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Autore: PaleMagnolia    10/10/2008    1 recensioni
Il giovane, benestante Keith Finnegan viene ritrovato, morto, nel garage di casa sua. Nè Richard, l'ex fidanzato, nè la sorella Nicole credono che si tratti di suicidio. Richard indaga in sordina, cercando al contempo di non perdere il posto di protagonista nell'opera Le Corsaire, ottenuto in parte grazie al suo talento e in parte alle raccomandazioni di Keith. Le cose si complicano quando Elizabeth, prima ballerina della compagnia, diventa una presenza troppo assidua nella vita di Richard...
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Durante il viaggio di ritorno verso il suo appartamento, Richard continuò a pensare a quel che Mr

Durante il viaggio di ritorno verso il suo appartamento, Richard continuò a pensare a quel che Mr. Finnegan gli aveva detto. Gli aveva descritto il ritrovamento del corpo, e da allora era in preda alla nausea.

Ebbe un flash di Keith, riverso a terra, i capelli biondi incrostati di sangue, gli occhiali sul pavimento.

Più ci pensava, più l’intera scena gli appariva irreale: la larga macchia rossa sull’accappatoio candido, l’angolo innaturale delle gambe piegate, i chiari occhi grigi spalancati.

Non era mai stato propriamente bello, Keith: il viso troppo angoloso - il naso affilato, gli zigomi pronunciati - per essere davvero piacevole; i denti leggermente irregolari, le lenti degli occhiali a nascondere gli occhi penetranti. Ma quando, la sera, si sedeva sul balcone dell’attico a fumare una sigaretta, il viso slavato rivolto al tramonto, la luce intensa sui capelli e negli occhi pallidi, sembrava uno di quei severi angeli medievali, luminosi e gravi nei loro mosaici di vetro.

E pensarlo ora, immobile ed esangue sul tavolo del coroner, il grosso foro d’uscita sulla tempia, le labbra blu e il taglio a Y dell’autopsia sul petto, dava a Richard un senso di vertigine.

Trovava assurda l’idea che si fosse ucciso in quel modo barbaro: Keith era stato una persona elegante, curata, dai modi garbati. Era raffinato fino all’eccesso. Aborriva la violenza e la vista del sangue, e più di ogni cosa avrebbe odiato l’idea di sfigurarsi il volto con un colpo di pistola.

Eppure, Richard ricordò anche, con un colpo al cuore, che buon tiratore fosse. Lo aveva osservato colpire con mira precisa, uno ad uno, i piatti del tiro a volo, solo per impressionarlo.

(Ricordava bene quella giornata: un ventoso, limpido pomeriggio di settembre - Keith strizzava gli occhi al sole- le rosse foglie degli aceri scosse dal vento, i colpi secchi del fucile.

Il braccio col fucile ricadeva, Keith si voltava a sorridergli controluce, allegro.

Hai visto, Dick? Non ne ho sbagliato nemmeno uno!”).

Giunto a casa sua, Richard gettò con gesto rabbioso il caffè del mattino, freddo nella tazzina, nel lavello. Non aveva voglia di mangiare, né di andare al lavoro. Si lasciò cadere su una sedia, la testa fra le mani.

Poi si riscosse, staccò da un blocco un foglio di carta e prese una matita.

Soldi

Droga

Affari

Famiglia

Malattia

Si fermò a mangiucchiare la matita, pensoso. Che altri motivi può avere una persona per togliersi la vita? Keith non era il tipo da affliggersi per una storia d’amore finita male; né gli risultava fosse coinvolto in traffici poco chiari, nonostante i suoi vecchi problemi con la droga.

Non aveva mai avuto problemi ad accettare la sua omosessualità, ed era da escludere che fosse quella la ragione del suo gesto.

Possibile che qualcuno lo stesse ricattando proprio in base a questo? Ma no, per quale motivo avrebbe dovuto? In molti ne erano a conoscenza, compresi i suoi familiari.

I soldi non erano mai stati un problema –suo padre era sempre stato fin troppo generoso; e inoltre Keith godeva di un appannaggio mensile, in qualità d’azionista della società di famiglia. Non aveva mai lavorato seriamente; per quanto Richard gli fosse legato, riconosceva che era sempre stato un perdigiorno.

Non che passasse tutto il suo tempo a divertirsi, o a sperperare il denaro del padre in capricci da giovane blasé, questo no. Anzi. Era una persona riflessiva, talvolta persino malinconica.

Era intelligente, colto, ben istruito. Ma era anche incostante, volubile: quanto più si entusiasmava per qualcosa, tanto più rapidamente perdeva interesse.

