Libri > Altro - Sovrannaturale
Ricorda la storia  |      
Autore: Dk86    15/11/2008    8 recensioni
(Fanfiction ispirata a "I Guardiani della Notte", di Sergei Lukyanenko)
Tigre, Tigre, che ardi splendente
Nelle foreste della notte,
Quale mano o occhio immortale osò
Delineare la tua spaventosa simmetria?
(William Blake)
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ci sarà qualcuno sul sito che conosce "I Guardiani della Notte" e gli altri libri di Lukyanenko? Mah. Questa storia - che ho scritto per un concorso dell'Anonima Autori - è un mio tentativo di dare un passato ad uno dei personaggi della saga che più mi ha affascinato e di cui purtroppo si sa poco, ovvero Tigrotto. Ho cercato di rimanere il più In Character possibile con tutti i personaggi, e spero di esserci riuscito.
Buona lettura!
Davide



SPAVENTOSA SIMMETRIA


"Più veloce, più veloce!". Gli strilli eccitati di Julja si perdevano nel vento, ma non prima che le mie orecchie riuscissero a registrarli. Gettai un'occhiata rapidissima subito dietro le mie spalle: il volto della ragazzina era illuminato da una luce allegra e un po' folle; qualche ciocca dei suoi capelli era sfuggita al casco che portava ben assicurato sulla testa e le rimbalzava sulla fronte. Teneva le braccia ben strette contro il mio addome, ma la cosa non mi infastidiva.
"Non posso!" gridai, in modo che lei potesse sentirmi. "La polizia poi vorrebbe la mia testa!".
"Basta condizionarli in modo che non vedano", ribatté lei. Piccola, pratica Julja. "Posso farlo io senza problemi, se tu stai guidando".
"Siamo agenti della Guardia della Notte", le risposi io. "Non possiamo fare cose di questo tipo, lo sai bene".
"Oh, scommetto che quando Semen e Anton hanno preso in prestito la tua moto l'ultima volta l'hanno fatto...", disse lei, facendo un po' la sostenuta.
Rallentai per fermarmi ad un semaforo appena diventato rosso. La Harley ebbe un piccolo sobbalzo durante la frenata a causa di una crepa nell'asfalto, e la cosa strappò l'ennesima risata a Julja. Mi voltai a guardarla, cercando di imitare lo sguardo che avevo visto tante volte fare alle madri quando stanno impartendo una lezione ai propri figli; senza particolare successo, visto che la mia passeggera non si mostrò per nulla intimidita.
"Dai, Tigrotto", mi implorò. "Siamo quasi arrivate, no? L'ultima volta che sono venuta a casa tua ha guidato Ilja, ed è stato così noiooooooso... Sono sicura che perfino Polina Vasilevna ha una guida più sportiva della sua".
"Non credo nemmeno che Polina Vasilevna abbia la patente, a dire il vero", dissi, reprimendo un sorrisetto al pensiero dell'amabile vecchia signora, che lavorava come istruttrice delle nuove leve della Guardia della Notte, a cavallo di una moto di corsa. Julja continuava a fissarmi con aria supplichevole; sembrava un cucciolo smarrito. Se avesse potuto, si sarebbe messa anche a guaire e avrebbe abbassato le orecchie, probabilmente. "E va bene", capitolai. "Per l'ultimo tratto andrò un po' più veloce. Ma non chiedermi di impennare".
Arrivammo alla mia villa in meno di cinque minuti. Quasi mi aspettavo che qualche proprietario di scuderia in vena di mecenatismo mi fermasse all'improvviso per offrirmi un posto nella sua squadra; o che uno sciame di autovetture si mettesse ad inseguirci, e che mi toccasse compiere qualche folle manovra per riuscire a seminarle.
Purtroppo, non accadde nessuna delle due cose.
Non appena Julja fu balzata a terra e si fu liberata del casco, i miei cani le furono addosso. Ovviamente non avevano alcuna intenzione aggressiva: l'ultima volta che la ragazzina era stata mia ospite se li era fatti amici in breve tempo; il che aveva dell'incredibile, considerando che in quell'occasione, proprio all'arrivo di Julja, erano stati immobilizzati da un incantesimo di congelamento che li aveva lasciati parecchio scossi. Non era certo colpa loro, si erano limitati solo a fare ciò che avevo insegnato: se vedete un'aura intensa difendete la proprietà, anche se l'aura è della Luce. Non si poteva mai essere troppo sicuri.
"Pjotr, Nelson, cuccia", intimai ai due dei terrier più esuberanti del piccolo branco. Gli animali smisero immediatamente di ricoprire di bava il volto di Julja, che si alzò in piedi continuando a ridacchiare.
