Disclaimer: i personaggi sono proprietà di Furidate
Haruichi.
Note: mi sento come se avessi
assassinato la mamma di Bambi.
Ambientata post-diploma di Sugawara, Sawamura e Azumane (già di per sé era una
sofferenza, sì.) / in semifinale con la Aobajousai second
version (?) (in sostanza, in pari con le scan al
momento).
Grazie a Nari per il betaggio (L)
Hinata semplicemente non
se ne accorge in tempo.
Si tratta di una disattenzione involontaria, dovuta solo al fatto che Ennoshita
– che ha preso il posto di Sawamura come capitano della squadra – lo ha
chiamato un attimo da parte per chiedergli di alternarsi con Tsukishima nel
prossimo esercizio di muro-difesa, in modo che nessuno dei due si ritrovi
sempre davanti il solito attaccante, ma possano variare. È strano pensare che
il club vada avanti senza i senpai dell’ex terzo anno, ma è una cosa a cui
Hinata ha dovuto abituarsi: avere delle matricole, sentirsi chiamare
“Hinata-senpai”, ritrovarsi a giocare nella stessa palestra anche se non con
(tutti) gli stessi compagni di squadra.
Le matricole non sono malvagie: sono sei, un alzatore, tre attaccanti laterali,
un centrale e un libero con scarsissima fiducia in se stesso – vederlo
allenarsi con Nishinoya rasenta il tragicomico, ma almeno migliora; si stanno
ambientando, chi più e chi meno, e la squadra si impegna per far sì che il
povero neo-alzatore non rimanga sempre solo nelle grinfie di Kageyama.
Hinata non si accorge in tempo di una palla difesa male dal libero più giovane
della loro squadra, che finisce verso il campo e rotola fino a passare sotto
rete. Il primo che alza la voce è Nishinoya, che ha seguito la sfera con lo
sguardo: sbraita un “no” a pieni polmoni che è comunque in ritardo – lo
schiacciatore (Ishida, una delle matricole) ha già
saltato, ma fortunatamente la palla rotola oltre e quando lui atterra, lo fa
sul pavimento stabile. La squadra è immobile, chi con aria spaesata e chi
sollevata; e allora Hinata lo vede, lo conosce troppo bene per non capire al
volo quando Kageyama ha l’istinto omicida, ma l’alzatore è già passato sotto la
rete per marciare contro il loro libero del primo anno.
Gli afferra il bavero della maglia con forza e lo strattona per portarselo
vicino al viso; di tutte le cose che gli urla contro, Hinata riconosce
rimproveri e insulti, forse anche una mezza imprecazione ma a quel punto lo sta
già tirando via, mentre Nishinoya gli grida di smetterla e lo spintona lontano
dal primino che è a dir poco terrorizzato.
Kageyama li guarda male – tutti – e smette, per modo di dire poi, solo quando
Hinata alza la voce e lo scuote con un: «Non si è fatto male nessuno, falla
finita!»
È strano vedere una Karasuno in cui tocca a Hinata calmare Kageyama; è strano
quasi quanto lo è l’assenza dei senpai, di cui nessuno si aspetta mai una
visita.
C’è la squadra, c’è la palestra, ci saranno i tornei, ma hanno comunque perso
qualcosa.
È la manciata di secondi
più lunga della loro vita. Persino il palazzetto dove stanno giocando sembra
ammutolire completamente – il tifo delle due squadre che giocano nel campo
adiacente al loro non gli arriva se non vago, come se avessero insonorizzato
solo il perimetro che li racchiude, ma non li fa sentire né protetti né vicini.
Yamaguchi è certo di non aver mai visto nessuno fare uno scatto con tanta
velocità e nello sguardo tanta preoccupazione come il coach Ukai ha appena
fatto, schizzando verso la parte di campo che ospita la zona due, l’area di prima
linea occupata solitamente dagli alzatori e dagli opposti. Cinque giocatori
della Karasuno stanno in piedi e hanno sbiancato di botto; dalla zona di
riscaldamento dove si trova, Yamaguchi vede bene l’espressione di Hinata e non
gli piace. È quella di uno che ha appena visto la cosa più spaventosa al mondo.
