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Autore: mamie    30/12/2014    10 recensioni
Maedhros è stato catturato da Morgoth e Fingon, suo amico, non vuole rassegnarsi alla sua perdita e si mette da solo alla sua ricerca.
Ho cercato di ampliare un poco lo scarno racconto del Silmarillion, non so con quali risultati e che Tolkien mi perdoni, ma questa vicenda mi è sempre sembrata troppo bella per meritare solo qualche accenno.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Fingon, Maedhros
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una voce nelle tenebre
 
Il vento della sera, che arrivava dal lago, venne per un attimo a scompigliare i capelli e il mantello dell’elfo immobile sulla riva. La luce giocava con l’acqua appena increspata. Fingon si girò e si avviò lentamente verso la grande tenda rossa che spiccava in mezzo al verde dell’erba nuova. La primavera stava arrivando.
 
Dentro la tenda regnava una penombra quieta. C’era un pungente odore di erbe aromatiche e la spessa stoffa e i folti tappeti riparavano l’interno dal freddo della notte imminente. Fingon, come faceva ormai da alcuni giorni, sedette accanto alla branda e osservò, pensieroso, il volto dell’amico. Era molto pallido e sciupato, ma sembrava sereno nel sonno profondo in cui era immerso. Stava guarendo, anche se ci sarebbe voluto ancora molto tempo, ma Maedhros era forte, in lui ardeva il fuoco di suo padre. Si sarebbe rimesso in piedi, nonostante tutto.
Fingon si concesse un lungo sospiro. Ecco l’opera del nemico. Il seme dell’odio, il giuramento infausto.
Un ultimo raggio di sole penetrò nella fessura della tenda. Per un attimo Fingon tornò di nuovo col pensiero alla radiosa luce di Aman. Fu solo un momento. Presto il sole tramontò. I Due Alberi non erano più da molte ere. La loro luce, imprigionata nei Silmaril, aveva portato loro solo morte.
 
Maedhros mormorò qualcosa e Fingon ritornò bruscamente al presente. Forse stava sognando, si era leggermente accigliato. Aica. Atroce.
Rivedeva, forse, la notte terribile del Fratricidio? Oppure si ritrovava ancora appeso alla roccia nera di Thangorodrim, fra i tormenti di Morgoth? L’elfo rabbrividì leggermente, al ricordo.
 
***
 
Fingon si aggirava la notte, come uno spettro alla luce dei fuochi, tormentato dai ricordi. Gli mancava l’amico, il compagno dei suoi giovani giorni, il fratello. Gli mancavano la sua risata, i suoi silenzi, i lunghi viaggi sotto le stelle, in una terra che pareva non finire mai. Tutti parevano impazziti, bruciati dal fuoco dell’odio. Avevano compiuto gesta sconsiderate, e imprese grandi, ma inutili.
Senza dire nulla a nessuno, protetto dal silenzio della notte dove la giovane luna ancora non era sorta, Fingon si mise in cammino.
 
Oscure erano le vie del Thangorodrim, e per molti giorni vagò immerso in una tenebra maligna, cauto e nascosto, un’ombra silenziosa nel buio di quella terra infausta. I suoi occhi penetranti scrutavano nel buio dei crepacci, il suo udito allenato ascoltava i rumori discordi di una stirpe martoriata e senza speranza. Il mondo sembrava aver perso ogni colore nelle contrade incenerite di Morgoth.
Alla fine ci fu solo tenebra. Solo tenebra e nient’altro. Fingon si sedette su una nuda roccia e pianse. Pianse i giorni perduti di Aman, pianse i fratelli massacrati e il rogo delle navi dei Teleri, pianse per il loro giuramento infausto, l’esilio dei loro giorni e, piangendo, le sue lacrime cadevano sul pesante involto che racchiudeva la sua arpa, l’unico tesoro dal quale le sue mani non avevano voluto separarsi. Allora un moto d’ira spazzò via le lacrime nel vento gelido. Svolse delicatamente il pesante velluto. La sua arpa sembrava brillare in quell'oscurità. Quando toccò le corde queste suonarono chiare, come se nulla potesse offuscarle, né l’odio della propria stirpe né le tenebre di Morgoth.
 
