Genere: one-shot
Autrice: carlottina
Personaggi: Robert Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice: E’ solo una breve riflessione personale…
"sempre"
Il flash della macchina
fotografica mi abbaglia, una volta di più, ed io sono
costretta a stringere gli occhi mentre abbasso il capo.
Che numero di foto sarà? La cinquantesima? Forse la sessantesima... Devo ammetterlo, ho perso il conto. Come se tenerlo servisse a qualcosa.
Quando arrivi tu, i fotografi e i paparazzi perdono il controllo e dimenticano per quel dispettoso attimo, in cui io resto in disparte, la scintilla del buonsenso che dovrebbe guidarli a rispettare ciò che in teoria viene chiamata “privacy”.
È una parola buffa, se ci pensi. “Privacy”... Non senti, il suono che fa? “Pri...va...cy...”.
No, certo che non la senti. E come potresti? Da quando hai impacchettato le tue camice e i tuoi jeans consunti e hai volto l’ultimo sguardo alla tua camera, sapevi perfettamente che, lì, non avresti lasciato solo un mucchio di CD e biancheria... ma avresti abbandonato anche te stesso. Il tuo vero io, scisso in due strappi di anima, uno rinchiuso in un cassetto come medicina, antidoto per il tuo ritorno, se mai fossi tornato... E l’altro, serrato nel cuore, consapevole che l’avresti mostrato solo a pochi nella tua avventura.
È un pezzo di cristallo. Una rosa in bocciolo, troppo fragile e ingenua per essere esposta alla furia dell’inverno degli animi esperti in diavolerie... E tu ci sei finito dritto in bocca come una mosca nella ragnatela di diamanti di un ragno avido di lussuria.
A cosa è servito? È servito a qualcosa? Dimmelo, ti prego. Spiegami...
Me ne sto con le spalle incollate al muro della sala degli arrivi all’aereo porto, qui in Mexico, mentre ti vedo sparire in pochi secondi, il tempo d’un respiro o un battito di ciglia, fra le mani irrequiete di un gruppo impazzito di fans. Che ragazze espansive... Guarda, ti hanno portato anche un sombrero talmente grande che potremmo andarci in barca se mai si decidesse di imparare a remare... Remi tu però, io segno la rotta.
Sembri stanco, ti senti bene?
Segni gli autografi con una velocità automatica che riconosco come innaturale, e la cosa mi terrorizza. Non sollevi nemmeno gli occhi dai fogli e fotografie tue in versione Potteriana e Culleniana, mentre il pennarello scorre lucido sulla carta patinata... Ti chiedono di dedicar loro qualche scatto, abbracciati ovviamente, e tu non rispondi nemmeno. Fai un gesto incomprensibile con la testa e ti appoggi a loro, pronto per il “click” della macchina.
Si. Hai sentito bene, ho detto “ti appoggi a loro...”. Perché vedi, non è un abbraccio, no. Nemmeno un gesto d’affetto... Sai cos’è? È il gesto dell’uomo distrutto, sbattuto fra una copertina e l’altra dei “magazines” più IN del momento, che scende da un aereo dopo almeno tre ore di volo per andare nella città del fuoco per un film da promuovere. È il gesto dell’uomo sfinito. Ti hanno chiesto se sei stanco? O forse ti hanno solo detto “Come siamo felici di averla qui con noi, signor Pattinson”?
Un paparazzo scatta la cinquantatreesima foto e tu sbatti le palpebre cercando di celare la stanchezza che ti afferra per le braccia e ti tira a terra.
Non posso muovermi. Non posso venire lì da te. Non posso parlare ne fare un cenno. Non se non sei tu a volerlo. Appena arrivati, con un’occhiata mi hai detto di attendere in disparte; l’hai fatto per proteggermi? O l’hai fatto perché vuoi gestire la situazione da solo? Fra tutte e due, ritengo che siano scelte decisamente idiote e insensate...
Cosa aspetti a dirmi di raggiungerti? Avanti. Alza quei dannati occhi azzurri e dimmi che vuoi che venga da te! Perché non lo fai?!
Mi sento soffocare. Mi sento torcere lo stomaco e prendere a pugni il cuore mentre assisto all’assalto al tuo metro e ottanta da parte di ragazzine puffo che bramano di toccare almeno un lembo della tua giacca di pelle.
Mi sento bruciare le mani, le braccia e il collo. Ogni punto in cui ti sfiorano, in cui stringono per imprimere in se il disegno del loro idolo. Allontanale, coraggio. Non vedi cosa ti fanno?