Tutto quello che si sussegue è confuso – Nishinoya corre verso la panchina a
recuperare la borsa medica in dotazione alla squadra, lo sguardo di chi non
vede niente più di quello che ha davanti passo dopo passo; sembra in catalessi
ed è terrificante. L’arbitro scende dalla sua postazione, i membri
dell’Aobajousai sono fermi quasi tutti nelle loro posizioni.
Yamaguchi non conosce Oikawa se non come il capitano della squadra avversaria
che ha un servizio spaventoso, ma l’espressione contrita che gli scorge in viso
gli ricorda quella di quando qualcuno si fa fisicamente male, e non c’è niente
di positivo nemmeno in quello.
Tsukishima al suo fianco sembra allucinato: ha gli occhi sgranati e questo di
per sé non è un buon segno; niente stupisce Tsukki al tal punto, lui lo sa
bene, lo conosce. Ma Yamaguchi non riesce a rendersi pienamente conto, anche se
la prima cosa che li ha allarmati è stato vedere Sugawara accasciarsi per terra
contemporaneamente a un richiamo di Daichi, la voce preoccupata, spaventata.
Tadashi non comprende, ma quel che è riuscito a vedere gli fa pensare allo
scontro tra Sawamura e Tanaka – e anche se lì c’era sangue era tutto a posto,
Sugawara-senpai invece non ha urtato nessuno, nemmeno la persona in attacco
dall’altra parte.
Eppure non si alza, e nessuno si muove, e Yamaguchi capisce davvero che qualcosa non va quando il
coach Ukai si volta verso Takeda-sensei e gli ordina di far arrivare una
barella.
Sono in una sala d’attesa
e a vederli tutti lì, in tenuta da partita, li rende ancora più fuori luogo in
un ospedale. Solo la loro squadra occupa il corridoio e lo fa sembrare ancora
più affollato: alcuni hanno fatto a turno ad andare in bagno, per rimpiazzare i
pantaloncini con i pantaloni lunghi della tuta o per togliersi di dosso almeno
la maglietta sudata della divisa – quasi tutti sono stati praticamente
obbligati con quanta più gentilezza possibile da Takeda, su richiesta di Ukai
che ha invece seguito Sugawara al piano superiore per le lastre e chissà cos’altro.
Sono tutti in silenzio, quando Ukai li raggiunge di nuovo; ha lo sguardo di chi
non sa bene come dire qualcosa, perché le parole saranno comunque pesanti, e
intanto stringe i pugni lungo i fianchi sentendosi responsabile pur conscio di
non esserlo. Impiega diversi istanti, nonostante riceva più di un’impaziente
esortazione da suoi giocatori. È Daichi che fa la domanda più scomoda, non un
“come sta”, ma qualcosa di molto più pesante che gli fa tremare la voce e rende
difficile non abbassare lo sguardo.
«Si riprenderà?» domanda questo. Ha un peso tutto
diverso, è più di un macigno in pieno stomaco; Ukai lo guarda stare con la
schiena dritta e lo sguardo nel suo, i compagni dietro di lui che sono già
increduli per le parole del capitano, figurarsi se sono pronti alla risposta.
Ma Keishin sa di non poter rimandare, di non poter indorare la pillola
esattamente come non può cambiare le cose – sono cose che succedono, a volte,
ma non è mai una consolazione saperlo. Può solo allungare una mano portandola
sulla spalla di Sawamura e scuotere la testa.
E vedere quanto poco serve, in fondo, a mandare in pezzi le persone.
Kageyama è convinto di non
essere mai stato così: in un limbo a metà tra coscienza e non, in cui
percepisce distrattamente che qualcosa si muove intorno a lui ma non identifica
cosa perché non ha davvero importanza. Come se i suoi sensi archiviassero quasi
tutto come irrilevante, e bloccassero il suo cervello prima che questi possa
registrare tutte le informazioni.
