Coniglio
Rosso
CAPITOLO 1
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Quanti di voi
crederebbero alla mia storia?
Probabilmente nessuno.
Però, voglio provare ugualmente a raccontarvela. Perché provare, è una delle poche cose che mi sono rimaste
in questo momento. Voglio provare a farvi avere questa storia.
Una storia che fino a
qualche ora fa, pensavo fosse solo fantasia, immaginazione, frutto di un’idea
strana proiettata nel nostro mondo per farci fantasticare. Frutto di una commercializzazione standard legata
ai canoni della vita e del commercio.
Eppure, contro ogni logica, tutto ciò esiste
davvero.
Oggi, ore 14 e 45, con
la poca lucidità che mi è ancora rimasta, ho la certezza, ragionevolezza, di
affermare che gli incubi a volte diventano realtà.
Mi chiamo
Alyson Shohan, ho 21
anni e studio alla Yale University del New Haven, nel Connecticut. La mia aspirazione principale è
quella di diventare una biologa, e, successivamente,
entrar a far parte del colosso nazionale di ricerca e sviluppo gestito dall’Umbrella Corporation. Almeno…
fino a poco tempo fa’ pensavo fosse questo il mio
futuro.
Da piccola ho sempre
apprezzato e ammirato con occhi estasiati l’imponente struttura soprannominata
“Alveare” per la sua forma che in parte ricorda appunto una grossa arnia.
Mio padre, Michael Shohan, lavorava nel
vasto laboratorio sotterraneo dell’Umbrella, creato
sotto le fondamenta di Raccoon City. Lo stesso
stabilimento dove ora, in questo preciso momento, mi ritrovo a scrivere questa lettera.
Cos’è l’Umbrella? Per quei pochi individui che ancora non conoscono
il significato di questa parola, tenterò di dare una breve ma concisa
spiegazione:
L’Umbrella
è la causa dei miei guai.
Pensavo che non avrei mai
più toccato un computer, all’inizio di questa folle avventura. Evidentemente mi
sbagliavo di grosso, tanto che adesso non so più cosa
scrivere. La paura che ho accumulato, comincia a sbiadirsi, forse perché mi
trovo in una camera sigillata da una massiccia porta metallica, bloccata a sua
volta da un ampio tavolo che ho trascinato a spintoni fino all’ingresso,
nonostante quest’ultimo fosse gia chiuso e bloccato
da una spranga di ferro. Però, in questi casi la paura ti raffredda il
cervello, entri nel panico e cominci a pensare ai minuti che ti legano ancora a
questa vita, e che retrocedono rapidamente per portarti a
un passo dalla morte.
Perchè “gli incubi”,
sono dappertutto.
Sono qui, in questo
posto, e aspettano soltanto me.
Spero che qualcuno
legga la mia lettera, spero che la mia testimonianza
serva a combattere l’orrore che L’Umbrella Corporation nasconde nelle sue vaste pareti, nei laboratori
che ogni giorno mettono a repentaglio la vita dei cittadini di Raccoon City, arrivando perfino a sacrificare i suoi
innumerevoli scienziati e l’intero personale che lavora all’interno della
struttura, per qualcosa d’incontrollabile.
Avete mai sentito
parlare di creature riportate in vita dopo la morte, o esperimenti genetici
simili a qualcosa del genere?
Molti potrebbero
pensare ai famosi racconti fantascientifici che ci hanno accompagnato durante
l’infanzia, il più delle volte, costringendoci a dormire con una banale scusa
nel lettone dei nostri genitori.
Quello che sto per raccontarvi si spinge ben oltre il classico nonché
celebre“ Frankenstein” di Mary Shelley
e… ora capirete il perché.
Erano le 10 e 20 del
mattino, ero in ritardo a causa di un malfunzionamento del pullman sul quale
viaggiavo. Forse era il destino che invano tentava di tenermi lontana da un
futuro non del tutto roseo.
Mancavano meno di tre
isolati all’ingresso dello stabile sotterraneo, così decisi di raggiungerlo a
piedi.
Correndo non avrei
impiegato un tempo maggiore rispetto alla riparazione del bus, però… per casualità, la
strada sulla quale stavo camminando, era bloccata da un grosso camion
completamente steso al suolo, che trasportava prodotti destinati al
rifornimento delle industrie farmaceutiche.
Ricordo
che sbruffai.
Di solito lo faccio
spesso, tanto da arrossire le guance come una bambina che ha appena litigato
con i suoi compagni di scuola.
Avanzai, decisa a
proseguire nonostante il trambusto, ma fui subito fermata da un’agente di
polizia che mi invitò gentilmente a cambiare
direzione. Inutile farla franca. Mi avrebbero vista di sicuro se avessi tentato
di intrufolarmi in mezzo alla folla. La zona era completamente recintata dalle
guardie di Raccoon, e non potevo di certo rischiare
una ramanzina dai cosiddetti “signori in divisa”!
Quello fu il secondo
avvertimento. Il destino ancora una volta m’ invitò ad indietreggiare, a fare ritorno a casa, magari la mia, situata fuori dalla
città.
Mi trovo in vacanza
dai miei nonni. Mio padre ha preferito mandarmi qui per mia esplicita volontà,
piuttosto che raggiungere mia madre, impegnata in un
tour presso le migliori università del mondo, come esperta di bioingegneria.
Sarebbe stato il colmo
trascorrere la prima settimana di vacanze saltellando da un’università all’altra!
Ritornando alla mia
avventura…
Ricordo che sbruffai
una seconda volta, quasi decisa a cedere, ma, improvvisamente mi ricordai di
una stradina fuori città, raggiungibile in pochi minuti, che io e mio padre percorrevamo per arrivare all’Alveare e fermarci qualche volta ad osservare le
meraviglie della natura che circondava quel luogo incontaminato.
Senza pensarci,
caricai il mio zainetto rosa e di morbido tessuto sulle spalle, ed inforcai la
direzione opposta.
In meno di 15 minuti,
il tesserino di riconoscimento con tanto di autorizzazione
e firma del mio papà, venne letto da uno degli agenti addetti alla sorveglianza
del primo di una lunga serie di portoni a capo della struttura.
Mi accompagnò Alan, un membro dello Special Tactics
and Rescue Service, meglio conosciuto come S.T.A.R.S., famoso nucleo
operativo che s’impegna a proteggere l’intera costruzione e tutto ciò che essa
contiene. Un tempo lui e mio padre giocavano insieme nella squadra calcistica
della loro scuola. Avevano all’incirca 9 o forse 10
anni. Ogni volta che Alan mi vedeva entrare mano
nella mano con il suo compagno di squadra, tirava fuori dalla
tasca un dolcissimo cioccolatino dall’involucro ogni volta colorato, e me lo
offriva gentilmente. Perfino adesso che sono cresciuta,
continua a porgermene uno. Anche questa mattina,
ovviamente.
Lo ringraziai come
sempre, sorridendo, dopodichè uscii fuori dall’ascensore
principale che mi aveva portato al terzo livello della struttura, ed imboccai
il breve corridoio per entrare nella costruzione.