Lo so. Lo so... Sono una senza cuore. Loro ti vorrebbero tutto per se. Ti vorrebbero mostrare la loro cameretta e i tuoi mille poster incollati con le graffette colorate alle pareti; ti farebbero sfogliare i loro album di scuola e degli amici, dicendo “Si, questo è carino, ma nulla in confronto a te...”. Sono troppo dura. Ma è più forte di me. Non ci riesco.
Uno dei tuoi body-guards, dannati siano per il loro dolce far nulla, mi lancia uno sguardo tra l’interrogativo e il preoccupato.
Cosa si aspetta che faccia? Che prenda una pistola ad acqua e cominci a sparare sulla folla di galline in corsa? Il mio metro e sessanta non è di gran vantaggio...
Restituisco lo sguardo con un sopracciglio vertiginosamente alzato: o si sveglia e ti tira fuori da quel nugolo di criceti urlanti, o mi metto a strillare.
E grazie a Dio, non è un uomo così stupido come sembra: ti afferra per un braccio e si fa largo fra i dieci bolidi isterici, cercando di portarti verso l’uscita.
A dire il vero, pensavo che l’incubo fosse finito. Ma... non appena incontro il tuo viso sfigurato dalla stanchezza, capisco che non ti avrebbero lasciato andare molto facilmente...
Il body-guard ti guida verso il corridoio dell’uscita, ma ecco che le ragazzine ti sorprendono da dietro una colonna e ti sbarrano la strada, mentre sfoderano un sorriso a trentacinque denti.
Fatemi capire: questo è l’atterraggio di un ragazzo di ventidue anni in una città straniera, o... è la caccia al vello d’oro? Chi più si mostra agguerrita, più verrà ricordata con gloria e onore nell’annuario delle fans messicane? Non afferro la logica... Forse sono troppo ottusa.
E tu? Tu non ti ribelli. Tu ti fermi e prendi ancora una volta il pennarello dalle loro mani e firmi. Non posso crederci... Hai preso quel diamine di pennarello e hai ripreso a firmare! Ma sei completamente uscito di senno?! Perché ti fai umiliare così? Non vedi? Ti stanno tirando per la giacca, ti stanno strattonando, spintonando fra loro come una palla alla fiera domenicale del villaggio, ti spupazzano come la Barbie ultimo modello-Edward Cullen che DEVONO avere nella propria collezione. E tu cosa fai? Non dici niente.
Mi fai del male. Il tuo essere così remissivo, così ingenuo e semplice mi trafiggono il petto come una lama fatta di ghiaccio che si rigira e continua ad affondare nella mia carne. Perché devi essere così?
Ti prego, di che hai diritto ad un attimo di pace. Dillo! Io non posso fare niente se tu non mi autorizzi...
Scattano. Scattano e scattano ancora foto. La sala ormai e un luccicare unico di flash, tanto che mi chiedo se ti sia rimasta ancora la vista oppure no...
Una ragazzina grida, forse le hai accarezzato una spalla? O un braccio. No, forse le hai regalato un sorriso. L’amica in parte a lei strilla accorandosi. Ma che stai facendo? Getti paglia sul fuoco? Complimenti. Vuoi che porto una tanica di benzina, per darti una mano?
Quando hai lasciato casa e io ti aspettavo davanti alla porta, con la mia valigia a terra, mi hai detto pensieroso “Sarà un viaggio pesante”. A cosa ti riferivi? Alla durata del tragitto, o... a quello che ti aspettava una volta a terra? Dalla tua espressione deduco che non è ne una, ne l’altra.
“Possiamo sempre rinunciare se vuoi. Basta una telefonata” ti avevo risposto. Sono sempre stata dell’idea di tirarti indietro dai grandi eventi...
“No. Va bene così. Dormirò quando sono in camera”.
Ecco a cosa ti riferivi. Mi mordo un labbro se penso che... in camera non dormirai. E sai perché? Perché i tuoi occhi azzurri saranno troppo abbagliati dalla luce di quelle dannate macchine fotografiche, perché le tue orecchie saranno assordate e violentate dal frastuono e perché la tua mente sarà un turbinio di immagini dai colori alterati... Non dormirai. Ti getterai sul letto con lo sguardo fisso al soffitto e mi pregherai di sedermi accanto a te...
Basta. Non posso più sopportarlo. Non posso restare qui, incollata ad una parete biancastra mentre assisto al martirio di tutto ciò per cui darei la vita.