"Non mi davano così tanto fastidio, davvero", disse, ripulendosi alla bell'e meglio con i dorsi delle mani. Senza preoccuparmi di mettere al riparo la moto - le avevo imposto tante di quelle protezioni contro i furti che ogni tanto perfino io mi sentivo in colpa quando la avviavo - sospinsi la ragazzina verso casa. "Vieni, che ti preparo un bagno, su".
Sono orgogliosa della mia stanza da bagno: è ampia e luminosa, con una grossa Jacuzzi incassata nella parete di fondo. Ovviamente non mi sarei mai potuta permettere qualcosa del genere, in condizioni normali... Ma far parte della prima linea della Guardia della Notte ha i suoi vantaggi.
Prima ancora che me ne accorgessi, Julja si era già spogliata e guardava con aria d'aspettativa la vasca vuota. "Possiamo usare l'idromassaggio?", domandò.
"Non oggi", le risposi, chinandomi per aprire i rubinetti. "Adesso ci dobbiamo lavare, e sai che succede a mischiare bagnoschiuma e idromassaggio?". La ragazzina finse un broncio, poi però scoppiò a ridere e si mise a giocherellare con le confezioni di shampoo, aprendole una a una e annusandone il contenuto.
Pochi minuti dopo eravamo entrambe immerse nell’acqua calda, a goderci un po’ di meritato relax: i giorni precedenti erano stati parecchio movimentati per noi della Guardia della Notte, sia per gli operativi di prima linea come me sia per chi agiva nelle retrovie. Con una grossa spazzola stavo pettinando la lunga chioma castana di Julja, seduta in posizione fetale fra le mie gambe.
“Grazie per avermi invitata a casa tua, Tigrotto”, disse lei. Sogghignai fra me, notando che la punta delle sue orecchie era diventata scarlatta, e non soltanto per il calore del bagno.
“Ah, non dirlo nemmeno”, risposi io. “Ho notato che l’altra volta tu ti sei divertita più di tutti; e poi è uno dei miei rarissimi periodi di ferie, quindi ho pensato che venire qui insieme ad un’amica”.
“A-amica?”, balbettò lei.
Mi concessi un altro sorrisetto. “Beh, diciamo più come la sorellina che mi sarebbe piaciuto avere”. O come la figlia che probabilmente non avrò mai, aggiunsi mentalmente con una buona dose d’amarezza. “Hai dei capelli bellissimi”, dissi a Julja, per tentare di scacciare i brutti pensieri.
Lei si voltò di lato, per riuscire a guardarmi oltre la spalla. “Anche i tuoi sono davvero belli”.
Fra noi calò qualche minuto di silenzio. Io appoggiai la spazzola su un mobiletto accanto alla vasca e mi rilassai contro il bordo, mentre Julja prese a canticchiare qualcosa a bassa voce; all’inizio non afferrai le parole, poi drizzai le orecchie e capii che invece di una melodia quella che usciva dalle labbra della ragazzina era una poesia.
“Tigre, tigre, che ardi splendente
Nelle foreste della notte…”

“Conosci Blake?”, le dissi in tono calmo.
Lei sobbalzò, probabilmente perché non si era resa conto che potevo sentirla. “Non credevo sapessi questa poesia”, mormorò in un tono che sembrava di scusa.
“…Quale mano o occhio immortale osò
Delineare la tua spaventosa simmetria?”
, completai per lei. “Mi stupisci ogni giorno di più, Julja!”.
“Non è nulla di che”, si schermì lei. “Se vuoi te la posso recitare anche in inglese, eh”.
Cadde ancora la quiete, ma si trattava di un silenzio nervoso: dal leggero agitarsi della schiena della ragazza capivo che c’erano delle parole dentro di lei che premevano per poter diventare voce. Alla fine Julja trovò il coraggio che le serviva. “Senti, Tigrotto, tu… Come ti chiami? Come ti chiami davvero?”.
“Oh”, esclamai io, sinceramente sorpresa: non mi aspettavo una domanda di quel tipo. “Sai, è davvero raro che qualcuno me lo chieda, di solito tutti si accontentano di chiamarmi Tigrotto, e…”. Sospirai, troncando a metà la frase. Gli occhi mi stavano tradendo, e sperai che Julja non decidesse di voltarsi proprio in quel momento e di sorprendere il mio sguardo lucido. “Katja”, risposi semplicemente.
“Katja”, ripeté lei, facendosi passare il mio nome sulla lingua. Da quanto tempo non lo sentivo pronunciare da qualcun altro? “E’ un bel nome”.
“Grazie”, dissi, cercando di far sì che la mia voce non si spezzasse. Oh, al diavolo, pensai subito dopo. Per una volta che ho l’occasione di sfogarmi con qualcuno… “Senti, Julja… Posso raccontarti una storia?”.