Altre due guardie
pattugliavano scrupolosamente l’entrata. Consegnai la tessera magnetica ad uno
di loro che la fece scorrere nella fessura adiacente
al portone di vetro, e quest’ultimo si spalancò poco
alla volta.
Ripresa la card plastificata, mi ritrovai nella sala principale degli
uffici.
Salutai con un cenno
del capo l’addetta alla reception, Kate Lender, e girai
un rapido sguardo al mio orologio da polso.
- Dieci e quarantanove?! E ora come spiego i miei diciannove minuti di ritardo allo
zio? Devo affrettarmi! – dissi
bofonchiando tra me e me, con una punta di scompiglio nei movimenti.
Mio zio, William Shohan, lavora per L’Umbrella Corporation da qualche anno. Lui si occupa di inserire
nuovo personale addetto alla vigilanza, per garantire sicurezza a tutto lo staff presente nell’Alveare. E’ un tipo piuttosto
scrupoloso, attento ai minimi dettagli e ai curriculum dei suoi aspiranti
“difensori” che decidono di entrar a far parte della
società di bioingegneria. Stamani avevo un appuntamento con lui ma, più che appuntamento, si sarebbe potuto chiamare “piccolo incontro
familiare tra due persone che non si vedono da circa un anno”.
Sono molto legata a
mio zio. E’ un tipo all’apparenza rigido e severo ma
chi ha avuto modo di conoscerlo o frequentarlo, penso sia in grado di
dichiarare il contrario.
Avrebbe dato qualsiasi
cosa per L’Umbrella, peccato che per quest’ultima non potrei dire la
stessa cosa.
Non vedevo l’ora di
riabbracciarlo. Ci eravamo sentiti per telefono il
giorno prima dell’appuntamento. Sarei dovuta arrivare alle 10 e
Cominciai a correre
lanciando un’occhiata ai tre ascensori interni che collegavano bene i vari
livelli.
Quello centrale era
vuoto, ma da lì a poco si sarebbe riempito di persone
pronte a viaggiare per la struttura.
Affrettai il passo
tanto che i miei stivali di pelle nera produssero un forte scricchiolio al
movimento delle gambe. Mi lanciai quasi verso il tragitto, cercando sempre di
mantenere il contegno, ma qualcosa urtò il mio piede, così poi da farmi mancare
l’equilibrio e cascare.
- Ahi! – esclamai serrando forte gli occhi.
- Hey ragazzina! Sta più attenta! E’ la mia gamba questa! – disse una voce maschile in tono piuttosto
seccato.
Alzai il capo.
Un giovane di media
statura, alto un po’ più di me, i capelli neri pettinati con diversi ciuffi
leggermente rossicci e fuori posto, e due occhi dal taglio tipicamente
orientale, sostava dritto davanti a me.
Vestiva in maniera
normale, forse troppo disordinata per appartenere allo staff
dell’Alveare. Un paio di jeans neri con una fenditura sul ginocchio, delle
scarpe da ginnastica, anch’esse nere, e una felpa blu con la zip aperta, dalla
quale s’intravedeva una maglietta nera con una di quelle
stampa strane, fatte di linee acuminate come artigli, disegnata giusto in
petto.
La prima cosa che
feci, fu quella di rialzarmi. Abbassai lo sguardo. Di solito lo faccio quando mi trovo in imbarazzo, e in quel momento ne
avevo tutte le ragioni. I dipendenti dell’Umbrella mi
fissarono per brevi istanti, poi ognuno riprese la sua attività dimenticandosi
completamente di me.
Sospirai, con il viso
che si attenuò ritornando rosa naturale.
In seguito, mi girai
verso il giovane, che guardava con indifferenza la vasta sala.
- Ti chiedo scusa, però… tu potevi
usare anche un po’ più di gentilezza! Non l’ho fatto volontariamente, e non ci
tengo a farmi male solo per il gusto di farlo.- dissi anch’io con voce un po’ seccata, ma usando sempre un pizzico di
diplomazia che caratterizza il mio essere. Quasi subito, un rumore deviò la mia attenzione.-
L’ascensore!- esclamai di balzo vedendo le porte scorrevoli iniziare il procedimento
di chiusura. Mi affrettai così ad entrare.
- Serve anche a me. - dichiarò il giovane con voce da perfetto strafottente.
Come
se le mie parole gli fossero sembrate solo un semplice respiro distorto e privo
di significato.
Entrammo quasi
insieme. Le porte si chiusero ed iniziò la discesa. C’erano circa dieci persone,lì dentro. Si stava un po’ stretti, ma il tragitto non era
poi tanto.
Cercai di darmi un’aggiustatina.
Stamani a Raccoon City faceva abbastanza caldo, nonostante fosse
appena entrato il mese di Dicembre.
Ho indosso un top di un colore rosa tenue, con delle spalline sottili e un
disegno a coniglietto stampato sul petto. Al disopra invece porto una giacchettina di leggera lana bianca, con lunghe maniche che
terminano in delicati voilant. Infine,
una minigonna in tessuto nero, e in tinta con gli stivali di pelle.
Diedi un’ultima stistematina ai capelli,lunghi e
castani, legati da un molle elastico, e aspettai che la tipica musichetta
annunciasse l’arrivo al piano selezionato.
Il giovane straniero
dagli occhi a mandorla teneva un braccio poggiato alla parete della cabina. Con
aria sempre indifferente, sorreggeva con l’altra mano un pacchetto di sigarette
mezzo vuoto.
- “Antipatico!”- bisbiagliai a voce
bassa, quasi impercettibile, fissandolo di soppiatto.
Lui si girò.
- Hai detto qualcosa, ragazzina?- chiese sospettoso, destandomi finalmente di un misero sguardo.
- Non chiamarmi più ragazzina! E’ la seconda volta che lo
fai, e non sei per niente cortese! – gli
dissi facendomi avanti per uscire alla svelta dall’ascensore.
L’atteso suono arrivò,
e le porte si aprirono. Un via vai di persone mi
apparve contro. Tutti impegnati nei loro ruoli, tutti
indaffarati a svolgere le proprie mansioni...Tutti dediti all’Umbrella.
Uscii alla svelta
gettando un’ultima occhiata all’orologio.
Ero in evidente
ritardo.
- “Speriamo che lo zio sia di buonumore stamattina!”- dissi mentalmente.
Dopo aver girato l’angolo, vidi la porta del
suo ufficio, proprio di fronte a me.
Incalzai nel passo,
dimenticandomi completamente del giovane scostumato incontrato poco fa.
Il cuore mi batteva
forte. Ero visibilmente tesa ma felice di poter riabbracciare una persona cara.
Diedi un colpetto alla
porta con il dorso della mano destra. Sentii una voce piuttosto forte esortarmi
ad avanzare.
Girai il pomello, ed entrai. Lo zio era seduto dietro la sua scrivania stracolma
come sempre di pratiche da firmare e visionare.
Distolse lo sguardo
dal monitor del computer con il quale stava lavorando e, non appena mi vide,
inarcò le sopracciglia all’insù, sorridendo di gioia.