Non ti difendono. Non ti proteggono. Non ti amano.
Mi scosto dal muro con un moto di stizza e comincio a camminare verso te e la folla che ti stringe.
Non lo faccio per me, per cancellare dal petto questo senso di terrore e paura di perdita, no... Posso sempre resistere tacendo. Lo faccio per te... Lo faccio per quello straccio di anima che hai lasciato a casa, in un cassetto; lo faccio per il tuo orgoglio, affinché ti rimanga un briciolo di amor proprio che ti spinga ad alzarti ancora una volta e dire in un sospiro “Ho una vita da non perdere...”.
Ti ho quasi raggiunto. Sei lì, a tre metri, e a stento riesco a vederti.
Il cerchio di fans è davvero un girone dell’Inferno, da lontano sembrava più divertente...
Provo a farmi strada fra sombrero e pennarelli e tutto quello che ricevo e una gomitata fra le costole ed un “Stai indietro!” mal pronunciato di una ragazzina. Mi fissa irritata, come se avesse capito che sto per sottrarre loro il giocattolo. Mi caccia la lingua e poi torna a serrare i fianchi.
Dio, se non la prendo per i capelli, ricordami di dare in beneficenza metà dei miei risparmi.
Quel che è troppo, è davvero troppo. Sono una maestra nell’arte della guerra... Lo sai, no?
Indietreggio di due passi, mi slaccio la giacca, mi lego i capelli con disinvoltura e faccio un bel sospiro. Sono pronta, sto venendo a salvarti...
Decisa mi muovo verso il plotone, sicura che questa volta ti avrei tirato fuori a furia di morsi e calci nell’inguine.
I body-guards mi guardano sospetti mentre afferro la prima ragazzina e la caccio via lontana, mentre strilla come una vite tagliata.
“Permesso” dico con gentilezza. Scavalco la seconda ragazzina e guadagno mezzo metro verso di te. Mi vedi? Mi senti?
“Permesso. Vorrei passare, grazie”.
“Ehi cocca: torna dov’eri... Ci siamo prima noi” mi sibila qualcuno nell’orecchio.
Non sia mai che io abbia sentito quello che ho sentito. “Cocca” a me? Ma da che parte gira il mondo oggi? O come disse la nonna di Mulan, "Chi ha sputato nel piatto di fagioli?".
“Io non faccio la fila per assassinare un essere umano, bambina” rispondo mantenendo la calma. Infondo sei pur sempre un personaggio famoso: se mi mettessi a picchiare le tue fans, sai che festa mi fa la tua manager ?
“Sei la sua fidanzata?” mi chiedono, come se avessero domandato al diavolo l’indirizzo di casa.
“No, e non ci penso nemmeno” ho risposto. “Sono quella che ruba i giocattoli ai bambini cattivi e restituisce la dignità a chi a stento riesce a difenderla”.
Deve avermi guardato con aria confusa. Non sono molto sicura io stessa di quello che ho detto. Almeno è stata zitta e io... ho guadagnato un altro mezzo metro verso te.
Ti vedo. Stai firmando come una macchina senza cuore e senza vita, mentre il tuo sguardo strilla la necessità di un po’ di pace.
Eccomi, sono qui... Mi senti?
“Permesso. Grazie... Devo passare”.
“Pupa, fatti un po’ più in là. Mio posto” mi ringhia una.
“Sai, dovresti essere più originale: le fotografie di Cedric Diggory gliele danno tutte... Una foto di lui mezzo ubriaco sarebbe più opportuna, tu che dici?”
Ha abbassato lo sguardo sulla sua foto, poveretta, distraendosi. E io... sono da te.
Ti afferro per un braccio e stringo con quanta forza ho nelle mani.
“Robert”.
L’incanto si spezza, e tu sbatti le palpebre. Mi vedi.
“Charlotte...” mormori.
Prendo pennarelli e fotografie e le caccio in mano al primo body-guard, accanto a noi, intimandogli di farle sparire con un’occhiata che non ammette repliche.
“Andiamo” ti dico, mentre ti prendo per mano e cerco di tornare sui miei passi.
“Dove va?” chiedono in coro le fans.
“Va dove ogni cristiano ha il diritto di andare dopo un volo d’aereo: a dormire”.
Mi segui con aria assente e a capo chino; non m’importa, almeno cammini...
“Lasciacelo ancora un attimo!” mi gridano attorno.
“Si è mai sentito dire che un amico lascia il proprio compagno in mezzo ad un mare di squali?”
“Noi non siamo squali!” mi rimbeccano inferocite.