Lei si voltò, rendendosi forse solo in quel momento del fatto che ero sull’orlo delle lacrime. Non disse nulla: annuì soltanto, e le fui molto grata per questo.
“Bene”, dissi io, sentendo che le mie parole tornavano ad acquistare sicurezza. “Non è una fiaba, anche se ci sono mostri e stregoni… Va bene lo stesso?”.
Lei alzò le spalle. “E’ la storia delle nostre vite”, disse. Non riuscii a non sorridere.


La prima volta che entrai nel Crepuscolo avevo sette anni. Il ricordo di allora è estremamente chiaro, molto di più di quello del mio primo bacio (dato a quindici anni ad uno studente sbronzo mentre cercavo di passare per una normale ragazza durante una ricognizione d’addestramento per conto della Guardia della Notte, per inciso). Ero in quello squallido buco dalle pareti infestate da chiazze umide che mio padre si ostinava a definire “appartamento”, e me ne stavo tranquilla nella mia cameretta a giocare con un logoro pupazzo di stoffa cercando di evitare di calpestare qualcuna delle blatte che ogni tanto sfrecciavano sul pavimento di linoleum scadente. Il pelouche, manco a dirlo, era una tigre chiamata Tigrotto; non ho mai avuto particolare fantasia con i nomi, d’altronde. Uno degli occhi gialli di plastica era saltato via un anno prima e non c’era stato più verso di trovarlo, e da un piccolo buco sulla coda aveva perso quasi tutta l’imbottitura, ma nonostante questo era il mio compagno di giochi preferito.
“Allora, Tigrotto, dove andiamo oggi?”. Parlavo a voce alta, per tentare di coprire i singhiozzi di mio padre. Come ogni pomeriggio, se ne stava seduto sul divano circondato da bottiglie vuote di vodka, a piangere come un vitello sul suo album di nozze; non ricordavo granché di mia madre, dato che era morta quando avevo tre anni, ma doveva essere stata una donna meravigliosa, se lui da allora non era più a riuscito a riprendersi ed affogava il suo dolore nell’alcool ogni santo giorno.
“Mi piacerebbe andare a bere una tazza di tè”, disse Tigrotto. Beh, in realtà ero io che facevo il lavoro anche per lui, e neppure piuttosto bene, visto che la mia voce e la sua erano del tutto identiche.
“In effetti potremmo bere qualcosa…”, risposi dubbiosa. Non mi sarebbe spiaciuto un bicchiere d’acqua, ma per andare in cucina sarei dovuta passare dal soggiorno. Non che mio padre sia mai stato cattivo con me o abbia mai alzato le mani, nemmeno quando era ubriaco perso; anzi, la cosa più terribile è che quando era in quello stato e io mi avvicinavo a lui e gli parlavo, mi guardava con aria confusa ed addolorata, come se non mi riconoscesse ma sapesse che avrebbe dovuto e la cosa lo ferisse.
Mai quanto faceva male a me, in ogni caso.
Considerai anche l’ipotesi di andare in bagno, ma la grossa ragnatela tesa ad uno degli angoli del soffitto ed il suo pasciuto, quasi mostruoso abitante, mi terrorizzavano, tanto che ormai entravo in quella stanza solo quando non riuscivo più a trattenermi ed anche in quel caso evitavo con accuratezza di alzare gli occhi.
“Ripensandoci, perché non esploriamo un po’ la giungla?”, dissi, guardandomi intorno. La mia stanza era diventata un sacco di cose con il passare del tempo: il fondo del mare, il deserto, il picco di una montagna… Il fatto che non contenesse molte cose oltre al letto, una piccola scrivania ed un paio di scaffali aiutava indubbiamente. La nostra vicina, la signora Pav’lova, una volta alla settimana veniva a fare una sommaria pulizia nel nostro appartamento – sospetto fosse mossa da pietà – e la mia camera non era in condizioni pessime come la stanza di mio padre, per dirne una; se si faceva attenzione alle blatte, ci si poteva sedere a giocare per terra senza problemi.
“Mmh… d’accordo”. Tigrotto non suonava molto convinto, a dire il vero, ma dato che ero io a farlo muovere mi ritenevo in diritto di prendere le decisioni per entrambi.
Chiusi gli occhi per un attimo, cosa che facevo sempre quando mi apprestavo ad iniziare un gioco di fantasia, e cercai di convincere me stessa che sì, quella dov’ero era davvero la giungla, e che ci sarebbero stati dei pappagalli colorati e delle scimmie sui rami degli alberi e probabilmente anche qualche serpente velenosissimo, anche se di loro avrei fatto volentieri a meno; di solito, quando mi concentravo in quella maniera, tutto ciò che sentivo era un lieve formicolio alla nuca, ma quella volta fu diverso.