Cantò dunque un antico canto di Valinor. Cantò con la voce chiara e squillante, sfidando il buio e le orde di orchi e mannari e tutti gli altri innominabili esseri di quella terra malvagia. Cantò perché il canto era più forte dell’oscurità e cantando rideva, perché lui era Fingon, principe dei Noldor, e non si sarebbe piegato allo sconforto e alla paura delle tenebre, non avrebbe ceduto davanti alla disperazione e alla morte.
Poi d’improvviso le sue mani ricaddero nel silenzio spettrale. Alzò la testa cercando di cogliere qualcosa che non aveva sentito prima. Un’altra voce, rotta e spezzata, ma nitida, rispondeva al suo canto.
 
Si alzò di scatto, girando intorno lo sguardo, poi si precipitò a inseguire quella voce. A volte era alta e chiara, a volte moriva in un sussurro roco e allora il silenzio pareva ancora più compatto, più pesante, una coperta bagnata che ottenebrava i sensi. Fingon ne seguiva la più flebile eco balzando fra le rocce senza più sentire la fatica e l’amarezza del lungo viaggio. E allora lo vide.
La parete nera, altissima, liscia come vetro. La piccola figura inchiodata alla roccia come un uccellino da preda catturato da un cacciatore crudele. Maedhros era ancora vivo.
 
Lo chiamò, la voce rotta di paura e speranza. Cercò disperatamente un appiglio in quella roccia lucente, nata dal fuoco. Si ferì cercando di salire in qualche modo e ricadendo ogni volta. Ripetendo il suo nome come se solo con questo potesse salvarlo.
 
- Findekano…
Ora la voce gli arrivava chiara, proprio come se stesse sussurrando accanto a lui.
- Amico mio… fratello…
Quanto aveva pregato di poter sentire di nuovo quella voce.
- Ti prego…
C’era, nel suo tono, una sofferenza infinita.
- Ti prego, amico mio, fratello… uccidimi.
No. No, no, no, no. Ora che ti ho ritrovato, ora che ho attraversato le tenebre, ora che sento di nuovo la tua voce. No.
- Uccidimi. Prendi una freccia veloce del tuo arco. Tu che hai la mira più acuta delle aquile di Manwë. Ti prego.
Non posso.
- Non lasciarmi qui.
 
Di nuovo cercò delle fessure in quella parete inviolabile, di nuovo ricadde, ancora e ancora. Non si rese conto che stava piangendo finché non sentì il volto bagnato di lacrime. Allora prese il grande arco e scelse una freccia piumata dalla punta acuta, una che lui stesso aveva costruito. La incoccò e tese la corda accanto alla guancia, ma la mano, così sicura quando insieme andavano a caccia nei boschi di Aman, tremava.
Oh, Manwë, Sùlimo, Signore del Cielo, ti prego, fa che questa freccia voli diritta e colpisca infallibile. Abbi un po’ di pietà per i Noldor nel momento del loro bisogno!
Un’ala possente colpì la sua mano e cadde a terra la freccia, inutile. Thorondor, il Signore delle Aquile, lo prese e lo portò in alto.
 
Ma un bracciale di ferro, forgiato nelle fucine del Thangorodrim, teneva inchiodato il polso destro di Maedhros alla roccia. Non era cosa che un semplice coltello potesse rompere, nemmeno un coltello dei Noldor che abili erano nelle opere di metallo. La lama di Fingon si ruppe schizzando via con un suono acuto.
Urlò di frustrazione, l’elfo, e provò a svellerlo con la spada, inutilmente. Maedhros allora gli chiese di nuovo di ucciderlo. Glielo chiese guardandolo negli occhi e Fingon vide quegli occhi bellissimi che imploravano la fine delle proprie sofferenze.
- Tieniti a me – mormorò cercando di sostenerne il peso con un braccio, mentre l’altra mano brandiva la spada. Con un colpo secco la lama calò sul polso, tagliando via la mano e liberando così il prigioniero. Il sangue schizzò come una fontana e Maedhros gridò e poi si abbandonò esanime all’abbraccio di Fingon.
Con un potente battere di ali, la grande aquila li portò via.
 
***
 
Era stato solo un attimo, poi il volto di Maedhros tornò sereno. Fingon gli prese la mano sana e la strinse fra le sue. Era tiepida: il gelo del Thangorodrim stava svanendo.
Gli venne un mezzo sorriso quando ricordò il vespaio in cui si era trasformato il campo quando li avevano visti tornare, lo stupore con cui l’avevano guardato i suoi cugini e i suoi fratelli, il sollievo di suo padre. Nessuno aveva osato dire nulla, ma ora lo guardavano come se fosse uno strano essere partorito dai sogni e quando passava tutti si scostavano da lui quasi con timore. Non gli importava. L’unica cosa che gli importava davvero era che Maedhros fosse di nuovo lì con loro.
 