Si era iscritto ad una scuola d’arte, per poi abbandonarla; aveva investito tempo e denaro nel sostenere il lavoro di artisti emergenti, finanziato mostre, e infine aperto uno studio di design: nel giro di pochi mesi se n’era completamente disinteressato, finché questo non era andato in bancarotta.

Era stato Mr. Finnegan a pagare le spese legali relative al fallimento.

Aveva in seguito sviluppato una passione per il mondo del teatro: e in quel modo aveva conosciuto lui, Richard. All’epoca in cui la loro storia era finita, Keith stava già perdendo interesse anche per quello, nonostante avesse continuato a fare di tutto per aiutarlo. Era merito di Keith se aveva ottenuto il ruolo di Conrad, che era stato di Nureyev e Fonteyned, se era uscito dall’anonimato della fila.

Questa considerazione portò Richard a ripensare alla strana maniera in cui il loro rapporto era finito; Keith aveva cominciato ad allontanarsi da lui proprio quando aveva cominciato a vedere riconosciuto il suo talento: quando era passato dalla fila a ruoli minori, e da qui a sostenere le parti dei personaggi principali; fino a ottenere una parte da protagonista.

Mentre era immerso nella sua riflessione, il telefono cellulare riprese a squillare, facendogli fare un sobbalzo. Con l’irragionevole speranza che fosse O’Malley con nuove informazioni, si precipitò a rispondere.

Richard! Come va? Sei malato? Non sei venuto alle prove, oggi!”

Richard fu terribilmente deluso: la voce all’altro capo del telefono, briosa e fastidiosamente acuta, apparteneva a una delle sue colleghe.  Ebbe la visione, subitanea, di capelli ossigenati, una larga bocca dai denti bianchi, lunghe unghie laccate.

Ballerina di notevole talento, socievole e allegra, all’interno della compagnia era considerata una bellezza; ma a Richard irritavano i suoi modi infantili e la voce stridula.

Sapeva di piacerle: fin dall’inizio aveva dovuto respingere con imbarazzo i suoi tentativi di portarselo a letto. Non poteva tuttavia essere scortese con lei, perché le avevano assegnato il ruolo di Medora. Avrebbero dovuto fare insieme il pas de deux, che era il climax dello spettacolo: non dovevano esserci tensioni fra loro.

Richard ricordò vagamente che, all’inizio, la coreografia aveva previsto un pas de trois fra Medora, lo Schiavo e il Corsaro, ma a un certo punto una delle due figure maschili era stata eliminata.

“Ciao, Beth”, rispose Richard, tenendo il telefono scostato per proteggere le orecchie dagli acuti della voce di lei.

“Non sono malato.” Disse, in tono stanco. “Un mio, uhm, un mio amico si è suicidato. Sono stato fino ad ora a parlare con la sua famiglia”

Oddio, Richard, quanto mi dispiace!, che cosa orribile --“. Come aveva previsto, la sua reazione gli perforò i timpani. Era così teatrale, Elizabeth: il modo in cui enfatizzava le parole, sgranava gli occhi, gesticolava. Anche se non poteva vederla, era certo che si fosse portata una mano al cuore, avesse atteggiato il viso a un’espressione sconvolta.

Riusciva sempre a dare un’impressione di simpatia, di umanità e calore; ma a Richard pareva che lo facesse più per soddisfare il suo senso drammatico, che per autentica sensibilità. 

Quando ascoltava qualcuno, o lo consolava, o scherzava con lui, recitava sempre una parte: si protendeva verso l’interlocutore, annuiva enfaticamente, rideva con affettazione, piegando la testa, in un modo quasi comico: proprio come se qualcuno la stesse riprendendo. Richard aveva l’impressione che lo facesse senza neppure rendersene conto.

Beth continuava a parlare, con voce stridula, al telefono, ma Richard non l’ascoltava più.

Aveva chiuso gli occhi, in preda alla nausea. Pensava a Keith, il suo Keith, nella cella frigorifera di un obitorio: brina sulle ciglia, le labbra livide, i capelli irrigiditi in ciocche biancastre.

L’immagine gli faceva venire in mente qualcosa, ma non ricordava cosa. Strinse le palpebre nello sforzo di ricordare, mentre la voce di Beth diventava sempre più distante.

Neve, tende piantate sul ghiaccio, una foto in bianco e nero…

Il capitano Scott! Keith che leggeva un libro sulla spedizione di Scott al Polo, una sera d’inverno.

 “Guarda”, gli aveva detto, tutto interessato, mostrandogli un’immagine: cinque uomini in posa, infagottati in tute da sci, una bandiera inglese sullo sfondo bianco di neve. “Senti qua: Oates si è allontanato volontariamente dalla tenda, per salvare i compagni dall’inedia. Sai quali sono state le sue ultime parole?”. Richard si era voltato verso di lui. “Ha detto: Vado a fare un giro, potrebbe volerci un po'.”