Sentii freddo. Un freddo incredibile. E quando riaprii gli occhi, non vidi né scimmie, né mamba, né tronchi ricoperti da rampicanti; solo uno squarcio scuro sul muro, l’ingresso di una caverna di cui non riuscivo a vedere il fondo.
“Guarda, una caverna! Scommetto che è piena di tesori”, dissi a Tigrotto. Non avevo paura, né trovavo particolarmente strano che ci fosse un buco nella parete della mia cameretta: era parte del gioco, in fondo.
“Non sarà pericoloso?”, rispose lui. Suonava ancora più dubbioso di poco prima.
“Sei davvero un fifone, Tigrotto”, lo rimproverai. “Non si dice mica ‘avere il coraggio di una tigre’?”.
“Quelli sono i leoni”, borbottò lui, prima che io infilassi un piede nell’ombra scura e facessi il mio primo passo nel Crepuscolo.
La prima cosa a cui pensai fu che più che in realtà la grotta fosse una parte del muro della mia stanza che era crollato e che fossi finita nell’appartamento della signora Pav’lova.
Magari è meglio se dà una pulita anche alla sua, di casa, pensai con disgusto, guardandomi intorno: le mura erano letteralmente divorate da uno spesso tappeto di muschio di colore blu, e pavimento, soffitto e i pochi mobili che trovavano posto nella stanza sembravano ricoperti da fuliggine. Mossi qualche altro passo esitante, fino a portarmi al centro della stanza; mi tenevo ben lontana dalle pareti, perché quei licheni avevano un'aria malsana e pensai che toccarli sarebbe stato come accarezzare un ratto o qualcosa di altrettanto disgustoso. Iniziai a sentirmi stanca, come se quel maledetto muschio mi stesse piano piano succhiando le energie dal corpo; mi voltai verso il letto grigio fissandolo attraverso le palpebre pesanti e mi chiesi se alla signora Pav'lova sarebbe dispiaciuto se io mi fossi appisolata lì. Poi, però, notai il copriletto decorato a fiori di campo e mi resi conto che quello era il mio letto.
"E' tutto troppo strano qui, Katja", disse debolmente Tigrotto. Teneva la testa contro il mio fianco, l'unico occhio di plastica premuto contro l'orlo della mia gonna per non vedere quella strana stanza grigia con il muschio alle pareti. "Torniamo indietro, va bene?".
La sonnolenza continuava ad aumentare, e per poco non cedetti. "Sì, hai ragione...", riuscii a mormorare alla fine.
Quando ebbi riattraversato il buco nel muro, parte della stanchezza sparì, forse per il sollievo di essere di nuovo nella mia cameretta; tutto era come lo ricordavo: niente muschio sulle pareti, i fiori sul copriletto avevano ripreso colore, e non faceva più così freddo.
L'unica differenza era che in piedi al centro della stanza c'era un uomo alto, con gli occhiali ed i capelli brizzolati. Mi fissava con aria severa, le braccia magre incrociate sul petto. "Iniziavo a pensare che non saresti uscita più, Katja", disse.
Corrugai la fronte, non particolarmente intimorita. "Beh, sono uscita", risposi. "Tu chi sei? Sei un poliziotto?". Ogni tanto la signora Pav'lova mi lasciava vedere la televisione con lei, e i poliziotti non mi stavano particolarmente simpatici: passavano tutto il loro tempo ad arrestare le persone o a puntare loro contro le pistole.
"No, non sono un poliziotto. Non proprio, almeno", disse lui.
Mi mordicchiai il labbro inferiore. "In effetti non sembri uno con una pistola".
Lui si lasciò sfuggire un abbozzo di sorriso. "E' un po' che ti tenevo d'occhio, sai, Katja?".
"Come fai a sapere come mi chiamo, scusa?", domandai io.
L'uomo mi fissò con sguardo penetrante, poi annuì. "Giusto, non voglio sembrare scortese". Mi tese la destra. "Mi chiamo Ilja, piacere".
Passai Tigrotto nella sinistra e gli strinsi la mano. "Io sono Katja, anche se tu lo sai già". Sollevai il pupazzo. "E lui è Tigrotto. Saluta, Tigrotto".
"Ciao", disse lui.
Ilja gli prese una zampa anteriore, anche se improvvisamente sembrava un po' a disagio. "Dobbiamo andare, ora", disse poi.
"Dove?", chiesi io.
"In un posto in cui ciò che sei capace di fare sarà molto utile", rispose lui.
