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Autore: aduial    31/10/2014    3 recensioni
Ultimi pensieri di chi si rende conto di aver trascorso una vita vuota. Ultimi pensieri di chi annega nel rimpianto. Ultimi pensieri di una condannata a morte.
Partecipa al contest "Peppa in reverse" indetto da Giuns sul forum di EFP .
Sesta classificata e vincitrice del premio poetico al contest "Momenti&Emozioni" indetto da DonnieTZ sul forum di EFP.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La morte si sconta vivendo

 
Le catene stridevano, strisciando sul freddo pavimento di pietra. La presa sulle sue braccia era decisa, dolorosa. Sicuramente, presto, lividi violacei sarebbero sbocciati sulla sua pelle candida, lì dove le dita dei soldati premevano più forte. Ma non un gemito, non una protesta era uscita dalle sue labbra e, anche in quel momento umiliante, avanzava sicura, a testa alta e con lo sguardo fiero fisso avanti a sé. Mai si sarebbe piegata davanti a quei bruti che trascinavano il suo corpo senza alcun riguardo. Si fermarono di fronte a una cella uguale a tutte le altre. Un uomo si alzò dallo sgabello su cui era seduto, avvicinandosi alle due guardie. Poi fissò lo sguardo sulla donna. Alla luce tremolante delle fiaccole, lei riuscì a scorgere un viso che forse un tempo era stato bello, ma che, in quel momento, era segnato dall’età e dal vizio, nonché orribilmente sfigurato da una cicatrice che lo attraversava completamente. L’uomo sorrise, concentrandosi sulla pelle di porcellana e sui capelli scuri che incorniciavano quel viso incantevole. Al vedere quello sguardo viscido su di sé, la donna sentì un brivido di disgusto attraversarle la schiena.
«Bene, bene, bene. Che cosa abbiamo qua?»
«Una traditrice. Verrà impiccata domani all’alba.» rispose sbrigativamente uno dei soldati che l’avevano scortata.
«Quindi trascorrerà qui tutta la notte?» chiese l’uomo, continuando a osservare la giovane che gli stava davanti e allungando una mano per toccarla. L’altro soldato gli afferrò il braccio, impedendo quel contatto che l’altro tanto agognava. «Il re ha ordinato che nessuno la tocchi e tu conosci la pena per chi disobbedisce al re.»
Il carceriere si voltò borbottando, visibilmente contrariato, per afferrare le chiavi appese a un gancio lì vicino. Aprì la cella che le era stata destinata e i due soldati, dopo averla liberata dalla catene, la spinsero dentro con malagrazia, chiudendo la grata con un tonfo. Poi si allontanarono, lasciandola con l’unica compagnia del silenzio.
 
Finalmente sola, la donna si concesse un attimo di debolezza, lasciandosi scivolare lungo la fredda parete di pietra. L’odore penetrante di muffa la aggredì, avvolgendola nel suo abbraccio soffocante, insinuandosi tra le pieghe dei suoi abiti, fin sotto la pelle. Un’unica lacrima cristallina le solcò la guancia, perdendosi poi nell’oscurità della cella, al ricordo di come tutto era cominciato. Anche allora c’era odore di muffa…
 