È seduto su una di quelle sedie di plastica scomodissime, il freddo del
corridoio che gli fa salire un brivido lungo la schiena; passa quasi
inosservato, i gomiti poggiati sulle proprie gambe e le mani strette tra loro.
Ha allentato la presa di poco, dopo che Takeda gli ha posato gentilmente una
mano sulle sue. Tiene lo sguardo basso perché, per la prima volta, non crede di
poter sostenere lo sguardo dei senpai; non crede di poter sostenere lo sguardo
di nessuno – non di Hinata, che sembra in trance
da quando Ukai ha scosso la testa alla domanda di Daichi; non di Sawamura, che
è scivolato su una sedia chiudendosi nel mutismo; non di Asahi, che gli sta
accanto con un silenzio carico di troppe cose; non di Nishinoya né di Tanaka,
che tremano ancora di rabbia e frustrazione e che è un vero miracolo se non si
sono rotti una mano con un gesto sciocco come dare un pugno al muro, che Tobio però non avrebbe mai potuto biasimare.
Sente lo stesso nervosismo scorrergli nelle vene e fargli tremare le mani, ma
ancora di più avverte una morsa chiudergli lo stomaco e un nodo stringergli la
gola così tanto che anche respirare lentamente gli sembra impensabile. Continua
a ripetersi: “se solo non fossi uscito”
come un mantra, le immagini degli ultimi punti prima dell’infortunio di
Sugawara in testa.
Probabilmente non se ne andranno mai più, pensa. Il set che si fa tirato, Tsukishima
all’ultima rotazione prima di passare in seconda linea, un punto di Asahi, Tsukishima
in battuta, Hinata dentro e Nishinoya fuori, Sugawara al lato del campo con la
paletta con il numero nove a chiamare il cambio su di lui.
Sugawara che sorride e si raccomanda con lui di riprendere fiato, le
indicazioni di Ukai per il suo rientro – solo un break e poi rientrerà, e invece quei pochi punti bastano e Sugawara
è a terra ed è il panico totale.
Tobio non è mai stato il tipo di alzatore che accetta
di buon grado una sostituzione. La prima volta che Sugawara ha fatto il cambio
con lui, a Kageyama era subito tornata in mente quella partita delle scuole
medie in cui aveva compreso come, in fondo, un alzatore non fosse niente senza
la squadra, esattamente come una squadra non poteva andare avanti davvero senza un regista. Poi alla
Karasuno ha compreso che non sempre essere messo in panchina significa essere
stato lasciato indietro dalla squadra, o non essere più necessario; ora però si
sente come se in quell’unica sostituzione ci fossero tutte le sue pecche.
Se fossi stato più affidabile è un
pensiero martellante e continuo, doloroso, il primo di troppe frasi che
iniziano per “se” e che in comune hanno qualcosa che non è stato quando avrebbe
dovuto.
Abbastanza. Non è stato abbastanza.
E quello è il risultato.
Asahi ha ancora la
sensazione di stare stringendo la spalla di Noya,
anche se il libero è ben lontano da lui al momento; Asahi ha poggiato la mano
sulla sua spalla e ha stretto per dare un monito, o forse per fermarlo, o
magari aveva solo bisogno di appigliarsi e non cadere. E Nishinoya è sempre
stato uno dei suoi appigli insieme a Sugawara: ha pesato così tanto su entrambi
e per talmente tanto tempo, che se torna indietro all’anno precedente e esclude
il periodo in cui è scappato dalla palestra come un codardo, non ricorda una
sola volta in cui i due non abbiano cercato di confortarlo e sostenerlo – anche
Daichi, certo, ma per ruolo i due si sono sempre ritrovati più coinvolti.