“Sono certa che nella vita reale voi non lo siate...” rispondo candidamente, prima di approfittare del loro attimo di sgomento per lanciarmi in corsa verso l’uscita.
Ahah!
Hai visto? È fatta! È bastato un istante e siamo fuori... liberi.
La luce calda e rossa del sole ti invade il viso e, finalmente, vedo i tuoi occhi riprendere vita, vedo l’azzurro marino accendersi e brillare.
“Bene. Direi che per oggi basta, tu che dici? Hai dato il meglio di te” sorrido, passandoti una mano sulla guancia, “Non ne sono sicura, ma mi sembrava che stessi cercando di suicidarti...”
Mi fissi a fondo, stringendo la bocca e deglutendo rumorosamente. Sei sull’orlo delle lacrime e mi fai stringere lo stomaco.
“N-no riuscivo a chiamarti” mormori infine, come un bambino spaventato.
E ora, o Signore, dimmi cosa devo fare. Guardarlo piangere? Guardarlo contorcersi per l’ansia che lo schiaccia? O forse... forse...
Mentre una lacrima mi solca lo zigomo, ti getto le braccia al collo e ti stringo forte a me, come se fossi sul punto di scivolare via verso l’ignoto.
Sento le tue mani scorrere dietro la mia schiena e poi serrarsi a pugno attorno alla giacca, mentre mi schiacci brutalmente verso il tuo petto. Stai piangendo. E inondi il mio collo con la paura che hai di perdere te stesso. E di perdere me.
“Ssssh... Sono qui”, ti sussurro. “Sono qui. Come ogni volta che sei spaventato, io sono qui... Non importa quante battaglie ti aspettano e quante sconfitte patirai, perché non soffrirai da solo. Passerò ogni singolo giorno della mia vita a medicarti le ferite e assicurarmi che tu stia bene... trascorrerò ogni notte a vegliare su di te, affinché gli incubi non ti tormentino. Ti seguirò in ogni terra straniera che avrà l’ardire di chiamarti... e da ogni mano scortese che ti importuna, io ti sottrarrò. Perché è questo quello che sei” ti dico prendendoti il viso fra le mani e cancellandoti le lacrime, “Un ragazzo di ventidue anni che altro non chiede che vivere in pace in un mondo che lo affascina”.
“È chiedere l’impossibile” gemi guardandomi.
“Possiamo sempre provarci, no?”
“E se poi ti fai male...?”
“Io mi faccio male solo se tu ti fai male...”
“Non è che sia molto diverso”.
“Allora uccidiamoli tutti, questi tessitori di illusioni ed inganni e mostriamo loro cosa voglia davvero dire essere se stessi. Combattiamo a testa alta, ignorando chi crede che la nostra sia indifferenza o non curanza dell’apparenza. Viviamo per quello per cui siamo nati”.
Abbozzi ad un sorriso ed appoggi la tua fronte alla mia, prima di chiudere gli occhi.
“E per cosa siamo nati?”
Chiudo gli occhi anche io e in un sospiro ti rispondo, “Siamo nati per dare un senso a quello che noi chiamiamo realtà. Non importa se sia brutta o bella, ma importa invece che la sua potenza non ci renda schiavi in un limbo di preoccupazioni troppo grandi per essere affrontate... Viviamo per noi stessi e per chi ci dona il proprio cuore, in cambio di nulla”.
“E tu... tu mi vuoi bene? Resterai con me?”
“Sempre. Fino alla fine di questo giorno, di quello dopo e di questa settimana. Fino alla fine di questa vita e di questo mondo. Sempre...”
Alle volte mi chiedo se l’essere umano si renda conto di quanto idiota si mostri. No, perdonatemi, idiota è riduttivo... Posso usare il termine “abominevole”, senza correre il rischio di essere presa a mazzaroccate?
Non ho mai preteso comprensione a 360° per coloro che di comprensione a stento ne ricevono su un set quando si tratta di fingere, ma... una cosa, però, la pretendo: rispetto.
Sapete qual’è la cosa più buffa? Quando loro, e quando dico loro intendo LORO... astri del cinema, commettono boiate, siamo tutti lì a puntare il dito, strillando come bertucce “Ecco! Lo sapevo che era uno scemo pure lui, esattamente come te!”. Grazie assai.
Ma mi spiegate il rovescio ipocrita della medaglia? Se sono persone normali, allora perché le si trattano come bestioline da circo, quando più ci aggrada? Mhm?
Non so... era solo una constatazione... rifletteteci su.