- Alyson! – esclamò balzando in piedi.
Corsi da lui
abbracciandolo, lasciando scivolare lo zainetto rosa sulla moquette blu che
rivestiva il pavimento.
- Sei diventata ancora più alta! Se continui così finirò per sentirmi basso…- disse con voce ironica, poi sospirando continuò- Voi donne state evolvendovi sempre di più! Chissà noi poveri uomini dove andremo a finire di questo passo…
- Forse ad accudire bambini e a sbrigare le faccende di
casa!- risposi io prontamente.
Scoppiammo a ridere.
Lo ricorderò per sempre. Fu uno dei tanti momenti felici passati insieme. Mi
abbracciò ancora una volta, così forte da permettermi di sentire il profumo della
sua camicia bianca. Commentai sulla fragranza. Un po’ speziata,
ma intensa. Ridacchiammo ancora. Poi
qualcosa interruppe il nostro chiacchiericcio.
- Avanti!- enunciò mio
zio al suono di uno schiocco alla porta.
Ci sciogliemmo
dall’abbraccio, proprio nel momento in cui l’uscio si aprì ed io… gridai.
- TU?!?- gridai, per l’appunto, vedendo il viso orientale del giovane teppista maleducato, far capolino dalla fessura.- Mi hai seguita fin qui?!
- Chi, io? Ma sei matta? – ribatté prontamente lui, spalancando la porta.- Potrei dire la stessa cosa di te, dato che anticipi le mie mosse.
- Si dà il caso che questo signore è mio zio! Quindi non metterti strane idee in testa!
- Senti…-ribatté il tizio,
quasi a voler troncare la discussione- non sono qui per discutere con una
ragazzina… ho un colloquio di lavoro e quindi, se non ti dispiace, vorrei
svolgerlo in assoluta tranquillità. E’ possibile?- mi disse, quasi seccato dalla mia presenza.
Gettai uno sguardo
all’orologio. Erano le 11, e quel ragazzo aveva terribilmente ragione.
Sbruffai. Potevo non
farlo specialmente in un momento simile?
- Piccola – disse lo
zio accostando il capo vicino al mio orecchio - non ci metterò molto. Nel
frattempo puoi andare a trovare Zeus se vuoi… oggi non è di servizio, e lo
troverai decisamente in forma rispetto all’ultima
volta che lo hai visto.- affermò facendo
riferimento al “cucciolo” di dobermann con cui giocavo ogni volta che facevo
visita all’Alveare.- E tu ragazzo, non cominciamo con le insubordinazioni,
altrimenti non ci sarà posto per te all’Umbrella Corporation!- proferì
poi rivolgendo un’occhiata allo straniero, che a sua volta annuì con
svogliatezza.
Sorrisi
silenziosamente, felice di quella ramanzina. Il tizio se l’era pienamente
meritata.
Mi chinai verso terra
per raccogliere lo zaino e mi apprestai subito ad uscire.
Il ragazzo restò sulla
soglia della porta. Ci fu un breve contatto causato volontariamente da parte
mia, un po’ per vendicarmi della sua boriosa arroganza.
- E non sono una ragazzina!- gli dissi girando la testa verso di lui e
incurvando la fronte con dispetto.
- Se non mi dici il nome, ti
chiamerò così.- rispose senza tanti
preamboli, e con un lieve sorriso. Successivamente
girò di spalle, puntando dritto mio zio.
Avrei tanto voluto
strangolarlo! Quel suo modo di fare da persona sgarbata e troppo
presuntuosa, non mi andava affatto a genio. L’Umbrella
non poteva assumerlo! Mio zio non poteva affidargli la sorte di migliaia di
persone che lavoravano lì dentro! Tentai d’immaginare una scena alquanto
comica, giusto per sdrammatizzare ed alleviare la sua odiata presenza, in cui lo straniero veniva
sbattuto fuori con un bel calcio piazzato nel fondoschiena, dallo zietto. Sogghignai mentalmente.
Chiusi la porta in silenzio, anche se un po’ per la rabbia, avrei
tanto voluto sbatterla fino a farla tremare. C’erano troppe persone in quel
settore, e non potevo di certo dare nell’occhio.
Inforcai il corridoio
delle camere contenenti gli animali da esperimento. Odiavo quel posto.
Una volta da bambina
tentai di liberare un paio di conigli dalle loro gabbie, poi, però, fui
scoperta e il papà mi castigò severamente. Un mese senza vedere il mio Zeus!
Zeus, appunto, è uno
dei tanti cani a guardia dell’Alveare.
Il dobermann è un cane
temuto dalla maggior parte della popolazione, viene
considerato una delle razze più aggressive e feroci in circolazione. Però lui, lui no, è diverso. Siamo cresciuti insieme. Una
volta mi persi in uno dei tanti corridoi dell’edificio. Piangevo a dirotto. Lui
con calma afferrò un lembo di stoffa del vestitino rosso che indossavo
quel giorno, e mi invitò a seguirlo.
Incredibile ma… mi
ricondusse da mio padre!
Da quel giorno,
diventammo grandi amici. Volevo portarlo a casa con me, dargli la libertà, ma
lui faceva parte dell’Umbrella. Era di proprietà
dell’Umbrella. Così come lo sono tutti i dipendenti
che vi lavorano senza conoscere i pericoli e le ambiguità che questa immensa compagnia offre in contratto. Una delle cose
che l’Umbrella dovrebbe imparare, è che la vita non
si compra, né si “altera”.
Dopo un lungo
tragitto, entrai nell’area riservata alla cura dei cani.
Gabbia numero
Zeus era lì. Drizzò le
orecchie non appena sentì i miei passi. Scattò in piedi agitandosi con
frenesia. Corsi verso di lui.
Infilai
una mano attraverso la fessura della gabbia, coccolandolo dolcemente con una
carezzino all’orecchio.
L’addetto alla manutenzione mi raccomandò prudenza, tuttavia lui non poteva
sapere lo speciale rapporto
che c’era tra me e quel cane, quindi annuii semplicemente.
- Ciao cucciolo! – dissi
al mio Zeus, sorridendo. - Ti trovo bene, sei in perfetta forma,
complimenti!- esclamai scherzando.
Erano le 11 e 20 o
forse qualche minuto in più.
Zeus cominciò ad
abbaiare fortemente.
Quello fu il primo
avviso.
Nel frattempo mi ero
accovacciata sul pavimento, aspettando che “mister
simpatia” terminasse il suo colloquio. Udendo il frastuono scattai in piedi
quasi spaventata. Voltai il capo in direzione della porta. “Forse sarà entrato
qualcuno”, pensai frettolosamente. Eravamo io e l’addetto ai cani, in quella
stanza.
Guardai il mio
cucciolo dritto negli occhi, e capii subito che qualcosa di strano sarebbe
successo da lì a poco.
Il resto dei cani
drizzò le orecchie, cominciando ad abbaiare furiosamente.
- Buoni, buoni! – gli intimò
il delegato. Ciò nonostante, continuarono ad ululare sempre più forte.