Ora Asahi è fermo in piedi, stringe di tanto in tanto la mano che sente formicolare
appena, tiene lo sguardo sul pavimento. Forse si aspetta di essere inghiottito,
o che quello sparisca e lui precipiti nel buio per poi svegliarsi di
soprassalto da quel sogno-non-sogno che fanno tutti
almeno una volta nella vita. Invece il pavimento è solido sotto i suoi piedi,
non gli fa la cortesia di causargli un risveglio che sarebbe più che gradito.
Asahi non riesce davvero a sbirciare in direzione di Daichi, né a sedersi
vicino a Kageyama. Questa è la situazione in cui Suga saprebbe cosa fare.
Poserebbe una mano sulla spalla di Daichi non per essere supportato ma per
supportare; si piegherebbe sulle ginocchia per essere allo stesso livello di
Hinata e gli scompiglierebbe i capelli, perché Koushi è sempre portato a quel
pizzico in più di dolcezza, con lui; darebbe una pacca sulla spalla a Kageyama,
perché Tobio non è il tipo da aver bisogno di un
gesto affettuoso e non hanno ancora la familiarità per una stretta significativa
senza il bisogno di parole, come invece funziona con Daichi.
Ci vorrebbe Sugawara, e come nei libri e nei film dalla trama fin troppo
prevedibile, Koushi non è lì perché è per
lui che loro sono in quello stato. Dovrebbero essere la forza, invece sono
l’anello debole – Asahi sa riconoscere bene quella sensazione, è stato il
codardo quando avrebbe dovuto essere quello su cui contare, e nonostante tutto
certe cose non te le scrolli mai di dosso.
Forse, pensa, se solo lui non avesse fatto pesare tutto su Sugawara contro
quella partita con la Datekou, l’altro non si sarebbe
sentito in dovere di dimostrare niente, di andare oltre il limite; Asahi crede
che si sia trattato di quello, ed è qualcosa così poco da Sugawara che non può
fare a meno di pensare che se ci sono stati allenamenti troppo faticosi, se ci
sono stati salti in più e stanchezza accumulata nei muscoli e nelle gambe,
qualcuno debba avercelo spinto.
Lui, Azumane, non si è mai sentito il centro del mondo; eppure ora si sente il
primo passo di un cammino fatto di colpe inespresse e passate quasi sotto
banco. Non può fare a meno di credere che doveva evitarlo.
Non sa come, sa solo che doveva – colpevolizzarsi è il modo più facile che gli
atleti hanno di dare una spiegazione logica a quello che logico non è mai.
Succede, e basta.
Nella mente di Hinata
quanto accaduto non ha il minimo senso.
Lui non ricorda nemmeno più quante volte sia caduto, abbia rotolato, sia finito
contro un muro o faccia contro il parquet da quando gioca a pallavolo. Non lo
ricorda con precisione perché è successo così tante volte che tenere il conto
sarebbe stato impossibile; ha una certezza, però: non si è mai fatto male, mai
sul serio. Non importa quanto errato fosse stato il tuffo in avanti (con tanto
di pallone miseramente mancato), quanto rocambolesca fosse stata l’azione che
lo aveva sbilanciato fino a cadere e rotolare. Hinata si è sempre rialzato
senza troppi danni, niente più che bernoccoli in effetti. Dolori momentanei,
quasi sempre completamente offuscati dall’adrenalina che aveva in corpo, da una
partita troppo importante per preoccuparsi di qualche graffio, di un punto per
cui era valsa la pena tutto quello che aveva fatto e ogni respiro buttato fuori
anche quando i polmoni sembravano bruciare.
Non ha senso, per lui, cadere e non rialzarsi; persino il capitano si è tirato
su dopo quello scontro con Tanaka. Per questo non ha capito subito quando
Daichi ha gridato il nome di Sugawara, o quando si è reso conto che l’altro era
a terra.
Invece Sugawara era curvo su se stesso, la schiena scossa dal tremore.