***
 
Fu dopo molti giorni, quando già Maedhros si era abbastanza ripreso da ricominciare ad addestrarsi con la spada (e, dissero, diventò con la mano sinistra ancora più micidiale) che Fingon lo vide recarsi nella tenda di suo padre per un colloquio privato. Ora, spesso i capitani dei Noldor, che finalmente si erano riuniti, facevano piani per mantenere il controllo del Beleriand e per cingere d’assedio le torri di Angband, ma era la prima volta in cui i capi delle due casate escludevano tutti gli altri dal parlamento.
Fingon era inquieto e così erano i figli di Fëanor, consapevoli che cose gravi si stavano preparando. Quando uscirono, in tutto il campo si fece silenzio e Maedhros parlò con la sua voce alta e chiara.
 
- Ascoltatemi tutti, voi Noldor dell’Ovest che avete come me attraversato il Mare seguendo il Fato. Io, Maedhros, capo della casa di Fëanor, dichiaro di rinunciare al mio diritto di successione in favore di Fingolfin, il più anziano della nostra stirpe e non certo il minore per saggezza, perché nessun rancore resti più fra noi e insieme possiamo sconfiggere l’unico nostro vero nemico. Da ora dichiaro che Fingolfin sarà il nostro re e io e la mia casata gli ubbidiremo così come è giusto che sia.
 
Un attimo di attonita quiete seguì questo discorso, finché il campo tutto di nuovo esplose di gioia. Solo molto più tardi Fingon raggiunse l’amico nella sua tenda. Lo osservò a lungo. Maedhros era cambiato: era diventato più tagliente, come una lama forgiata a lungo nel fuoco, e l’ombra delle sofferenze subite non sarebbe mai più svanita dal suo volto, ma, forse proprio per questo, Fingon lo amava ancora di più.
- Non l’ho fatto per questo! – esordì. Non voleva debiti di gratitudine e soprattutto non voleva quel fardello.
Maedhros sorrise.
- Nemmeno io – rispose.
- I tuoi fratelli sono d’accordo?
- Certamente.
La voce di Maedhros risuonava decisa e asciutta.
- Permettimi di dubitarne.
- Non importa. Non sono stupidi. Sanno bene che era l’unico modo per fare un fronte comune contro Morgoth. Il resto non mi interessa. Guarda dove ci ha portato il nostro smisurato orgoglio! Pensavamo forse di essere degli dei? Vedrai cosa ne sarà del nostro orgoglio prima della fine. Io…
Si interruppe con un sospiro.
- Io non sono in cerca di vendetta – ricominciò più pacato. – Non c’è nulla che possa riportare indietro quello che abbiamo perduto, ma questo abominio distruggerà ogni cosa e noi abbiamo il dovere di fermarlo, noi che, nella nostra arroganza, abbiamo prestato orecchio alle sue lusinghe. Lo capisci questo?
- Sì.
- Allora va bene. Va tutto bene.
 
Fingon si permise una piccola risata. “Va tutto bene” non era esattamente il modo giusto di definire la loro situazione, ma era il meglio che in quel momento potessero aspettarsi, e tanto gli bastava.
Accettò la coppa che l’amico gli porgeva e bevve un lungo sorso. Qualsiasi cosa fosse arrivata in futuro, l’avrebbero affrontata insieme.
 
 
 
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NdA: l’invocazione di Fingon a Manwe e il discorso di Maedhros al campo sono rielaborazioni dirette del Silmarillion. Il resto è una libera interpretazione dello scarno racconto esistente.
Per chi non lo ricordasse: Il Giuramento è quello fatto dai figli di Fëanor di recuperare i Silmaril (giuramento che agisce come una maledizione), il Fratricidio è l’assalto dei Noldor alle navi dei Teleri, mentre la rivalità fra la casa di Fëanor e quella di Fingolfin e Finarfin deriva dall’abbandono delle genti di Fingolfin sull’Helcaraxe (il Ghiaccio Stridente) da parte di Fëanor. Alla morte di Fëanor la successione al trono spetterebbe a Maedhros, il maggiore dei suoi figli, ma egli vi rinuncia in favore di Fingolfin, fratellastro di Fëanor e padre di Fingon. Fingolfin muore in seguito sfidando Morgoth in persona, dopo la Dagor Bragollach (Battaglia della Fiamma Improvvisa) e Fingon diviene a sua volta re supremo dei Noldor.
  
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