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Autore: luxuryloser    24/12/2014    6 recensioni
Se la prima parola che sentirai dalla tua anima gemella è incisa sul tuo polso dalla nascita, ti ritrovi costretto a fare particolare attenzione a quello che ti dice la gente. O a fregartene, finché il destino non gioca la sua mano.
Se ti chiami Arthur Pendragon, finisci per fare entrambe le cose.
Breve one-shot per augurare buon Natale. Merthur, of course.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù | Coppie: Gwen/Artù, Merlino/Artù
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione, Nel futuro
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Non ho mai scritto una soulmate AU, forse non ne ho neanche mai lette.
Anche se, in realtà, per me i Merthur lo sono sempre.

Dovrebbero riguardare l’essere bloccati con una persona quasi per forza, come in un libro distopico che ho letto due anni fa, e ribellarsi a quella situazione? O forse dovrebbero focalizzarsi sulla ricerca, sulla probabilità di un evento stocastico (che bella parola)?
Per me descrivono semplicemente una vita che scorre, un incontro che avviene perché deve, e qualcosa che forse resta perché vuole.
Breve breve, Arthur’s POV.
 
Buon Natale in anticipo, che guardiate lo speciale di Doctor Who o ricordiate il series finale di due anni fa (non fatelo).
Buon Natale soprattutto a chi lo odia. Dura solo un giorno, e potete passarlo a leggere fanfiction sotto il tavolo coperti dal piatto strapieno.
Buon Natale specialmente a una persona.


 
Crossroad.
Maybe soulmates are just two ordinary people
Who are too stubborn to let the world pull them apart.
Nick A. West 

Scusa.
Arthur aveva imparato a leggere a quattro anni e due mesi, e principalmente l’aveva fatto per capire cosa ci fosse scritto sul suo polso dal giorno che era nato, come una piccola cicatrice bianca in rilievo.
Se ne era fatte altre, ma nessuna era mai stata diversa da una linea storta o da una macchia. Quella invece era regolare come le scritte sui libri che gli leggevano le sue tate, e lo aveva sempre incuriosito.
Quando aveva chiesto a Morgana perché avesse quella strana cicacice, ci era rimasto male.
“Perché sei nato per rompermi le scatole e qualcuno mi sta chiedendo scusa,” aveva detto, e poi era scoppiata a ridere, quella risata graziosa da femmina, un pochino poco cattiva.
Non sembrava una spiegazione probabile, ma Morgana era grande, aveva quasi sei anni, e aveva sempre ragione, anche quando lo obbligava a fare il principe azzurro mentre lei faceva la principessa, e in tutti i film Disney i principi dicevano ben poco.
Allora Arthur smise di fare domande, le diede della bambina viziata, e ritornò a giocare con il gigantesco castello di Lego.
Quindi nessuno chiedeva scusa per avergli portato via la sua mamma.
 
***
 
Quando scoprì davvero cosa voleva dire, aveva da poco compiuto cinque anni e andava alla scuola lementare.
La maestra si chiamava Helen ed era molto bella, e un giorno si era tolta lo spesso bracciale dorato che portava al polso destro per mostrare un segno molto simile.
Il suo diceva Miss.
Miss cosa?
Lei spiegò che erano le prime parole che avrebbe sentito dalla sua anima gemella. Per far capire a ventisei bambini tra i cinque e i sei anni cosa fosse un’anima gemella ci mise quasi un’ora, e ad Arthur l’argomento sembrava ancora un po’ oscuro.
“Quindi, se sentendo un perfetto estraneo pronunciare quelle parole, il polso vi darà come una scossa e vi sembrerà di avere le farfalle nel pancino, avrete trovato la persona con cui trascorrerete la vostra vita. Si chiama destino.”
Con quella parola difficile, destino, coprì di nuovo la sua frase con il braccialetto, e Arthur fece caso solo in quel momento al fatto che le sue tate avevano sempre nascosto la sua, che era coperta anche in quel momento, con una striscetta di cuoio.
“Lei l’ha già trovata?” chiese una bambina seduta due file più avanti.
Helen arrossì e non rispose.
Arthur continuava inconsciamente a giocare con il suo braccialetto, a sganciarlo e riagganciarlo, ripassando i contorni delle lettere con le dita. Pensò che le persone gli dicevano scusa tutti i giorni, e che avrebbe dovuto farci più attenzione.
Non vide che la bambina seduta dietro di lui sbirciava oltre la sua spalla facendo finta di guardare la lavagna vuota.
 