Annuii con aria convinta. "Quando mio papà è troppo ubr... cioé, volevo dire, stanco, faccio io da mangiare. Dici che può servire?".
Ilja tentò di nuovo di sorridere, ma era come se la sua bocca fosse contraria all'idea. "Può essere. Ora vieni, sono un po' di fretta".
Senza che lui avesse bisogno di aggiungere altro, mi sedetti sul letto e mi infilai le scarpe; avevo conosciuto quell'uomo un minuto prima eppure andare da qualche parte insieme a lui non mi sembrava un problema, e non solo perché aveva ammesso di non essere un poliziotto e che quindi non poteva arrestarmi. Era semplicemente come se fosse giusto così, e basta. Mentre Ilja apriva la porta della camera, però, chiesi. "E papà? Viene anche lui?".
Lo sguardo di lui si indurì. Qualche anno più tardi avrei finalmente capito che quello era il suo modo tutto personale per esprimere imbarazzo, ma in quel momento mi spaventai un pochino. "No, tuo padre ha il suo lavoro. Però potrai vederlo molto spesso, ogni volta che lo vorrai".
Papà era sulla soglia del soggiorno, mentre ci dirigevamo verso l'ingresso. Mi fissava, ed era lucido come mai mi ricordavo di averlo visto. Il suo sguardo era stanco e triste. "Vai con il signor Ilja, Katiusca", mi disse, chinandosi per darmi un bacio sulla fronte. "Con loro starai meglio che qui con me".
Non ho mai saputo se Ilja l'avesse condizionato oppure se si fosse limitato a spiegargli come stavano le cose; non me ne è mai importato, in effetti. Quello fu il momento in cui mi sentii più vicina a mio padre in tutta la mia vita, e non mi importa se sia stata un'illusione oppure no.
Una lacrima mi scese sulla guancia sinistra. Tesi a mio padre Tigrotto, e lui lo prese con molta delicatezza. "Tienilo tu", mormorai. "Altrimenti ti sentirai solo".
"Grazie", fu ciò che lui riuscì a dire.
Sul pianerottolo c'era la signora Pav'lova, con il suo onnipresente grembiule scolorito e i resti di una messa in piega vecchia di settimane. Teneva in mano un pacchetto di caramelle alla frutta, di quelle gommose e ricoperte di zucchero; me lo mise fra le mani e mi scompigliò i capelli.
Fu l’ultima volta che la vidi.


Il corso di addestramento della Guardia della Notte mi piaceva: era come stare a scuola ma si imparavano cose molto più divertenti, e non c’erano bambini con la faccia sporca di terra che tentavano di rubarti la merenda. A sette anni ero la più giovane residente fissa del quartier generale, e venivo trattata un po’ come una mascotte: tutti facevano a gara per regalarmi qualcosa, o offrirmi una cioccolata, o portarmi alle giostre in un parchetto vicino.
Papà veniva a trovarmi una volta ogni due settimane, con indosso il vestito buono – quello con cui si era sposato, e che non indossava in nessun’altra occasione perché gli ricordava troppo mamma – e senza l’abituale odore di vodka che gli gravitava intorno come uno sciame di insetti. In quelle occasioni sono convinta che lo condizionassero in qualche maniera, perché era sempre un po’ distratto e distante, solo che contrariamente al solito non era ubriaco. Lui mi chiedeva come stavo e io finivo sempre per parlare con gran fervore delle lezioni che frequentavo e delle cose che imparavo, anche se sapevo che il resto della Guardia non avrebbe granché approvato: in fondo, ero una degli Altri, e c’era sempre la possibilità che mio padre venisse catturato e torturato da qualche esponente della Guardia del Giorno per riuscire a strappargli qualche informazione su di me e sulle nostre attività.
Ma ero anche una bambina, e cose come la guerra fra fazioni per me erano opache e indistinte, sfumate dalla lontananza.
E così gli raccontavo delle lezioni di magia analitica del signor Edik, del modo corretto di interpretare le auree della gente, e del corso della professoressa Poliakova, che era il mio preferito. Lui mi sorrideva e annuiva, con qualche sporadica domanda infilata nel mezzo. Sembrava sempre un po’ più magro e un po’ più pallido ogni volta che lo vedevo.
Il tempo passò in fretta, presso la Guardia del Giorno. Prima che quasi me ne accorgessi avevo compiuto tredici anni, e da una bambina magra dall’espressione sparuta e dagli enormi occhioni verdi ero diventata una quasi adolescente con le ginocchia ossute e l’aria un po’ truce.