Correva a perdifiato, mentre calde lacrime le scorrevano sulle guance. Non vedeva dove stava andando a causa del velo opaco ce le era sceso sugli occhi, ma proseguiva, nel vano tentativo di soffocare quel dolore che le bruciava nel petto. Sua madre era morta. L’unica persona che le rimaneva, l’unica che era stata al suo fianco per tutta la vita, non c’era più. L’aveva lasciata, abbandonandola tra le grinfie di un mondo ingiusto. Ingiusto perché i poveri non avevano la possibilità di inseguire e vedere realizzati i loro sogni, mentre i ricchi si ingozzavano e affogavano pian piano nella loro opulenza.
Uno sbuffo di vento la riscosse dai suoi pensieri, sopendo per un attimo la sua rabbia. Si rese conto di essersi allontanata molto dal villaggio e già il velo della sera si stendeva sulla campagna, tingendo ogni cosa con i suoi foschi colori. La temperatura era scesa e lei indossava solamente il povero abito di mussolina che la madre le aveva cucito l’inverno precedente. In lontananza vide un casolare e lo raggiunse, sperando di trovare riparo al suo interno. Timorosa, entrò, immergendosi nell’oscurità liquida che riempiva la costruzione. Un pesante odore di muffa permeava l’aria e la fece tossire ripetutamente. Poco a poco i suoi occhi si adattarono al buio, permettendole di scorgere una massa inquietante. Come richiamata da una forza ancestrale, le si era avvicinata, tendendo una mano nel tentativo di capire cosa fosse.
«Te lo ricordi?»
Una voce profonda e un lampo luminoso e improvviso. Aveva chiuso gli occhi, feriti da quella luce inaspettata, poi si era voltata di scatto, terrorizzata. Alle sue spalle c’era un uomo alto, non imponente, ma che emanava un’autorità e una sicurezza sconvolgenti.
«Te lo ricordi, Alice?» chiese di nuovo, accompagnando la domanda con un ampio gesto del braccio. Lei si era girata verso quella che prima ero solo un’inquietante massa scura e un inconsapevole sorriso le era sbocciato sulle labbra. Aveva immediatamente riconosciuto il vecchio teatro dei burattini che giungeva al villaggio una volta all’anno e attirava i bambini come il miele le mosche. Era l’unico giorno in cui nobili e contadini sedevano l’no accanto all’altro. Quante volte aveva guardato con invidia i vestiti ricamati delle figlie delle dame, sperando di poterne indossare uno uguale! Quante volte aveva confrontato le scarpine di raso con i propri zoccoli duri e incrostati di fango, vergognandosene profondamente! Troppe per saperlo dire con certezza. Eppure, quando il vecchio proprietario spariva dietro al piccolo teatro e iniziava il suo spettacolo, ogni differenza,ogni problema veniva dimenticato e tutti i bambini si incantavano a seguire le storie. Perché, nonostante le diversità di ceto, di condizione, d’abito c’era qualcosa che li accomunava tutti: erano bambini.
L’uomo le si era avvicinato con passo felpato, per poi porgerle la mano con eleganza.
«Vieni con me.»
 
L’uomo l’aveva condotta con sé e si era rivelato essere colui che in tutto il regno era conosciuto come Ombra, il più grande sicario che fosse mai esistito. Nessuno era mai sopravvissuto ai suoi colpi e nessuno poteva dire d’averlo mai visto in faccia. Lui sapeva sempre quando qualcuno aveva bisogno di lui e si faceva trovare nella casa del suo potenziale cliente, rigorosamente a volto coperto, per discutere i termini dell’affare. Ombra l’aveva presa in custodia, per poi addestrarla e in breve tempo la sua fama aveva superato quella del maestro. Così era nata la Rosa Nera.
Poi era giunta la più grande possibilità della sua vita: uccidere il Re in persona. Se fosse riuscita in una simile impresa sarebbe entrata nella leggenda e tutti avrebbero conosciuto il suo nome. L’ambizione e la superbia l’avevano spinta ad accettare senza pensare alle conseguenze. Aveva quindi deciso di infiltrarsi a corte, facendo sì che la Regina la accogliesse tra le sue dame di compagnia. Non era stato difficile, grazie alla sua bellezza angelica che ispirava fiducia in chiunque la guardasse, alla sua grazia naturale e alle buone maniere che Ombra le aveva impartito.
Man mano si era guadagnata la fiducia della Regina, consigliandola sempre sulle decisioni da prendere. Così le altre dame erano state cacciate, dipinte come sgualdrine senza morale dalle subdole parole di Alice. La sua voce era veleno che, goccia a goccia, intossicava l’animo della sovrana e la irretiva, portandola a esaudire ogni desiderio della giovane.
 
Da lì guadagnarsi la fiducia del Re era stato semplice. Prima con quelle parole, all’apparenza dolci come il miele, poi concedendogli il suo corpo nella soffocante intimità della camera regale, tra i pesanti tendaggi e le preziose lenzuola. Dopo pochi mesi il sovrano era un burattino tra le sue mani, come quelli che andava a vedere da bambina. Tutto il suo divertimento stava nel tirare i fili e vedere i regnanti ballonzolare goffamente, persi nei suoi occhi, scuri e innocenti, che si abbassavano con finta umiltà al loro cospetto.
 
Un rumore la distrasse e la indusse ad avvicinarsi alla pesante grata. Si aggrappò al ferro, percependo il freddo del metallo morderle le dita e cercò di individuare l’origine di quel rumore che aveva attirato la sua attenzione. Vide due soldati trascinare un prigioniero che si dimenava convulsamente, cercando di liberarsi. «Sono innocente!» continuava a gridare. Lo condussero in un altro corridoio, ma l’eco del suo ultimo urlo continuò a risuonare tra le celle, fino a spegnersi completamente. Alice si strinse le braccia al corpo, tentando di cacciare il freddo che iniziava a intorpidirle le membra. Innocente. Lei non aveva mai potuto vantare una simile qualità.
 