- Zeus, calmati! Sta calmo!- dissi al cane, cercando di rassicurarlo, tuttavia nemmeno le mie parole
servirono a molto. Raccolsi lo zainetto da terra, ed entrai nella confusione
più totale.
L’intero squadrone di
cani presenti nella camera, abbaiava vorticosamente, muovendosi impazzito e
facendo oscillare perfino le gabbie che li tenevano prigionieri.
- Ragazza, non puoi stare qui! Esci
fuori!- mi ordinò il delegato. Voltai di spalle annuendo a
fatica, ma la mia attenzione passò rapidamente sulla spia luminosa posta in
cima all’ingresso della porta, che cominciò a lampeggiare di rosso. A quel
colore, seguì poi un assordante suono.
- L’allarme! E’ scattato l’allarme! Forse un incendio!
Presto, fuori!- gridò l’uomo con fare
incalzante.
Ci dirigemmo all’ esterno, immettendoci nella sala principale. Decine di
persone correvano tra i corridoi. Molti di loro parlavano di semplici
esercitazioni antincendio, altri invece gridavano in preda al panico.
- Che ne sarà dei cani?! – chiesi frettolosamente girandomi verso
l’addetto. Ma lui non c’era più. Dileguato dalla paura
di quell’allarme.
Mi trovavo al centro
di una folla impazzita, terrorizzata, come se una violenta scossa di terremoto
avesse distrutto l’edificio mandando in panico l’intera popolazione di un mondo
sotterraneo.
Ero spiazzata.
Confusa. Prendere l’ascensore per scappare sarebbe stato inutile, erano completamente gremiti di persone che tentavano di
entrarvi, quasi rimanendo incastrate tra le porte scorrevoli. Mi sollevai sulle
punte cercando di vedere mio zio. Urlai il suo nome. Speravo in una vaga
possibilità di incontrarlo o udire una risposta. Dovetti arrendermi. Il caos
regnava sovrano nell’intera area. La mia voce fu coperta dal frastuono degli
altri addetti.
Quale avvenimento era
riuscito a scuotere così tanto l’Alveare?
Cos’era successo di così grave, all’interno della struttura?
Tentai di muovermi, di
correre in qualsiasi direzione, “tentai”. Venni
fermata al primo passo. Diversi dipendenti dell’Umbrella
mi spintonarono, involontariamente.
Caddi a terra,
picchiando con violenza il suolo. Ciò nonostante, quello si presentò come
l’ultimo dei miei problemi.
Un grosso armadietto
fatto di ferro spesso e massiccio, iniziò ad oscillare, spintonato
accidentalmente dalla folla impazzita.
Non feci in tempo a
sollevare il capo che intravidi una pila di soprabiti
staccarsi dai supporti e venirmi addosso.
Fui accecata da quegli
innumerevoli tessuti, e l’unica cosa che riuscii a
sentire in quel preciso e confuso attimo, fu soltanto il suono di un pesante
tonfo, che mi avvolse completamente.
Impiegai poco a
capire. L’armadio mi era finito addosso, intrappolandomi al
suo interno.
Inutile urlare. Non
sarebbe servito a nulla.
Dovevo ritenermi
fortunata. Una fortuna nella sfortuna! Vista
la situazione, quel colosso avrebbe potuto schiacciarmi con la sua massiccia
mole di ferro se le ante non si fossero aperte prima dell’impatto. Invece…ancora una volta il destino o la
semplice fatalità, diede una spinta alle assi tanto da
farle spalancare.
Fu un brutto momento,
che per mia fortuna, venne sminuito da qualcosa di più
ambiguo.
Oltre al suono
stridente e continuo dell’allarme, udii in sottofondo un leggero fruscio,
simile a una bomboletta d’aria compressa, che avvolse
la sala.
Man mano che il rumore
aumentava, viceversa, le urla dei dipendenti diminuivano, come spegnendosi. Vista
la mia situazione, l’udito rimase il mio unico senso
attivo in quel momento. Il buio totale della prigione metallica, mi tolse la
vista, la voce mi mancò, le mani tremavano, e la gola diventò completamente
arida.
Non so per quanto
tempo rimasi lì sotto. Il fragore dei passi affrettati, le urla, i suoni che
sentivo, poco alla volta si fecero lontani. Probabilmente persi i sensi, quasi
soffocata da tutto ciò.
Aprii
gli occhi forse una decina di minuti più tardi. Mi ripresi confusamente, ero stordita, scossi il capo pensando di
trovarmi tra le pareti della mia stanza, nel mio
morbido ed accogliente letto, però l’odore ristagnante di ferro umido, mi fece
svegliare da quell’ennesimo sogno, riportandomi con
forza alla realtà.
Cercai di liberarmi da
quel groviglio di stoffe, sollevai le braccia all’insù, e le mie mani urtarono
una liscia parete di metallo.
L’aria che stavo
respirando, cominciò a marcire. Dovevo liberarmi alla svelta, altrimenti sarei soffocata.
Strinsi le mani a
pugno e cominciai a battere facendo appello a tutte le mie forze. Accompagnai i
movimenti delle braccia con urla e grida stridenti, nella speranza che qualcuno
mi sentisse, venendo magari in mio aiuto.
Purtroppo però
dall’altro lato il silenzio regnava sovrano. “Forse sono scappati tutti”,
pensai cominciando a tossicchiare.
La prima regola in questi
casi è impedire che il panico ti raggiunga, solo così quel briciolo di ragione
potrà restare lucida.
Smisi di picchiare
contro l’asse di ferro. Per l’ennesima volta, non sarebbe servito a nulla.
Tentai di sollevare
l’armadietto, di spingerlo verso l’alto, ribaltandolo. Portai le gambe contro
la parte superiore, ed iniziai a premere. Interruppi il movimento dopo circa un
minuto, per respirare quell’ultimo filo d’aria
rimasto.
Visto che i primi
tentativi risultarono vani, decisi di abbattere quella
gabbia sfondandola a suon di calci. La suola delle mie scarpe poteva resistere
all’urto e forse fracassare il fondo dell’armadio. Picchiai con forza, stringendo
i denti. Dovevo farcela. Quella, presumibilmente, era la mia ultima
possibilità. Dopodichè non avrei avuto più aria pulita da respirare.
I primi colpi andarono
a vuoto ma non mi arresi. Continuai in piccole riprese da
cinque calci ciascuno. Man mano che picchiavo, aumentavo la pressione
delle gambe, e alla fine sentii il primo cedimento. Continuai a scalciare,
senza sosta, senza fermarmi, fino a che un raggio di luce sfolgorante non
m’investì il viso.
Finalmente ero libera.
Mi fermai a riprendere fiato, respirando una ventata d’aria nuova. Diedi un ultimo colpetto, il più forte, e l’asse di metallo finalmente
volò via.
Quando uscii dalla prigione di ferro, lo
spettacolo che vidi fu agghiacciante.
Decine
di corpi erano sparsi sul
pavimento. Alcuni accalcati alle vetrate del portone
principale, altri accasciati davanti agli ascensori come se fossero un mucchio
di giocattoli rotti.