Un bacio ad ogni stella che si è fermata qui ed ha letto.
Vi amo, come sempre... *.*
bethChe numero di foto sarà? La cinquantesima? Forse la sessantesima... Devo ammetterlo, ho perso il conto. Come se tenerlo servisse a qualcosa.
Quando arrivi tu, i fotografi e i paparazzi perdono il controllo e dimenticano per quel dispettoso attimo, in cui io resto in disparte, la scintilla del buonsenso che dovrebbe guidarli a rispettare ciò che in teoria viene chiamata “privacy”.
È una parola buffa, se ci pensi. “Privacy”... Non senti, il suono che fa? “Pri...va...cy...”.
No, certo che non la senti. E come potresti? Da quando hai impacchettato le tue camice e i tuoi jeans consunti e hai volto l’ultimo sguardo alla tua camera, sapevi perfettamente che, lì, non avresti lasciato solo un mucchio di CD e biancheria... ma avresti abbandonato anche te stesso. Il tuo vero io, scisso in due strappi di anima, uno rinchiuso in un cassetto come medicina, antidoto per il tuo ritorno, se mai fossi tornato... E l’altro, serrato nel cuore, consapevole che l’avresti mostrato solo a pochi nella tua avventura.
È un pezzo di cristallo. Una rosa in bocciolo, troppo fragile e ingenua per essere esposta alla furia dell’inverno degli animi esperti in diavolerie... E tu ci sei finito dritto in bocca come una mosca nella ragnatela di diamanti di un ragno avido di lussuria.
A cosa è servito? È servito a qualcosa? Dimmelo, ti prego. Spiegami...
Me ne sto con le spalle incollate al muro della sala degli arrivi all’aereo porto, qui in Mexico, mentre ti vedo sparire in pochi secondi, il tempo d’un respiro o un battito di ciglia, fra le mani irrequiete di un gruppo impazzito di fans. Che ragazze espansive... Guarda, ti hanno portato anche un sombrero talmente grande che potremmo andarci in barca se mai si decidesse di imparare a remare... Remi tu però, io segno la rotta.
Sembri stanco, ti senti bene?
Segni gli autografi con una velocità automatica che riconosco come innaturale, e la cosa mi terrorizza. Non sollevi nemmeno gli occhi dai fogli e fotografie tue in versione Potteriana e Culleniana, mentre il pennarello scorre lucido sulla carta patinata... Ti chiedono di dedicar loro qualche scatto, abbracciati ovviamente, e tu non rispondi nemmeno. Fai un gesto incomprensibile con la testa e ti appoggi a loro, pronto per il “click” della macchina.
Si. Hai sentito bene, ho detto “ti appoggi a loro...”. Perché vedi, non è un abbraccio, no. Nemmeno un gesto d’affetto... Sai cos’è? È il gesto dell’uomo distrutto, sbattuto fra una copertina e l’altra dei “magazines” più IN del momento, che scende da un aereo dopo almeno tre ore di volo per andare nella città del fuoco per un film da promuovere. È il gesto dell’uomo sfinito. Ti hanno chiesto se sei stanco? O forse ti hanno solo detto “Come siamo felici di averla qui con noi, signor Pattinson”?
Un paparazzo scatta la cinquantatreesima foto e tu sbatti le palpebre cercando di celare la stanchezza che ti afferra per le braccia e ti tira a terra.
Non posso muovermi. Non posso venire lì da te. Non posso parlare ne fare un cenno. Non se non sei tu a volerlo. Appena arrivati, con un’occhiata mi hai detto di attendere in disparte; l’hai fatto per proteggermi? O l’hai fatto perché vuoi gestire la situazione da solo? Fra tutte e due, ritengo che siano scelte decisamente idiote e insensate...
Cosa aspetti a dirmi di raggiungerti? Avanti. Alza quei dannati occhi azzurri e dimmi che vuoi che venga da te! Perché non lo fai?!
Mi sento soffocare. Mi sento torcere lo stomaco e prendere a pugni il cuore mentre assisto all’assalto al tuo metro e ottanta da parte di ragazzine puffo che bramano di toccare almeno un lembo della tua giacca di pelle.
Mi sento bruciare le mani, le braccia e il collo. Ogni punto in cui ti sfiorano, in cui stringono per imprimere in se il disegno del loro idolo. Allontanale, coraggio. Non vedi cosa ti fanno?