“Pensa”, aveva detto Keith, lo sguardo assorto. “quando sono arrivati al Polo Sud, ci hanno trovato la bandiera piantata da Amundsen nemmeno un mese prima. Ti immagini la delusione? La loro tenda fu trovata sepolta dalla neve: Wilson e Bowers, gli occhi chiusi, morti nel sonno. Invece Scott fu trovato disteso mezzo fuori dal sacco a pelo, la brina nei capelli, con un braccio intorno al corpo di Wilson. Te lo immagini?”

Keith aveva una straordinaria capacità d’immedesimazione. Richard era certo che vedesse Scott, Wilson, il piccolo Bowers e gli altri, camminare irrigiditi dal freddo, bere dalle tazze di peltro; come vedeva Caravaggio vagare, febbricitante, sulla spiaggia di Porto Ercole; o il capitano Smith affondare col Titanic.

Poteva quasi sentire la sua voce. “Te lo immagini, Richard?” Lo diceva sempre, sempre; gli occhi sgranati, la voce sognante.  Te lo Immagini?

Richard ricordò con un nodo alla gola i suoi monologhi didattici, il modo assorto in cui gli parlava del suo ultimo interesse – l’omicidio di Kennedy, il teatro elisabettiano, i quadri di Caravaggio.

Tutto lo interessava, tutto lo affascinava.

“Ascolta” diceva talvolta, seguendolo in giro per casa con un libro in mano. “Ascolta cosa ha scritto questa superstite su Thomas Andrews, dopo che affondò il Titanic”.

“… Richard? Richard? Mi stai ascoltando?”

“Uh? Scusami, Beth, non sono molto lucido, oggi… Cosa mi stavi dicendo?”

“Ti capisco, devi essere sconvolto”, disse, premurosa. “Chiedevo se per caso lo conoscevo, questo tuo amico”.

“Credo di sì. Si chiamava Keith. Lo avrai visto, al teatro: biondo, non tanto alto, con gli occhiali…”

“Oh, ma sì, sì, Keith! Quello che ha finanziato lo spettacolo dell’anno scorso. Ci ho parlato, anche, qualche volta. Sembrava gentile, un tipo simpatico.”

“Lo era.” Una nuova ondata di malessere: aveva la nausea, la testa gli doleva.

“Ti veniva sempre a prendere, alla fine delle prove”, disse Beth, con una nota di malizia, che lo irritò.

“Eravamo molto amici.” Disse seccamente, più di quanto avrebbe voluto. Era stanco, stava male…

“Scusa, scusa, non volevo insinuare nulla”, fece lei, sollecita.

Improvvisamente, la sua voce acuta fu più di quanto lui potesse sopportare. Si accorse di avere un mal di testa terribile. Si scusò in fretta e spense il telefono.

Si alzò dal tavolo, e lo spostamento gli provocò un forte capogiro. Andò a rovistare nell’armadietto dei medicinali per cercare un antidolorifico. Cominciò a spostare scatole e boccette. Qualcosa tipo Newbutal, o ibuprofene, poteva andare bene. O magari un’aspirina.

La testa gli pulsava ora in modo insopportabile. Afferrò a caso delle boccette, le scartò con gesto nervoso. Non trovava niente, solo antibiotici scaduti da anni, o spray al cortisone, robaccia inutile. Trovò un inalatore per l’asma, di Keith: si  chiese come mai fosse finito fra le sue cose.

Continuò la sua ricerca. Un’aspirina, per l’amor di Dio…

Era sempre più irritato, il dolore lo rendeva rabbioso. Cominciò a gettare tutto a terra, cercando disperatamente un antidolorifico qualunque: avrebbe rimesso tutto a posto dopo, quando il dolore avesse smesso di trapassargli la testa. Non trovò nulla.

Frustrato, spazzò con un largo gesto della mano il ripiano, e quasi tutte le boccette caddero sul pavimento, dove più d’una s’infranse con suono secco.

Non capì esattamente in che modo fosse successo, ma un attimo dopo era inginocchiato a terra, frammenti di vetro a pungergli le gambe, scosso da profondi singulti senza lacrime. Sussultava in modo incontrollabile, quasi incapace di respirare, sentendo il suono dei propri singhiozzi come se provenissero da un luogo remoto, da un’altra persona.

Flasback di Keith si affollavano nella sua mente, incoerenti. Non i suoi momenti migliori, non i giorni o le notti che più aveva amato, ma ricordi casuali: Keith che si strofinava i capelli bagnati con un asciugamano, Keith che parlava al telefono con sua sorella - il telefono bilanciato fra la spalla e l’orecchio - Keith che si tagliava le unghie, distratto.

  
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