Portai le mani alla
bocca, in preda allo sgomento. Tra i tanti corpi intravidi quello di Kate, l’addetta al banco informazioni. Corsi senza pensare verso di lei.
- Kate! Kate!-
urlai.
Tentai
di scuoterla, le tolsi alcuni
ciuffi di capelli biondi dal viso. Continuai ad urlare il suo nome, invano. Era
svenuta?
Mille domande
affollarono la mia mente, quale situazione nefasta aveva avvolto l’Alveare? Un
incendio? Impossibile, tutto era intatto, niente di bruciato, o in fiamme.
Adagiai il capo di Kate al suolo, e andai in direzione dell’entrata
principale. Tentai di aprire la porta per chiedere aiuto, una volta all’esterno
sarebbe stato tutto più facile, almeno così pensavo. Provai a spingere più
volte, ma l’ingresso era sigillato. Nonostante ci fosse la
corrente, molte cose, come i computer, erano in tilt, bloccate. Feci un
mezzo giro e raggiunsi gli ascensori. Pigiai il
bottone ad ognuno di loro, e aspettai l’apertura della prima porta disponibile.
Passarono alcuni secondi, l’ansia salì rapidamente, buttai uno sguardo al
pannello situato sopra agli ascensori e con incredulità vidi le luci installate
per la segnalazione del piano, lampeggiare simultaneamente.
- Impossibile!- dissi
a voce bassa- Tutto il sistema è in arresto! Tutto è sigillato!? – continuai alzando
la voce.
I battiti del mio cuore
cominciarono ad aumentare. Per la rabbia picchiai violentemente le mani sulla
porta metallica del terzo ascensore. Mi sentivo in trappola. Tanta
fatica per liberarsi da una piccola prigione, per poi apprendere di essere
rinchiusi in una gabbia ancor più grande della precedente, e soprattutto
centinaia di metri sotto terra.
Mi gettai nello
sconforto. Ero sola in mezzo a decine di persone probabilmente… morte? No,
impossibile! Eppure… Nessuno di loro dava segni di
vita. Mi gettai su un uomo di mezza età, tentando di svegliarlo, ma come con Kate, non ricevetti nessun segno positivo.
Sarei morta anche io? Ma soprattutto, dov’era mio zio?!
Saettai lo sguardo sulla sala, non riuscivo a vederlo, forse era
scappato? Probabilmente era in salvo, ma non avevo nessuna certezza.
Tentai di rassicurarmi, tentai… ma invece, l’unica
cosa che ottenni, fu il pianto.
Scivolai lentamente al
suolo. Scoppiai a piangere.
Ero
disperata, avrei preferito
restare nel piccolo armadietto, protetta da tutto quel caos, però,
all’improvviso udii un rumore.
Un’agente di polizia
stava avanzando verso di me, a passo molto lento, con movimenti rilasciati e il
capo chino.
Il cuore si fermò,
diventando quasi più leggero.
-“Forse è ferito!”- mi
dissi mentalmente, andando in suo aiuto. Cercai di sorreggerlo avvolgendogli il
braccio intorno al mio collo.- Coraggio, l’aiuto io!- dissi speranzosa e quasi eccitata nel vedere una persona viva.- Lei sa cos’è successo?
Dobbiamo dare subito l’allarme! Sta
bene? E’ ferito? – gli domandai incalzante e ricolma di
contentezza.
Sentii un rumore
strano provenire dalla sua voce. Come un gorgoglio, un suono imprecisabile,
qualcosa di significato incomprensibile. Il suono aumentò, fino a trasformarsi
in un ruggito.
Fissai l’agente in
viso non appena lui sollevò la testa.
La sua bocca era
sporca di sangue, i denti completamente rossi, pieni di residui gelatinosi
impigliati tra le fessure, senza contare l’alito… Un odore di marciume,
qualcosa d’indescrivibile, una puzza impregnata da un forte ed aspro tanfo.
Mi spostai sugli
occhi. Completamente privi di vita. Le pupille dilatate, il bulbo oculare
bagnato di rosso, e la scarsa presenza di lucidità mi fecero raggelare.
Sobbalzai. Mi strinsi
nelle spalle.
Cominciai ad allentare
la presa, e quell’uomo iniziò a farmi veramente
paura. Era malato?
Continuava a muoversi
impacciatamene, anche se la forza di certo non gli mancava. Infatti,
iniziò a stringermi il braccio intorno al collo. Sempre più forte.
Repentinamente tentai di scansarlo, ma fui bloccata dal secondo arto che mi investì con una forza tale da farmi cadere al suolo.
Cascammo entrambi.
Mi dimenai
immediatamente, divincolandomi dalla presa. Riuscii ad alzarmi, ma fui presto
riacciuffata per le gambe.
Scalciai con tutta la
mia forza, urlando aiuto. Colpii il suo volto direttamente in pieno, e scappai
via.
Vidi il corpo di Kate, alzarsi da terra. Mi gettai in quella direzione,
gridando il suo nome.
- Kate, Kate!
Alzati presto!- la esortai.
– C’è un uomo, forse è impazzito! L’Alveare è tutto
bloccato! – continuai agitata, aiutandola
a tirarsi su.
Sentii una seconda
stretta simile a quella di prima, avuta con il dipendente pazzo. Vidi gli occhi
di Kate privati della stessa vitalità. Con pupille
completamente imbiancate e spente, viso biancastro.
Si aggrappò a me
spalancando la bocca come volesse mordermi.
Indietreggiai subito,
slegandomi dal suo forte abbraccio.
Indietreggiai ancora
una volta finché le mie spalle urtarono una fredda parete.
Vidi Kate alzarsi lentamente, seguita subito dopo da altre tre
persone. Puntai lo sguardo su loro. Sembravano tanti burattini, con lo stesso
movimento lento e cascante. Poco alla volta si
“rianimarono” tutti i corpi sparsi sul pavimento del piano.
Rimasi immobile,
incapace di muovermi, la paura stava lentamente accerchiandomi, di sicuro tutte quelle persone non avevano ottime
intenzioni!
Prima che il cerchio
umano avrebbe sbarrato la mia strada, mi lanciai lateralmente, correndo verso
sinistra. Notai che tra me e gli altri individui c’era una maggiore rapidità e
scioltezza nei movimenti, correndo li avrei
sicuramente distanziati. E così feci. Aumentai il
passo vertiginosamente, avanzando all’impazzata, corsi per l’intero corridoio, corsi a lungo fino a fermarmi, sfinita.
Voltai il capo
all’indietro. Ero sola. Non si udivano né suoni strani, né il rumore di passi
sordi.
Ansimando mi guardai
attorno.
Mi trovavo in uno dei
corridoi dell’Alveare. La prima cosa che mi venne in mente, fu l’ufficio di mio
zio. Si trovava dalla parte opposta, raggiungerlo avrebbe
significato lanciarsi nelle mani del destino. Il salone principale era invaso
di gente, tutte con l’idea fissa di uccidermi. Una bella prospettiva…
Forse però, in quella
stanza avrei trovato le risposte ai cento quesiti che mi ronzavano in testa, e
forse anche il fratello di mio padre.