Lo so. Lo so... Sono una senza cuore. Loro ti vorrebbero tutto per se. Ti vorrebbero mostrare la loro cameretta e i tuoi mille poster incollati con le graffette colorate alle pareti; ti farebbero sfogliare i loro album di scuola e degli amici, dicendo “Si, questo è carino, ma nulla in confronto a te...”. Sono troppo dura. Ma è più forte di me. Non ci riesco.
Uno dei tuoi body-guards, dannati siano per il loro dolce far nulla, mi lancia uno sguardo tra l’interrogativo e il preoccupato.
Cosa si aspetta che faccia? Che prenda una pistola ad acqua e cominci a sparare sulla folla di galline in corsa? Il mio metro e sessanta non è di gran vantaggio...
Restituisco lo sguardo con un sopracciglio vertiginosamente alzato: o si sveglia e ti tira fuori da quel nugolo di criceti urlanti, o mi metto a strillare.
E grazie a Dio, non è un uomo così stupido come sembra: ti afferra per un braccio e si fa largo fra i dieci bolidi isterici, cercando di portarti verso l’uscita.
A dire il vero, pensavo che l’incubo fosse finito. Ma... non appena incontro il tuo viso sfigurato dalla stanchezza, capisco che non ti avrebbero lasciato andare molto facilmente...
Il body-guard ti guida verso il corridoio dell’uscita, ma ecco che le ragazzine ti sorprendono da dietro una colonna e ti sbarrano la strada, mentre sfoderano un sorriso a trentacinque denti.
Fatemi capire: questo è l’atterraggio di un ragazzo di ventidue anni in una città straniera, o... è la caccia al vello d’oro? Chi più si mostra agguerrita, più verrà ricordata con gloria e onore nell’annuario delle fans messicane? Non afferro la logica... Forse sono troppo ottusa.
E tu? Tu non ti ribelli. Tu ti fermi e prendi ancora una volta il pennarello dalle loro mani e firmi. Non posso crederci... Hai preso quel diamine di pennarello e hai ripreso a firmare! Ma sei completamente uscito di senno?! Perché ti fai umiliare così? Non vedi? Ti stanno tirando per la giacca, ti stanno strattonando, spintonando fra loro come una palla alla fiera domenicale del villaggio, ti spupazzano come la Barbie ultimo modello-Edward Cullen che DEVONO avere nella propria collezione. E tu cosa fai? Non dici niente.
Mi fai del male. Il tuo essere così remissivo, così ingenuo e semplice mi trafiggono il petto come una lama fatta di ghiaccio che si rigira e continua ad affondare nella mia carne. Perché devi essere così?
Ti prego, di che hai diritto ad un attimo di pace. Dillo! Io non posso fare niente se tu non mi autorizzi...
Scattano. Scattano e scattano ancora foto. La sala ormai e un luccicare unico di flash, tanto che mi chiedo se ti sia rimasta ancora la vista oppure no...
Una ragazzina grida, forse le hai accarezzato una spalla? O un braccio. No, forse le hai regalato un sorriso. L’amica in parte a lei strilla accorandosi. Ma che stai facendo? Getti paglia sul fuoco? Complimenti. Vuoi che porto una tanica di benzina, per darti una mano?
Quando hai lasciato casa e io ti aspettavo davanti alla porta, con la mia valigia a terra, mi hai detto pensieroso “Sarà un viaggio pesante”. A cosa ti riferivi? Alla durata del tragitto, o... a quello che ti aspettava una volta a terra? Dalla tua espressione deduco che non è ne una, ne l’altra.
“Possiamo sempre rinunciare se vuoi. Basta una telefonata” ti avevo risposto. Sono sempre stata dell’idea di tirarti indietro dai grandi eventi...
“No. Va bene così. Dormirò quando sono in camera”.
Ecco a cosa ti riferivi. Mi mordo un labbro se penso che... in camera non dormirai. E sai perché? Perché i tuoi occhi azzurri saranno troppo abbagliati dalla luce di quelle dannate macchine fotografiche, perché le tue orecchie saranno assordate e violentate dal frastuono e perché la tua mente sarà un turbinio di immagini dai colori alterati... Non dormirai. Ti getterai sul letto con lo sguardo fisso al soffitto e mi pregherai di sedermi accanto a te...
Basta. Non posso più sopportarlo. Non posso restare qui, incollata ad una parete biancastra mentre assisto al martirio di tutto ciò per cui darei la vita.
Non ti difendono. Non ti proteggono. Non ti amano.
Mi scosto dal muro con un moto di stizza e comincio a camminare verso te e la folla che ti stringe.