Fu una settimana dopo il mio compleanno, che Boris Ignatevic, il capo della Guardia della Notte, mi convocò nel suo ufficio per forgiare in maniera irreversibile la mia vita da quel momento in poi. Ero emozionata ed anche un po’ impaurita, quando varcai la porta dello studio: non ero mai stata chiamata lì, e nei miei cinque anni di residenza presso il quartier generale avevo scambiato con Boris Ignatevic più o meno una ventina di parole, quindi, mentre abbassavo la maniglia, iniziai a temere di avere combinato chissà cosa.
Uno dei più potenti maghi della Luce sedeva dietro la sua scrivania, le mani intrecciate davanti a sé. I suoi occhi dal taglio orientale, neri come il pelame di una pantera, mi fissavano con espressione bonaria, cosicché l’improvvisa preoccupazione che mi aveva assalito scomparve altrettanto in fretta.
“Boris Ignatevic”, mormorai dalla soglia, chinando lievemente la testa così come mi era stato detto di fare. Cercai di assumere l’espressione più seria possibile, come si conveniva in un’occasione formale, poi però non riuscii a trattenere un sorriso quando vidi la donna in piedi accanto a lui: la maestra Poliakova, che teneva il corso di magia curativa.
Amavo la taumaturgia: mi piaceva pasticciare con erbe e pozioni e avevo grande attitudine nel controllo dei campi psichici; e adoravo la maestra Poliakova, una donna giovane, comprensiva e gentile, dal volto dolce e un po’ malinconico. Così, quando lei disse: “Siediti, Katja”, e mi indicò la poltroncina di fronte alla scrivania, mi accomodai senza fare domande.
“Bene, Katja, ti ho chiamata qui perché volevo discutere con te del tuo futuro”, disse Boris Ignatevic. La sua voce profonda ha il potere di far sentire a suo agio chi la ascolti, se così lui vuole; mi sono sempre chiesta se questa sia una sua dote naturale o se la magia sia ormai tanto connaturata al suo essere che questo tipo di fascinazione gli venga del tutto istintivo. “Gradisci una tazza di tè e dei biscotti?”, domandò poi, facendo un cenno alla professoressa. Lei prese una teiera di argento sbalzato – che valeva probabilmente lo stesso ammontare di denaro che mio padre guadagnava in un anno – e versò il tè nella tazza di porcellana squisitamente decorata posta davanti a me.
“Dunque, come dicevo, il tuo futuro”, ripeté il capo dei maghi della Luce dell’Unione Sovietica. “Gli addestratori della Guardia della Notte mi hanno parlato tutti benissimo dei tuoi studi, quando ho chiesto di te a Polina Vasilevna mi ha ripetuto per almeno venti minuti quanto tu fossi brava e soprattutto beneducata”. Si concesse una breve risata, poi proseguì. “E poi la maestra Poliakova, qui presente, mi ha riferito che sei estremamente dotata nella sua specializzazione, e che è davvero difficile vedere qualcuno bravo quanto te nel manipolare e nel resistere ai campi psichici”.
Arrossi e chinai la testa, affondando lo sguardo nella bruna torbidezza del te. “No, beh, non sono così brava…”.
“Non è vero, e lo sai bene”, intervenne la maestra Poliakova, e io mi sentii ancora più in imbarazzo, anche se era una sensazione per nulla spiacevole.
“In ogni caso, a me piacerebbe molto poter diventare una taumaturga, se fosse…”, iniziai, sollevando la testa, ma vidi che lo sguardo di Boris Ignatevic si era leggermente incupito e mi bloccai, incerta sul da farsi. Avevo commesso qualche errore? Volsi gli occhi verso la maestra Poliakova, ma lei fissava il muro alla sua destra, come se stesse evitando un contatto con me.
“Vedi, Katja”, continuò l’Arcimago della Luce. “Attualmente non ci servono altri maghi in grado di curare; il reparto taumaturgico, anzi, è anche fin troppo affollato. Quello di cui abbiamo estremo bisogno, in realtà, è qualcuno che stia in prima linea”.
I miei occhi continuavano a spostarsi da Boris Ignatevic alla maestra Poliakova. La piacevole sensazione che mi veniva dall’essere lodata si era spenta del tutto, lasciando il posto alla confusione più totale. “Prima linea? Io… Io non capisco…”.
“E’ emerso che oltre a quello per la cura, tu possiedi un altro grande talento che aspetta solo di essere sviluppato”, spiegò l’uomo con tono paziente. “Vale a dire quello per la metamorfosi”.
Scossi la testa con violenza. “No, io… Non lo voglio fare. Trasformarsi non mi piace, è… E’ doloroso e… E io non voglio”.
“Katja, ti stai comportando come una bambina”, disse la maestra Poliakova. “Dovresti ascoltare ciò che Boris Ignatevic ha da dirti, lui è molto più saggio ed esperto di tutti noi…”.