Deglutii quasi a
spintoni, e ritornai indietro, silenziosamente. Ci fu la voglia di non farlo,
di restare lì, scovare un nascondiglio o un’uscita, però la speranza di
ritrovare lo zio, cancellò ogni mio dubbio.
Infondo,
possedevo dalla mia parte
rapidità e scioltezza.
Qualità
preziose che però dopo poco vennero meno.
A circa venti metri,
intravidi uno strano gruppo di persone, con le stesse caratteristiche di quelli
incontrati prima.
Sobbalzai. Con
delusione mi voltai indietro intenta ad allontanarmi. Sembrò tutto troppo
facile, e, infatti, ci fu qualcosa che bloccò il mio passaggio.
- AAAH!!!!! – urlai a
squarciagola.
Davanti a me c’erano
una decina di persone che mi fissavano con grandi occhi spenti. Alcuni di loro
avevano gli abiti completamente macchiati di sangue, ad altri, invece,
mancavano arti o parti del viso che presentavano evidenti morsi. Fu uno
spettacolo agghiacciante che difficilmente potrò
cancellare dai miei ricordi. Aveva tutto l'aspetto di un film.
Mi misi a correre come
una matta, lasciandomi alle spalle quella massa raccapricciante di gente.
Svoltai a destra, evitando così di finire nell’atrio principale, anch’esso ricolmo da quegli strani esseri. Fu tutto così improvviso.
Mi lanciai d’innanzi
alla porta di una camera di sicurezza. Lì sarei stata al sicuro.
Sentivo
i passi di quelle figure, farsi sempre più vicini, volevo entrare, ma, mi serviva un codice, e alla
svelta. Inserii sul tastierino accanto alla porta,
una combinazione di numeri a caso. Il primo tentativo andò a vuoto. Digitai un
secondo numero, ricavando però lo stesso risultato. Quante probabilità avevo di azzeccare la combinazione esatta?
Una su un milione! Praticamente impossibile!
Poi, ebbi un attimo
d’incertezza. Sfilai lo zainetto dalle spalle, lo aprii ed afferrai un piccolo
astuccio di stoffa. Infilai le dita all’interno, ed estrassi un taccuino. Si
trattava della lista completa di codici che mio padre adoperava
quando lavorava presso L’Umbrella, per
accedere alle camere blindate. Nella grande azienda, a
differenza dello zio, lui era uno scienziato, e si occupava di tutto il
materiale da esaminare, controllare ed archiviare, nei vari esperimenti
prodotti dall’ente di bioingegneria.
Iniziai a sfogliarla
rapidamente, fino a trovare la pagina riguardante quel settore. Il fruscio di
suoni lamentosi si faceva sempre più assordante, tanto da farmi
perdere la concentrazione. Divorai con lo sguardo i vari numeri delle camere
fino a trovare il codice della stanza numero 127.
Digitai in fretta quella serie di cinque numeri, e poi provai a spingere la
porta.
Non si aprì.
Il cuore danzava un
ritmo tutto suo. Non potevo più controllarlo. L’angoscia s’impadronì dei miei
movimenti, le dita diventarono rigide, provai ancora una volta, più lentamente,
respirando più lentamente. Numero dopo numero, tasto dopo tasto il polpastrello
del mio indice sudato, tremava. E
poi…L’uscio si aprì. Non ci speravo più.
Scattai all’interno
con il cuore in gola, richiusi istantaneamente la pesante porta d’acciaio, e mi
accasciai a terra, in preda allo sconforto. La massa senza vita che mi stava
alle calcagna, inforcò il corridoio, li sentii strusciare lentamente vicino
alla porta blindata. Iniziai a respirare affannosamente, mi
rannicchiai al suolo, pregando. Continuarono il loro cammino, gli
esseri, procedendo nel corridoio, e, solo quando si furono allontanati, il mio
corpo sprofondò in uno stato di rilassatezza. Scoppiai quasi a ridere, ero
ancora viva, possibile? Scossi il capo toccandomi il volto, i capelli, e infine
la giacchetta di lana, che accarezzò le mie dita con la sua morbidezza. Nonostante tutto, ero lì, viva. Viva ma, per quanto tempo
ancora? Mi drizzai su. Cercai di fare mente locale, di analizzare ogni minima
stranezza, o soluzione. Nulla mi portò alla risposta sperata. Possibile che
fosse una candid camera? In altre situazioni, forse sì,
ma tutto era troppo reale, troppo perfetto e spaventoso per poterlo essere.
Quando sollevai il capo volgendo gli occhi alla
stanza, ci fu la sorpresa.
Alquanto gradita.
Un telefono, sul
tavolo proprio di fronte alla porta, mi fece sorridere.
Mi alzai
affannosamente, afferrandolo. Cominciai a comporre il numero di mio padre,
l’unico che ricordai in quel momento, con il sorriso
stampato sulle labbra. Quando terminai la serie di
numeri, sentii il primo squillo. Con l’aiuto del mio papà, e soprattutto la sua
voce calma e rassicurante, mi sarei sicuramente tranquillizzata. Battei sul
pavimento il piede destro, con frenesia. Fremevo in una risposta. Volevo mio
padre, avevo bisogno della sua presenza, così come desideravo uscire da lì, al
più presto possibile. Non pensavo ad altro. Volevo ad ogni costo abbandonare
quel posto.
Saettai lo sguardo in
aria, impaziente come sempre, e al quinto squillo ci fu segnale di risposta.
Inarcai la fronte,
stavo per gridare “papà” quando la linea venne meno.
Mi si fermò il fiato,
e le parole soffocarono in bocca. Un senso di vuoto mi riempì lo stomaco, di
certo non per fame, ma per delusione.
Riattaccai subito,
riprovando rapidamente a comporre il numero, ma stavolta la linea del telefono
non diede nessun segno. Feci nuovi tentativi, continuando a pregare. Quel
telefono era troppo importante per me, non potevo
arrendermi.
Un’altra delle cose
che caratterizzano il mio carattere è senz’altro l’impazienza. Sono un tipo
piuttosto impaziente, difficilmente riesco a resistere quando
si tratta di ricevere qualcosa, oppure di partire per un viaggio, o ancora di
ricevere una visita, una risposta…
Dopo molteplici
sforzi, capii che l’intero sistema telefonico della
struttura, era oramai fuori uso. In preda alla rabbia, diedi un calcio al
tavolo, facendolo tremare. Ero al sicuro tra le quattro mura di una camera di
sicurezza senza uscita, eccetto quella principale, che per nessuna ragione avrei più riaperto.
A quel punto, non
sapevo più che fare. Mi guardai intorno, spaesata. L’ambiente era freddo, quasi
spoglio di calore. C’erano due librerie piene di libri, fascicoli e fogli di
carta, messe una accanto all’atra. Mentre sulla parete
opposta, si trovava una piccola vetrinetta contenente microscopi di nuova
generazione, microscopi a forza atomica, microtomi, bisturi e derivati vari. Una marea di materiale assai utile nelle ricerche e
sperimentazioni, ma nulla di sufficientemente concreto per me. O quasi.