Scusa, posso giocare?”
Arthur si voltò di scatto, facendo cadere la macchinina oltre il bordo della pista giocattolo.
A parlare era stata una bambina. E già quello era strano, perché era evidente che le Ferrari fossero un gioco da maschi, e che ci avrebbe giocato molto più volentieri con Percy, che però sembrava sparito, da un po’ di tempo troppo preso a giocare con i bambini dell’altra classe, ed era tutto Gwaine di qua, Gwaine di là, Gwaine una volta è andato in un pub, Gwaine ha portato la torta di mele.
Comunque, la bambina aveva gli occhi azzurri e i capelli marroni lunghi, come quasi tutte le bambine della sua classe, e assolutamente niente di speciale. Si chiamava Sophia, Arthur lo sapeva perché rispondeva quando Helen diceva quel nome, ma non le aveva mai parlato.
Aveva detto scusa.
Ma il polso era a posto, e nel suo pancino non c’era proprio niente, anzi, stava iniziando a venirgli fame.
 
***
 
Aveva nove anni quando baciò per la prima volta una ragazza. Si chiamava Elena, era di un anno più grande e le piacevano i cavalli.
La prima parola che gli aveva detto era stata ciao, mentre trottava in piedi sulla sella.
Aveva iniziato a piacergli esattamente dodici secondi dopo, quando era rotolata giù dall’animale, e si era rialzata senza battere ciglio, i vestiti sporchi di terra e i capelli spettinati.
Una volta scoperto che il cavallo si chiamava Buttercup, Arthur aveva deciso che ciao andava benissimo.
Gli piaceva, Elena. Era divertente
Era come un amico, solo che aveva i nastri nei capelli e metteva le gonne. Il che era strano, per rincorrersi per strada o giocare in giro per i Kensington Gardens, perché lei finiva sempre per inciampare, o impigliarsi da qualche parte, e venir rimproverata dalla sua tata (quella donna era un mostro, Arthur non sarebbe stato convinto del contrario neanche da David Beckham in persona).
 
Era talmente simile a un amico che spesso si dimenticavano di baciarsi, che era quello che ci si aspettava da due fidanzati, specialmente quando i rispettivi padri sembravano convinti delle future nozze.
“Io non posso sposarla, è mia amica!”
Con quella risposta, una sera a cena, ebbe fine la loro relazione. Era un rapporto troppo bello per rovinarlo facendo cose sdolcinate.
Non poteva certo farsi battere a Dungeons and Dragons dalla propria fidanzata.
 
***
 
Quando invece decise ufficialmente di fregarsene aveva diciassette anni, e sicuramente non era solo la seconda volta che baciava una ragazza.
Ma tutte le volte che l’aveva fatto prima, la voce nella sua testa gli aveva sibilato contro, ricordandogli che non era previsto, che non era come doveva andare.
Andando avanti con la vita, acquisendo la saggezza che notoriamente caratterizza i diciassettenni, Arthur aveva scoperto che non tutti trovavano la persona della cicatrice (anima gemella non era un termine che un maschio diciassettenne in pieno tsunami ormonale avrebbe mai usato consapevolmente), e che vivevano benissimo anche senza. Soprattutto, aveva scoperto che non era così sbagliato sperimentare.
Vivian Olafsson era la cosa più bella che avesse mai visto e, anche più importante, sembrava volerglisi gettare addosso più platealmente che in quegli insulsi esercizi di fiducia che avevano fatto durante il corso, obbligatorio, di teatro.
Mentre ancheggiava pochi metri davanti a lui nel corridoio, gonna stretta e camicetta praticamente trasparente, Arthur pensò che non avrebbe potuto importargli meno del fatto che la prima frase che gli aveva detto fosse stata “Grazie, lo so.”.
Forse per una frazione di secondo si era chiesto se sul polso di lei, sotto la lunga catena di braccialetti che sembravano costare un capitale, ci fosse scritto Wow.
Era molto probabile.
Ma probabilmente non il suo.
 
Erano stati insieme due anni e dieci mesi ma, alla fine, era stato lui a lasciarla.
Non tanto perché il battito del suo polso fosse sempre rimasto terribilmente regolare.
Principalmente perché era una ragazzina superficiale che la dava via come fosse un premio del tiro a freccette.
 
***
 
Una sera, aveva sentito Morgana parlare al telefono.
“Non me ne frega niente di questa cazzata delle anime gemelle. È una scossa elettrica a decidere con chi devo passare la mia vita?”
Una pausa, rumore di oggetti spostati (lo faceva quando era nervosa, Arthur l’aveva sempre trovato insopportabile), parole e parole dall’altro capo dell’etere che lei non avrebbe neanche ascoltato.
Sfiorò il bracciale di cuoio inciso che gli copriva il polso destro. Due facce della stessa medaglia, davvero originale. Eppure il vecchio della bancarella a Brick Lane era riuscito a convincerlo a comprarlo.
“Non mi importa se Leon ha degli occhi fantastici, Guinevere, o un culo che sembra scolpito da Antonio Canova, o gioca a calcio con mio fratello. (Neanche ci hai mai parlato, te lo levi dalla testa?) Non ho avuto facoltà di scegliere, e la cosa non fa per me.”
Come la prima volta, quando aveva dato alla scritta sul suo polso un significato che non aveva niente a che fare con quello reale, Morgana stava infrangendo le regole.
Ne era sempre stata al di sopra, come se vivesse secondo altri principi, gelida e sprezzante. Arthur non l’avrebbe mai ammesso, ma un po’ la invidiava.
Se lei poteva andare oltre quei principi, poteva farlo anche lui.
 