La fissai con furia, tanto che lei fu costretta di nuovo a distogliere lo sguardo da me. “Io credevo che lei sarebbe stata dalla mia parte!”, le urlai contro.
“Cerca di capire…”, cercò di ribattere lei, ma io la interruppi ancora.
“No, non mi importa capire!”, ormai ero sull’orlo delle lacrime. “Lei non era qui perché io sono brava nella magia di cura, vero? Lei è qua perché lei è la mia maestra preferita e Boris Ignatevic le ha chiesto di aiutarlo a convincermi che dovrei imparare come ci si trasforma, vero?”.
“Dovresti calmarti e bere un po’ di tè”, intervenne Boris Ignatevic in tono calmo.
Non lo voglio il suo stupido tè!”, gridai, battendo un pugno sulla scrivania tanto forte da far rovesciare la tazzina. Il liquido scuro si sparse dappertutto, ma al mago basto passare la mano a qualche centimetro dal legno pregiato perché tutto tornasse normale.
“Ecco, questa è la grinta che ti ci vuole!”, esclamò. “Non credevo l’avresti tirata fuori tanto in fretta, ma sapevo che sotto sotto tu hai un animo ardente”.
“Le ho già detto che io non…”, cominciai, ma stavolta fu il mio turno di essere interrotta.
“Katja, ora ti parlerò molto chiaramente”, disse, in tono talmente serio che mi strinsi contro la spalliera della poltrona. Ero ancora furibonda, ma all’improvviso avevo troppa paura in corpo perché la rabbia potesse uscire. “Io non ti obbligherò a fare nulla; ciò che deciderai di fare sarà frutto di una tua scelta personale, e nulla di più. Devo comunque ricordarti che in questi cinque anni la Guardia della Notte ti ha nutrita, vestita, ti ha dato un letto e un tetto sopra la testa, nonché un’educazione. Noi non siamo un ente di beneficenza, combattiamo una guerra millenaria contro le forze delle Tenebre, e se abbiamo deciso di tenerti presso di noi è stato perché abbiamo riconosciuto in te determinate potenzialità. Potenzialità che non possiamo permetterci vadano sprecate”.
“Suona come un ricatto”, dissi in tono amaro.
Boris Ignatevic scosse la testa. Aveva un’aria quasi affranta, come se lui fosse stato un prete e io avessi appena bestemmiato. “Noi della Luce non usiamo simili mezzi, dovresti saperlo bene. Tutto ciò che facciamo è in funzione di qualcosa di più grande; ognuno di noi ha un preciso compito in quel disegno. Sta a te capire qual è il tuo”.
Capitolai, alla fine. Davanti a quegli occhi duri e implacabili quanto il tempo non c’era molto che una tredicenne infuriata potesse fare, sarebbe stato come tentare di arginare lo straripamento di un fiume con un fuscello.
Ma non rivolsi mai più la parola alla maestra Poliakova. E quando la incrociavo nei corridoi del quartier generale, con la sua espressione malinconica da Madonna di Raffaello, voltavo lo sguardo lontano da lei.


Trasformarsi è doloroso, come ho già detto. Un tipo di dolore che ti penetra, ti viola e ti distrugge.
Non è tanto il diventare un animale il problema; anzi, quello è piuttosto facile. E’ come scendere a gran velocità seduto su una lastra di vetro, che si incrina e si rompe dopo il tuo passaggio, e in men che non si dica sei arrivato in fondo.
Quando si tratta di tornare umani, però, quella lastra è in salita, ed è estremamente ripida. E non appena inizi a strisciarci sopra, continuando a spostare lo sguardo in alto per vedere quanto manca ancora alla cima, le crepe frastagliate ti strappano la pelle, le schegge si infilano nella carne viva, ed il sangue inizia a scorrere e rende la salita ancora più impervia e scivolosa. Ma la cosa peggiore, forse, è il fatto che tutto questo avviene solo nella tua mente; se le ferite fossero reali, se il vetro fosse tangibile e le schegge si potessero estrarre forse sarebbe un po’ meno peggio; ma ciò che ti brucia sotto la pelle e che ti fa versare lacrime e digrignare i denti è una sensazione che proviene unicamente da dentro di te. E’ il tuo stesso corpo che ha finalmente assaporato la completa, perfetta libertà dell’essere un animale e si ribella al tuo voler tanto ostinatamente tornare ad essere un goffo e limitato sarcofago di pelle ed ossa. E così ti ritrovi rantolante e nuda – trasformare i vestiti è difficilissimo – sdraiata a terra in posizione fetale, e tutto ciò che vorresti è farla finita una volta per tutte. Poi il dolore passa, e a sostituirlo ci sono l’orrore e la consapevolezza del fatto che la prossima volta che dovrai cambiare forma, ad attenderti ci sarà di nuovo tutto questo.
