e mezz’addormentata. Mi sedetti e sbattei le palpebre verso di lui, come un gufo, mentre lui chiudeva la porta dietro di sé. Fuori era buio.

« Non è questo il luogo in cui deve dormire una signora » disse. O almeno, disse una voce – le candele si erano spente e lui era invisibile nell’oscurità, vedevo solo un paio di occhi.

« Chi l’ha detto che io sono una signora? »

Sembrò divertito. « Non è questo il luogo in cui deve dormire una donna, allora. Non puoi restare qui, Principessa- »

« Schifosamente giusto, non posso stare qui! Voglio andare a casa! »

Mi ignorò abilmente. « Ti porto giù. Non so ancora cosa fare con te, Eiko Carol. Ucciderti no, non ancora. L’ora della tua morte non è ancora giunta. »

L’ora della morte. Rabbrividii. « Dove sei stato? » domandai. « Assediavi la mia città? Assediavi Alexandria? »

« Alexandria? » Rise, una risata vuota. « No. Mai-non-ancora. Devo essere più forte. »

Pensava di poter diventare ancora più forte? Dopo quella esibizione?

« Tanto Garnet ti ucciderà comunque. »

« Io esisto solo per uccidere. » Non di nuovo – ma poi aggiunse, dolcemente: « Ed esisto solo per morire. Non può farlo lei, no, non senza difficoltà. »

Io indietreggiai al suo tocco, ricordando quanto fosse più fuori di un passerotto che ha battuto la testa. « Non voglio che mi porti da nessuna parte. Dov’è “giù?” »

« Non qui. » Davvero illuminante. « E no, non puoi più rimanere quassù. Stai interrompendo il mio lavoro. »

« Oooh, non sai quanto mi dispiace essere così inopportuna! » Avrei dovuto bruciare i libri quando ne avevo l’opportunità, sorvolando sul tabù di non distruggere la conoscenza. Feci un altro passo indietro quando lui raggiunse il bordo del tavolo. Oh dei, aveva delle ali enormi! « Ti scriverò una scusa formale! »

I suoi occhi si strinsero, calcolatori. « Ti spavento? »

Cosa rispondere? , lui spaventava me, Eiko, l’ingegnere con i nervi a fior di pelle, Eiko, che non si sporcava le mani di sangue da anni e ne era molto lieta. Avevo dimenticato il terrore che assale chiunque di fronte a una possibile morte e oh, che sapore amaro che aveva. « Spaventata? Da te? Non farmi ridere. I miei sandwich mi hanno fatto più paura. »

« Bizzarro. » Bizzarro? La sua voce era bizzarra. Non era come quella degli altri maghi neri, uniforme, dolce, calda, strane inflessioni- era lucida, tagliente ed espressiva. Questo Tango Nero mi stava profondamente confondendo. « Di solito si spaventano tutti, agitano i piccoli artigli, gli uccellini sbattono le ali – a volte se le rompono, le ali, sai, e si fanno del male. »

« Tu » dissi in tono piatto, « non fai paura. Tu sei soltanto malato. »

« Sì, sì. Malato. Sono sempre stato malato. Tutto il mondo è malato. Tu sei malata. »

Portai gli occhi al cielo e crollai in avanti, accasciandomi sul pavimento. L’azione improvvisa lo fece sobbalzare come un gatto terrorizzato; i suoi nervi erano messi peggio dei miei, evidentemente. « D’accordo. Sono stanca di questo posto. Portami dove cavolo ti pare. »

« Come desidera, milady » rispose sardonicamente Tango, schiaffeggiandomi col dorso della mano con disinvoltura e con tanta di quella forza che tutto si incupì in una rossa esplosione di nulla.

E questo è tutto quello che ricordo di quel momento.
   
 
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