Nella mente di Hinata quanto accaduto non ha il minimo senso: Sugawara è una
delle persone più gentili che conosca, il senpai che gli ha sempre dato
sostegno quando ne ha avuto più bisogno, il compagno di squadra che più di
tutti gli altri ha messo a disposizione la propria esperienza e le proprie
conoscenze, per quanto infinitesimali fossero i dettagli su cui dispensava
consigli.
E ora il coach Ukai ha richiamato solo il capitano della loro squadra, e a Shouyou non piace perché – nel suo trovare assurda tutta la
situazione – capisce da solo che non è un buon segno. Dovrebbero esserci
sospiri sollevati e qualcuno che dice che è tutto a posto, che anche se è
sembrata una brutta caduta in realtà non era niente e Sugawara li raggiungerà
presto.
Non dovrebbe esserci Sawamura Daichi che stringe i pugni e avanza con lo
sguardo di chi si sente pronto al peggio.
E Hinata si chiede se tutte le volte che Sugawara lo ha aiutato e sì, forse
anche viziato a modo suo, lui non abbia sempre – per quanto involontariamente –
fatto sentire il senpai non all’altezza; lui e la sua spasmodica ricerca delle
alzate di Kageyama, lui e la sua scarsa tecnica che più di una volta hanno
fatto pronunciare a Sugawara scuse che non gli doveva affatto.
“Scusami Hinata, io non so fare alzate
come Kageyama”.
Gli risuonano nelle orecchie e vorrebbe solo chiedere scusa perché lui, non è capace di attaccare
autonomamente senza che Kageyama vada incontro alle sue pecche.
Daichi ha seguito Ukai per
il corridoio fino alla stanza dove hanno fatto sistemare Sugawara.
Non è pronto a entrare, non è pronto per vedere il suo vice, non è pronto per
quella verità che gli è stata già sbattuta in faccia ma che finirà con il
colpirlo anche in pieno petto e sommergerlo, se sarà nella stessa stanza del
compagno.
Ma entra lo stesso: lo fa per Kageyama che ha scosso la testa senza nemmeno
alzare lo sguardo quando Ukai ha chiesto chi volesse andare da Sugawara; per
Hinata che ha mosso un passo e poi si è fermato come se non si sentisse nemmeno
degno di farne altri; per Asahi che non si è mosso da quando Nishinoya è
sfuggito alla sua presa.
Lo fa per Koushi, perché crede di dovergli tutto e perché non sarà lui ad
abbandonare l’altro quando – crede – ce n’è più bisogno.
Sugawara ci prova a sorridergli, è la prima cosa che Daichi nota: è seduto su
un lettino anonimo, il pantalone della tuta tenuto ai propri piedi e addosso
ancora la divisa da gioco, la giacca della Karasuno posata sulle spalle. Quando
sente la porta aprirsi si volta e Sawamura legge tanta di quella incertezza e
voglia di non vedere nessuno, negli occhi dell’altro, che è tentato di tornare
indietro; invece Koushi gli sorride, ci prova ad abbozzare un incurvarsi di
labbra che somigli vagamente alle sue solite espressioni gentili.
Per un attimo Daichi ci crede. Sente i muscoli del propri viso tendersi in un
accenno di sorriso che vorrebbe essere rassicurante, caldo, e fa qualche passo
in avanti.
Non si aspetta di vedere Sugawara quasi piegato su se stesso, di vederlo
tremare; non si aspetta le mani che stringono il bordo del lettino e il
lenzuolo ai lati del corpo di Koushi; non si aspetta di vederlo chinare la
testa sconfitto – non vuole vederlo, non vuole vederlo, non vuole vederlo, non
vuole—
Sugawara singhiozza. Lo fa in silenzio, il singulto non arriva alle orecchie di
Daichi ma lo vede: Koushi non ha mai pianto per una difficoltà, lo ha fatto per
la frustrazione e il dispiacere di una partita persa e a un’occasione sportiva
sfumata, ma non per cose come quella. Koushi è il tipo di atleta che non si
lamenta, che stringe i denti. Quella presenza positiva che in campo bilancia l’equilibrio
come se fosse la cosa più facile del mondo.