Non lo faccio per me, per cancellare dal petto questo senso di terrore e paura di perdita, no... Posso sempre resistere tacendo. Lo faccio per te... Lo faccio per quello straccio di anima che hai lasciato a casa, in un cassetto; lo faccio per il tuo orgoglio, affinché ti rimanga un briciolo di amor proprio che ti spinga ad alzarti ancora una volta e dire in un sospiro “Ho una vita da non perdere...”.
Ti ho quasi raggiunto. Sei lì, a tre metri, e a stento riesco a vederti.
Il cerchio di fans è davvero un girone dell’Inferno, da lontano sembrava più divertente...
Provo a farmi strada fra sombrero e pennarelli e tutto quello che ricevo e una gomitata fra le costole ed un “Stai indietro!” mal pronunciato di una ragazzina. Mi fissa irritata, come se avesse capito che sto per sottrarre loro il giocattolo. Mi caccia la lingua e poi torna a serrare i fianchi.
Dio, se non la prendo per i capelli, ricordami di dare in beneficenza metà dei miei risparmi.
Quel che è troppo, è davvero troppo. Sono una maestra nell’arte della guerra... Lo sai, no?
Indietreggio di due passi, mi slaccio la giacca, mi lego i capelli con disinvoltura e faccio un bel sospiro. Sono pronta, sto venendo a salvarti...
Decisa mi muovo verso il plotone, sicura che questa volta ti avrei tirato fuori a furia di morsi e calci nell’inguine.
I body-guards mi guardano sospetti mentre afferro la prima ragazzina e la caccio via lontana, mentre strilla come una vite tagliata.
“Permesso” dico con gentilezza. Scavalco la seconda ragazzina e guadagno mezzo metro verso di te. Mi vedi? Mi senti?
“Permesso. Vorrei passare, grazie”.
“Ehi cocca: torna dov’eri... Ci siamo prima noi” mi sibila qualcuno nell’orecchio.
Non sia mai che io abbia sentito quello che ho sentito. “Cocca” a me? Ma da che parte gira il mondo oggi? O come disse la nonna di Mulan, "Chi ha sputato nel piatto di fagioli?".
“Io non faccio la fila per assassinare un essere umano, bambina” rispondo mantenendo la calma. Infondo sei pur sempre un personaggio famoso: se mi mettessi a picchiare le tue fans, sai che festa mi fa la tua manager ?
“Sei la sua fidanzata?” mi chiedono, come se avessero domandato al diavolo l’indirizzo di casa.
“No, e non ci penso nemmeno” ho risposto. “Sono quella che ruba i giocattoli ai bambini cattivi e restituisce la dignità a chi a stento riesce a difenderla”.
Deve avermi guardato con aria confusa. Non sono molto sicura io stessa di quello che ho detto. Almeno è stata zitta e io... ho guadagnato un altro mezzo metro verso te.
Ti vedo. Stai firmando come una macchina senza cuore e senza vita, mentre il tuo sguardo strilla la necessità di un po’ di pace.
Eccomi, sono qui... Mi senti?
“Permesso. Grazie... Devo passare”.
“Pupa, fatti un po’ più in là. Mio posto” mi ringhia una.
“Sai, dovresti essere più originale: le fotografie di Cedric Diggory gliele danno tutte... Una foto di lui mezzo ubriaco sarebbe più opportuna, tu che dici?”
Ha abbassato lo sguardo sulla sua foto, poveretta, distraendosi. E io... sono da te.
Ti afferro per un braccio e stringo con quanta forza ho nelle mani.
“Robert”.
L’incanto si spezza, e tu sbatti le palpebre. Mi vedi.
“Charlotte...” mormori.
Prendo pennarelli e fotografie e le caccio in mano al primo body-guard, accanto a noi, intimandogli di farle sparire con un’occhiata che non ammette repliche.
“Andiamo” ti dico, mentre ti prendo per mano e cerco di tornare sui miei passi.
“Dove va?” chiedono in coro le fans.
“Va dove ogni cristiano ha il diritto di andare dopo un volo d’aereo: a dormire”.
Mi segui con aria assente e a capo chino; non m’importa, almeno cammini...
“Lasciacelo ancora un attimo!” mi gridano attorno.
“Si è mai sentito dire che un amico lascia il proprio compagno in mezzo ad un mare di squali?”
“Noi non siamo squali!” mi rimbeccano inferocite.
“Sono certa che nella vita reale voi non lo siate...” rispondo candidamente, prima di approfittare del loro attimo di sgomento per lanciarmi in corsa verso l’uscita.