Precisamente, la mia
attenzione cadde sul computer riposto sopra il tavolo, poco lontano dal
telefono senza linea.
Scostai la sedia dalla
grande scrivania, e decisi di sedermi proprio davanti al monitor.
Di solito, gli
scienziati o i ricercatori dell’Umbrella, ricopiavano
i testi più importanti o le ricerche più riservate, all’interno dei numerosi
computer al servizio della compagnia. Una volta creata la password, accedere alle informazioni riservate, diventava pressoché
impossibile, eccetto per una come me, s’intende.
Sono cresciuta usando
il pc di mio padre. Uno dei primi modelli, che lui
col passar del tempo, aveva sostituito con qualcosa di più tecnologico. Mi
reputo un’esperta nell’uso di queste potenti macchine, anche se spesso e
volentieri, ci litigo frequentemente a causa di piccole incomprensioni che
accadono con l’utilizzo quotidiano di questi cervelli elettronici.
Avendo accesso ai file protetti dell’Umbrella,
sicuramente sarei riuscita a capire la causa di quel raccapricciante scempio di
persone, avvenuto poche ore fa nell’Alveare sotterraneo. Ovviamente non speravo
che la tragedia fosse dipesa proprio dall’Umbrella ma… un qualcosa nella mia mente mi suggeriva di indagare.
Senza indugiare,
spinsi il bottone d’accensione posto sul davanti della macchina, e lo schermo
cominciò ad illuminarsi.
Saltai quasi dalla
sedia, per la felicità, finalmente una cosa buona e apparentemente funzionante,
poteva forse ridarmi la volontà di continuare a sperare.
Non appena l’intero
sistema si fu avviato del tutto, iniziai la mia
ricerca partendo dalle cartelle meno sospette. Man mano che avanzavo nel
controllo, gettavo di tanto in tanto una fulgida occhiatina al portone per
sentirmi più tranquilla e proseguire.
Tra i vari documenti,
nulla mi apparve pressoché strano. Dopotutto, il materiale importante non
poteva certo trovarsi in fascicoli pubblici, e alla mercè di qualsiasi
dipendente. Alzai il livello di screening, gettandomi
nei meandri più nascosti del sistema. Tra i vari reportage, video e foto, nulla
sembrò colpire particolarmente la mia attenzione. Possibile che l’Umbrella fosse una società “pulita”? Così pulita da
ripulire anche i propri computer? Cercai di riflettere.
Poi capii.
Iniziai a frugare nei
vari cassetti della scrivania. Doveva senz’altro esserci un cd contenente i
progetti più importanti della ditta.
Continuai a frugare
ribaltando i tiretti, senza la benché minima traccia
di quello che stavo cercando.
Mi fermai un attimo,
cercando di comprendere.
Sollevai il capo,
guardandomi intorno. Nulla attirò la mia attenzione. Ripresi la ricerca,
rovistando a vuoto tra i vari scomparti, analizzando attentamente i diversi
oggetti che mi finivano tra le mani, fino a ché un
quaderno per gli appunti, non mi scivolò a terra, sotto il tavolo. Mi chinai in
giù, portandomi a gattoni sul pavimento, e recuperai
il blocco. Nell’alzarmi dal suolo, intravidi una sporgenza proprio sotto il
tetto del tavolo. Poggiai il quaderno a terra, e allungai la mano verso di essa. Sembrava quasi come una toppa di legno, una specie di
tassello incollato alla tavola. Cercai di staccarlo, tirando con forza, e poco
dopo venne via. Esaminai lo strano oggetto, dipinto dello stesso bianco della
piccola scrivania, notando il marchio dell’Umbrella,
grande e imponente, situato sull’angolo destro.
Lo strano tassello,
per certi versi mi ricordò le tipiche custodie per cd, quelle sottili e abbastanza
piatte.
Provai ad aprirlo, un
po’ titubante ma incuriosita. La parte superiore venne via con poca facilità, e
l’interno rivelò un cd-rom completamente sconosciuto. Lo staccai dalla custodia,
rigirandolo tra le dita. Nessuna etichetta o scritta ne specificava il
contenuto o anche solo la marca.
Forse, si trattava del
famoso disco pieno di informazioni segrete?
Per scoprirlo bastava fare
soltanto una cosa: Provarlo.
Lo poggiai nel lettore,
introducendolo all’interno del computer. Il disco cominciò a ruotare
velocemente, e il monitor si colorò di blu.
“Il contenuto di
questo cd è autorizzato unicamente al personale dell’Umbrella
Corporation, pertanto, i dipendenti o chiunque non sia munito di autorizzazione all’utilizzo di tale disco, è
immediatamente obbligato ad interromperne la lettura.”
Disse una voce
computerizzata.
Incurante di tale
messaggio, proseguii nella mia ricerca che però trovò
subito il primo ostacolo.
“Inserire password
per accedere ai file riservati”
Dichiarò la voce
astratta.
La prima parola che mi
venne in mente, fu Umbrella. Troppo facile per una
chiave d’accesso, tuttavia provai lo stesso.
“ Password errata”
Ribatté la voce.
Storsi le labbra, e riprovai
nuovamente, questa volta provando con una nuova parola.
Alveare.
“Password errata”
Ribadì il suono.
Sbruffai pesantemente,
continuando la digitazione di varie parole.
Tutte le volte però
che premevo il tasto d’invio, sentivo lo stesso messaggio di negazione.
“Password errata”
“Password errata”
“Password errata”
Continuai per un bel
po’, abituandomi al suono freddo e diretto della voce elettronica.
Decisi di fare un ulteriore tentativo, e mi preparai ad immettere un nuovo
codice. Accidentalmente però, mi partì il tasto di invio
ancor prima di comporre la parola.
Predisponendomi al solito tono negativo, attesi la sentenza, quasi sicura del verdetto.
“Password esatta”
“Accesso diretto ai file privati dell’Umbrella Corporation”
“Attendere prego”
Disse il segnale
computerizzato.
Sgranai lo sguardo,
puramente sconcertato, e restai immobile.
Nessuna password?! Che trovata geniale! Chi
l’avrebbe mai detto?!
“Benvenuto nella
schermata iniziale”
Enunciò la voce.
Gettai uno sguardo
alle varie sezioni d’accesso, tra cui le sequenze video, che m’incuriosirono
abbastanza da decidere di visionarle. Cliccai
sull’icona video, e mi apparvero una decina di filmati, dalle dimensioni
piuttosto piccole.
Aprii subito il primo,
tralasciando i convenevoli.
Le prime immagini che
vidi, furono una gabbia e dei conigli.
Un uomo in camice
bianco, uno dei numerosi scienziati al servizio dell’Umbrella,
iniettò una sostanza bluastra sulla spalla destra
dell’animale etichettato dal numero 18, dopodichè la proiezione terminò.
Non capii bene il senso di quelle immagini, così passai
appresso.