Poi l’errore. Stregata dal potere che poteva finalmente stringere tra le mani si era rifiutata di portare a termine l’incarico e il suo committente l’aveva denunciata. Era stata sciocca a non pensare ad una simile eventualità, a cadere in uno sbaglio così stupido e banale. L’ambizione l’aveva convinta a studiare un piano più complicato del semplice introdursi a palazzo si notte per tagliare la gola al Re e, alla fine, era stata la causa della sua rovina, della sua caduta.
 
«Gran bel posto, Alice. O forse preferisci Rosa Nera?»
Si era assopita in un angolo fetido, ma quella voce era giunta a ridestarla. Un sorriso amaro le increspò le labbra.
«Maestro.»
Ombra la fissava attraverso la grata. Alice si alzò, ponendosi di fronte a lui con una gemella espressione impassibile dipinta sul volto.
«Non siete qui per salvarmi, vero?»
L’uomo scosse la testa lentamente. «No, Alice. Non si impara dai propri errori, se non si è costretti a pagare per essi.»
La ragazza sentì l’ultima flebile speranza vacillare, per poi spegnersi definitivamente. Rassegnata, chiese: «Dunque perché siete qui?»
«Per salutarti.» le rispose Ombra, per poi chinarsi a posarle un bacio sulla fronte attraverso le sbarre. Un istante dopo era già svanito, rapito dalle ombre di cui era signore.
 
Alice crollò in ginocchio, dimentica di ogni fierezza o contegno. “Morirò.” Fu allora che la paura la colse, dilaniandola nel profondo. Lacrime pesanti le rotolarono sulle guance, simili a un fiume che, rotti gli argini, si riversa sulla campagna. Poi realizzò che non doveva aver paura di morire, perché lei non aveva mai vissuto veramente e questo era molto più terribile. Non aveva fatto nulla per essere felice, aveva solo inseguito sogni vani e impalpabili di gloria, totalmente inconsistenti e privi di qualunque importanza. Non aveva mai cercato il contatto con gli altri, non aveva mai fatto nulla che valesse veramente la pena di essere ricordato. Allora la travolse il disgusto per se stessa. Chi era lei? Solo un ombra che non avrebbe lasciato la minima traccia di sé sulla terra. Nessuno l’avrebbe ricordata con affetto. Nessuno avrebbe pianto sulla sua tomba. Sarebbe stata sola.
 
I soldati la trovarono ancora in ginocchio, le guance segnate dai solchi delle lacrime. La sollevarono di peso, trascinandola via. Della fierezza del giorno prima non c’era più alcuna traccia. Appena usciti, Alice sentì una brezza frizzante accarezzarle il viso e sollevò lo sguardo sul cielo rosato, cosparso di venature rosate. Si preannunciava una bella giornata, con un cielo limpido e terso. La portarono sulla forca e il boia le mise il cappio al collo.
Allora la ragazza sollevò lo sguardo su quello freddo e duro del Re, venuto ad assistere all’esecuzione.
«Ricordo che ai prigionieri viene sempre concesso un ultimo desiderio.»
Il sovrano la guardò con odio, ma, con un cenno del capo, le fece segno di parlare.
«Voglio essere sepolta vicino a un crocicchio e avere una lapide con una frase incisa.» Poi chiese al boia di avvicinarsi, sussurrandogli all’orecchio la frase che aveva scelto.
«E sia.» Le concesse il Re. Poi sentì improvvisamente il vuoto sotto ai piedi e l’aria che le veniva a mancare.
 
Jack era un giovane garzone, incaricato di portare il grano al mulino per farlo macinare. In quell’afosa giornata, decise di fermarsi a riposare su un bel prato, cosparso di fiori colorati e profumati, sedendosi su una bella pietra bianca e levigata, coperta d’edera. L’asino che lo accompagnava accolse con gioia la sosta, iniziando a brucare tranquillamente. Avvicinandosi alla pietra, però, il ragazzo si accorse che vi era scolpito qualcosa. Allora strappò le dita verdi dell’edera che la avviluppavano, finchè non riuscì a scorgere le parole che vi erano incise.
 
“Viandante che leggi queste parole, non fare il mio stesso errore.
Ricorda sempre che
La morte
Si sconta
Vivendo.*”
 
 
*Giuseppe Ungaretti
   
 
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