***
 
Se solo non ci fosse stato un momento in cui si era illuso di aver sbagliato, di essere stato stupido e pessimista a crederla tutta una cazzata.
Quel momento aveva lunghi capelli ricci e castani, pelle color cappuccino e il sorriso più dolce che avesse mai visto. Quel momento si chiamava Gwen, e aveva fatto il suo ingresso nella sua vita spalancando la porta della sua camera senza bussare.
“Scusa, Morgana aveva detto la prima porta a sinistra!”
Scusa.
Era quello che avrebbe dovuto essere.
Sentiva quello che avrebbe dovuto sentire.
Era bella e semplice, era quanto di più diverso da Vivian si potesse immaginare e no, non pensava ancora a quanto fosse stato male, ma il paragone era inevitabile quanto infattibile, come confrontare Penelope Cruz e Cameron Diaz, o una cheesecake e dei brownies. Alternative fantastiche ma chiunque, e in quel caso il destino, avrebbe avuto una preferenza.
“Figurati. Era semplicemente a sinistra dell’altra scala.”
Parlarono praticamente all’unisono, mentre lui si alzava dal letto chiudendo lo schermo luminoso del portatile.
“Mi dispiace, davvero, è che questa casa è un castello.”
“Sono Arthur, comunque. Ma lo saprai già.”
 
Durò finché doveva.
“Arthur, io…”
“Non c’è bisogno che mi spieghi niente.”
Immaginava la scena. Aveva visto i loro polsi.
Grazie.
Figurati.
Si erano guardati, e qualcosa era andato al suo posto, qualcosa che Gwen non avrebbe mai detto essere in disordine.
“Sei stata fortunata. Di solito ogni persona ha un’anima gemella, tu ne hai avute due. Non capita a tutti.”
O forse, in realtà, ne aveva avuta solo una.
L’ego di Arthur soffocò al pensiero.
Forse si erano aggrappati entrambi alla cieca convinzione che bastasse una parola, che fosse sufficiente credere di sentire ciò che ci si sarebbe aspettati. Il loro era stato amore, ma amore forzato.
Erano state le parole giuste, ma le persone sbagliate.
 
***
 
Quando non gli passava neanche per la testa, Arthur aveva ventitré anni ed era in ritardo, di quei ritardi per cui non si attraversa col rosso è retrocesso a consiglio amichevole e non richiesto, e ripararsi dalla pioggia con la borsa di cuoio inglese è già diventato trascurabile all’uscita dalla metropolitana.
Arthur Pendragon studiava a Oxford, e durante le vacanze lavorava per Uther, allenandosi per prendere un giorno il suo posto alla Camera dei Lord.
Ovviamente, questo comprendeva anche la vigilia di Natale, con le corse e gli spintoni per salire sul treno strapieno, con la folla di persone e bambini, tutti carichi di pacchetti e dolci delle feste, che perdevano ogni contegno britannico in preda al picco glicemico.
Scusa!
Per prima cosa, Arthur sentì caldo. Molto caldo. Caldo come un caffè con molto latte e molto zenzero e cannella (siamo in Inghilterra, che Dio salvi la Regina, non potrebbe almeno essere tè?) che colava lungo la manica destra del suo fino ad allora immacolato Burberry.
Fottiti.”
Solo quando il ragazzo di fronte a lui, gli alamari del cappotto chiusi a metà e i capelli neri completamente inzuppati, fece cadere il bicchiere per afferrarsi il polso, Arthur realizzò che anche il suo bruciava.
E sicuramente non per via del caffè.
 
Fu in quel momento che capì che non importava. Non importavano gli anni, le fughe, le interminabili fasi di negazione. Certo, sarebbe stato più semplice che fosse esistito da subito, stato al suo fianco da subito, ma erano lì.
Era la vigilia di Natale e aveva rovesciato il suo caffè da tre sterline e venti prima ancora di poterlo assaggiare.
Si era sempre chiesto che razza di inizio fosse, fottiti, per una vita con la persona a cui si era destinati.
Ma in quel momento, con quegli occhi azzurri sbarrati, con quella sensazione di appartenenza ad incatenargli il cuore, Merlin pensò che non aveva senso, ma era il loro inizio.
Erano fermi ad un incrocio, tra due strade trafficate di Londra, tra due persone che si trovavano senza cercarsi.
Due facce della stessa medaglia.
Fuse insieme.
  
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