Vorrebbe mettergli una mano sulla spalla e dirgli che andrà bene, ma non lo fa
perché sa che le cose non possono andare bene davvero. Sa da Ukai che Sugawara
non tornerà sul campo di pallavolo, sicuramente non prima del diploma e questo esclude
già di suo che lo possa fare dopo, sempre che il suo ginocchio glielo conceda.
Daichi non osa fare nulla che non sia stringere i pugni, e sentire le unghie
corte conficcarsi nella carne – è assurdo come un giocatore, alla fine, venga
tradito dal proprio corpo: un ginocchio cede, per un attimo sembra che ti
manchi la terra sotto i piedi, e l’attimo dopo rialzarsi è impensabile.
«Mi dispiace.»
Sugawara gli dice proprio questo: mi
dispiace. E Daichi non ha idea se l’altro si stia scusando perché piange
davanti a lui, o perché dopo quella caduta hanno perso il set, e la partita, e
la possibilità di andare in finale contro la Shiratorizawa
– di nuovo.
Sawamura sa soltanto che Koushi non deve scuse a nessuno; semmai sono loro, che
dovrebbero scusarsi per non essere stati in grado di vincere. Per non essere
stati capaci di togliergli almeno quel peso dalle spalle.
Invece riesce solo a guardare il ginocchio nudo, Koushi che si chiude in se
stesso fisicamente e moralmente, e capisce – in quel momento – che non sono mai
stati così distanti.
Ennoshita ha spedito Kageyama a darsi una rinfrescata fuori dalla palestra;
Nishinoya sta assicurando per la decima volta al libero del primo anno che non
è colpa sua, basta fare più attenzione, i palloni che rotolano per la palestra
possono essere pericolosi.
Hinata è a bordo campo e non serve quasi, ascoltare quello che mormorano tra
loro le matricole riguardo l’accaduto. L’unico che non sta parlando è Miyamura, l’alzatore; è vicino ad un muro e fa dei piccoli
saltelli simulando quelli a rete, per tenersi caldo, le braccia in alto.
A Hinata ricorda un po’ Sugawara: in termini di potenzialità fisiche e
tecnico-tattiche non è che l’ombra di Kageyama e lo sarebbe anche se fossero
coetanei probabilmente. Ma si impegna, in silenzio e con costanza, gioisce di
piccoli miglioramenti ed è un continuo “andava bene l’alzata?”, “Tanaka-senpai, vuoi che l’abbassi un po’?” senza mai
lamentarsi di alcuna ricezione, nemmeno quelle (tutt’ora) terribili dello
stesso Hinata.
Gli si avvicina e gli posa una mano sulla spalla e, quando l’altro si ferma,
gli sorride: «Riposati, quando facciamo pausa.» lo dice con la gentilezza che
ha conosciuto bene e che l’ha guidato, quella che sente di non aver mai davvero
ricambiato in pieno.
Non gli dice altro – non accenna a infortuni, non parla di possibili sforzi che
avrebbero ripercussioni poi, non lo spaventa inutilmente e non accenna a
Sugawara.
Vorrebbe presentarglielo, sarebbe d’aiuto, è sicuro che Miyamura
crescerebbe tantissimo anche solo così.
Ma Koushi, in campo, non è tornato mai.
Sono una persona orribile.
Nonostante credo possa sembrare un poco forzato, che Sugawara non torni più
alla Karasuno, ho figurato il tutto come se non fosse passato poi così tanto
tempo (diciamo che per i miei calcoli Koushi potrebbe aver finito da
relativamente poco la riabilitazione); inoltre credo che da un infortunio
simile e una delusione del genere, chi dà tutto in palestra e sul campo
impieghi molto di più per far pace con se stesso e tornare.
E insomma. Se nonostante la pesantezza fosse piaciuta anche solo un po’, io
sarei felice y_y <3