Ahah!
Hai visto? È fatta! È bastato un istante e siamo fuori... liberi.
La luce calda e rossa del sole ti invade il viso e, finalmente, vedo i tuoi occhi riprendere vita, vedo l’azzurro marino accendersi e brillare.
“Bene. Direi che per oggi basta, tu che dici? Hai dato il meglio di te” sorrido, passandoti una mano sulla guancia, “Non ne sono sicura, ma mi sembrava che stessi cercando di suicidarti...”
Mi fissi a fondo, stringendo la bocca e deglutendo rumorosamente. Sei sull’orlo delle lacrime e mi fai stringere lo stomaco.
“N-no riuscivo a chiamarti” mormori infine, come un bambino spaventato.
E ora, o Signore, dimmi cosa devo fare. Guardarlo piangere? Guardarlo contorcersi per l’ansia che lo schiaccia? O forse... forse...
Mentre una lacrima mi solca lo zigomo, ti getto le braccia al collo e ti stringo forte a me, come se fossi sul punto di scivolare via verso l’ignoto.
Sento le tue mani scorrere dietro la mia schiena e poi serrarsi a pugno attorno alla giacca, mentre mi schiacci brutalmente verso il tuo petto. Stai piangendo. E inondi il mio collo con la paura che hai di perdere te stesso. E di perdere me.
“Ssssh... Sono qui”, ti sussurro. “Sono qui. Come ogni volta che sei spaventato, io sono qui... Non importa quante battaglie ti aspettano e quante sconfitte patirai, perché non soffrirai da solo. Passerò ogni singolo giorno della mia vita a medicarti le ferite e assicurarmi che tu stia bene... trascorrerò ogni notte a vegliare su di te, affinché gli incubi non ti tormentino. Ti seguirò in ogni terra straniera che avrà l’ardire di chiamarti... e da ogni mano scortese che ti importuna, io ti sottrarrò. Perché è questo quello che sei” ti dico prendendoti il viso fra le mani e cancellandoti le lacrime, “Un ragazzo di ventidue anni che altro non chiede che vivere in pace in un mondo che lo affascina”.
“È chiedere l’impossibile” gemi guardandomi.
“Possiamo sempre provarci, no?”
“E se poi ti fai male...?”
“Io mi faccio male solo se tu ti fai male...”
“Non è che sia molto diverso”.
“Allora uccidiamoli tutti, questi tessitori di illusioni ed inganni e mostriamo loro cosa voglia davvero dire essere se stessi. Combattiamo a testa alta, ignorando chi crede che la nostra sia indifferenza o non curanza dell’apparenza. Viviamo per quello per cui siamo nati”.
Abbozzi ad un sorriso ed appoggi la tua fronte alla mia, prima di chiudere gli occhi.
“E per cosa siamo nati?”
Chiudo gli occhi anche io e in un sospiro ti rispondo, “Siamo nati per dare un senso a quello che noi chiamiamo realtà. Non importa se sia brutta o bella, ma importa invece che la sua potenza non ci renda schiavi in un limbo di preoccupazioni troppo grandi per essere affrontate... Viviamo per noi stessi e per chi ci dona il proprio cuore, in cambio di nulla”.
“E tu... tu mi vuoi bene? Resterai con me?”
“Sempre. Fino alla fine di questo giorno, di quello dopo e di questa settimana. Fino alla fine di questa vita e di questo mondo. Sempre...”
.........
Alle volte mi chiedo se l’essere umano si renda conto di quanto idiota si mostri. No, perdonatemi, idiota è riduttivo... Posso usare il termine “abominevole”, senza correre il rischio di essere presa a mazzaroccate?
Non ho mai preteso comprensione a 360° per coloro che di comprensione a stento ne ricevono su un set quando si tratta di fingere, ma... una cosa, però, la pretendo: rispetto.
Sapete qual’è la cosa più buffa? Quando loro, e quando dico loro intendo LORO... astri del cinema, commettono boiate, siamo tutti lì a puntare il dito, strillando come bertucce “Ecco! Lo sapevo che era uno scemo pure lui, esattamente come te!”. Grazie assai.
Ma mi spiegate il rovescio ipocrita della medaglia? Se sono persone normali, allora perché le si trattano come bestioline da circo, quando più ci aggrada? Mhm?
Non so... era solo una constatazione... rifletteteci su.
Un bacio ad ogni stella che si è fermata qui ed ha letto.
Vi amo, come sempre... *.*