Lo stesso coniglio,
questa volta fu sottoposto ad alcuni test, da parte mia sicuramente
incomprensibili, in seguito, dopo poco venne rinchiuso
in una gabbia, isolato dagli altri esemplari.
Aprii il terzo.
Una siringa piena di
liquido verde, penetrò sullo stesso coniglio protagonista
degli alti due filmati, e, una volta terminata l’iniezione, l’animale fu
reintrodotto nel recinto gremito di conigli interamente bianchi. Andai avanti
esaminando il resto dei video, la maggior parte simili ai precedenti.
Chiusi la sezione dei
filmati, lasciandomi dietro la perplessità, ed entrai in una nuova cartella
contenente un unico documento audiovisivo.
Lo aprii. Partirono
delle immagini, dopodichè apparve il marchio della famosa azienda di
bioingegneria, e ritornò la stessa voce computerizzata, che m’introdusse nella
ripresa.
“Il T-virus è in grado di rianimare le cellule morte di ogni singolo individuo che deciderà di sottoporsi
all’iniezione del farmaco. Tale prodotto è capace di risvegliare l’organismo,
riportandolo al pieno della sua funzionalità, sia esteriormente che internamente. Il T-virus è
considerato un’elisir di
giovinezza, capace di ripristinare ogni tessuto o cellula invecchiata.
Il T-virus è considerato una potente cura verso alcune forme
di malattie rare o difficilmente curabili. L’Umbrella
ha creato in massicce quantità, una gran dose di fiale, capace di distruggere o
ripristinare qualsiasi forma di organismo. Tuttavia,
il prodotto è ancora in fase di sperimentazione.”
Quando il suono si concluse, iniziarono le prime sequenze.
Quello che vidi, fu
terrificante. Il terminale mostrò vari esperimenti condotti da diverse equipe
di scienziati, alle prese con poveri animali, sottoposti ai test più orribili e
disdicevoli che questo mondo potesse sviluppare. Mutazioni o combinazioni tra
specie di topi o insetti diversi, alterazioni forzate del dna di una scimmia,
creazioni di piante artificiali, dalla struttura robusta ma filiforme,
creme per il viso, per il corpo… tutto ricavato da questi tremendi
esami. Provai subito disgusto, e mi toccai il viso. Anche
io, come tante altre persone, usavo una crema dell’Umbrella.Mi
venne quasi da vomitare. Mi portai una mano alla bocca.
Rimasi disgustata e delusa.
La delusione fu il primo sentimento che mi avvinghiò. Sentii il futuro
sbriciolarsi tra le mani, svanire.
Possibile che l’Umbrella Corporation nascondesse
un simile arsenale di variazione genetica?
Forse, quelle persone
lì fuori erano impazzite a causa di qualche esperimento fallito? Qualche
procedura errata, o chissà cos’altro di orribile…
Scossi la testa. Azzardai centinaia di ipotesi, tutte
folli, ma fattibili da quanto appena visto.
Iniziai a pormi mille
domande. Dov’era mio zio? E i membri della S.T.A.R.S.?
Sarebbero intervenuti? Mi avrebbero liberato? Sarei riuscita a fuggire, oppure
sarei diventata anch’io una cavia da esperimento?
Una cosa era certa… non avrei più studiato per lavorare all’Umbrella.
Continuai a leggere i
documenti contenuti nel dischetto, decisi di farne una copia, e cominciai a
frugare tra i vari armadietti, alla ricerca di qualche cd vuoto.
Dopo
averlo trovato, iniziai il procedimento di back up, che terminò poi in pochi
minuti. Nel frattempo, lanciai
un altro sguardo alla porta. Spinsi il pesante tavolo, posto al centro del
salone, in direzione dell’entrata, fino a sbarrarla del tutto. Abbassai la
sbarra di ferro utilizzata per sigillare ulteriormente la porta, e ritornai in
direzione della piccola scrivania. Ora sì che stavo al sicuro!
Ripresi entrambi i
dischi, li infilai nello zainetto. Una copia sarebbe finita nelle mani di
qualche persona competente, mentre l’altra l’avrei
regalata a mio padre, per poterla esaminare con attenzione. Ero più che sicura
che lui, anche se scienziato, di quella orripilante
questione non ne fosse a conoscenza.
A quel punto, e vista
la situazione, decisi di scrivere. Il piano brulicava di esseri
dalle manie omicide, non potevo uscire dalla stanza blindata, ero al sicuro, ma
intrappolata in quattro mura.
Afferrai
la tastiera, e così, iniziai
il racconto.
Questo è tutto. È
passata circa un’ora, da quando ho cominciato la narrazione.
Lì fuori tutto è tranquillo. Apparentemente tranquillo. La fame si fa sentire,
più che altro è la tensione nervosa a provocarmi questa reazione.
Io non ho più nulla da
aggiungere, in questo scritto ho racchiuso ciò che penso, le mie paure,
angosce, la vergogna che provo per una società all’apparenza carina e
innocente, ma che nasconde la verità occulta nei meandri più profondi delle sue
fondamenta.
Spero che questa
lettera riesca a fermare l’Umbrella Corporation, spero che la mia testimonianza possa fermare
un’industria che poco alla volta, sta rivoluzionando la vita umana, spero che
io riesca ad uscire da questo posto, ed inviare la mia deposizione alle giuste
persone. Desidero poter riabbracciare la mia famiglia e ripren………………………………………………………………………...
- Cosa…?!- esclamò Alyson osservando il monitor del computer, in preda a un calo d’energia. Fu lesta di mano a salvare il file prima che il sistema intero non venisse meno.
Il pc si spense così come le luci e l’intero apparato elettrogeno.
Il sistema di sicurezza della camera blindata si disattivò, sbloccando in questo modo pericolosamente la porta.
-
- Non vedo nulla! Maledizione!- disse iniziando a rovistare nei cassetti adiacenti alla piccola scrivania. Riuscì ad intravedere un oggetto dalla forma lunga e tonda, paragonabile quasi ad una torcia tascabile. Lo afferrò mettendolo subito in funzione. Un fascio di luce saettò brillantemente per la camera. Quel posto faceva ancora più paura se illuminato dalla flebile luce di una pila elettrica. Alyson si avvicinò silenziosamente alla porta, con il cuore in gola. Raccolse lo zainetto da terra, caricandolo sulle spalle. Non aveva nessun senso restare chiusi lì dentro, protetti solo da una spranga di ferro e un tavolo, senza energia elettrica che bloccasse il pesante portone. Infilò la pila tra i denti, liberando così la mano destra, che utilizzò poi per spostare il tavolo.
Tirò il più lentamente possibile, stando attenta a non causare il benché minimo rumore. Una volta creato il giusto varco sufficiente a permetterle di passare, aprì la soglia, gettando il fascio di luce all’esterno.
Saettò lo sguardo nelle possibili direzioni, con fare assai prudente. Si adagiò una mano in petto, mentre un forte senso di calore le assalì il corpo.
Deglutendo silenziosamente, la ragazzina fece il primo passo.