All’inizio era questo ciò che provavo, quando diventavo una tigre. Essere un enorme felino e poter volendo uccidere soltanto con un rapido movimento di una zampa dava una sensazione di potere selvaggia e inebriante, tanto che se non mi avessero imposto una Chiave di Sonnolenza alla prima trasformazione avrei ucciso gli Altri presenti nella stanza prima che potessero avere la possibilità di gridare. Ma quando fui di nuovo umana non ero che una ragazzina che piangeva per il dolore e la vergogna, accasciata su un fianco con un braccio a proteggere l’accenno di seno.
Nella Guardia della Notte russa i maghi mutaforma sono estremamente rari; la mutantropia è una branca della magia che di solito la maggior parte degli Altri associa d’istinto alle forze delle Tenebre, e non sono molti coloro dal nostro lato della medaglia che possiedono le capacità necessarie a riuscire ad ottenere una mutazione stabile. Sapevo che c’era un altro mutaforma come me, nella Guardia, ma ero anche a conoscenza del fatto che era stato a lungo di stanza a Berlino; ora, però, a qualche mese dalla crollo del Muro, avevo sentito dire che forse gli avrebbero permesso di tornare in patria.
Così mi esercitavo con chi capitava: a volte mi dava una mano Ilja; altre volte c’era Semen, un Altro dall’aria un po’ cinica che, sospettavo, sarebbe stato tranquillamente in grado di sopraffarmi a mani nude anche mentre ero in forma di tigre; altre ancora Igor Teplov, dall’aria giovanile che mi intratteneva con lunghi discorsi intrisi di idealismo che stranamente riuscivano a tranquillizzarmi. Il risultato, però, era sempre lo stesso: alla fine mi ritrovavo a boccheggiare per il dolore sul pavimento, senza che nessuno potesse fare niente per aiutarmi. Questo, perlomeno, finché Orso non entrò nella mia vita.
Quella volta, me lo ricordo come se fosse ieri, fu l’unica in cui ad assistermi c’era la povera Polina Vasilevna, che temo traumatizzai parecchio, sia in forma di felino che in quella umana, quando il Crepuscolo ebbe preteso da me un pegno in energia psichica troppo elevato perché io potessi mantenere una mutazione stabile e fossi costretta a ritornare umana. Mentre mi contorcevo a terra gridando sotto l’effetto di una scarica di sferzate mentali più intensa rispetto al solito, la vecchia signora si alzò in piedi e sgambettò fuori dalla stanza, strillando che c’era bisogno di aiuto, che qualcuno faccia qualcosa per quella povera ragazza, per carità.
Io restai lì a terra, cercando di normalizzare il ritmo del mio respiro come mi avevano consigliato di fare. Ovviamente, non funzionò. Qualche secondo dopo sentii la porta dell’aula che si apriva, e passi pesanti che si avvicinavano a me; sollevai gli occhi arrossati e vidi una gigantesca forma dai contorni confusi che mi sovrastava.
Non ebbi paura, anche quando riuscii a mettere a fuoco e capii che davanti a me c’era un grosso orso bruno dal muso un po’ triste e le braccia ciondolanti, come quelli che nei circhi venivano vestiti con delle giubbe rosse e costretti a suonare i piatti o l’organetto. Anzi, vedendolo così mogio e nonostante il dolore che finalmente cominciava a darmi un po’ di tregua, mi scappò anche una mezza risata. In realtà suonò più come un rantolo, ma mi sentii comunque molto meglio.
L’orso restò a vegliare accanto a me finché, qualche minuto dopo, non fui di nuovo in grado di mettermi seduta. All’improvviso, accanto a me non c’era più un animale, ma un uomo dai capelli grigi e dal volto serio, con folte sopracciglia grigie che gli davano un’aria mesta. “Sei stata brava”, disse, con voce profonda. Non sembrava un tipo di molte parole, come se lo sforzo per muovere lingua e corde vocali fosse parecchio gravoso per lui. “Mi hanno raccontato di te”.
“Quindi, tu sei… Sei l’altro mago mutantropo?”, chiesi ansimando.
Lui si limitò ad annuire.
“E finalmente sei tornato in Russia?”, dissi poi, guardandomi intorno con un certo imbarazzo, alla ricerca dei miei vestiti; solo in quel momento mi ero resa conto che nella stessa stanza con me c’era un uomo.
“Sarò in squadra con te”, rispose lui. “Quando sarai pronta”.
Mi infilai la biancheria, una maglietta e un paio di jeans. Lui si voltò dall’altra parte senza che nemmeno glielo chiedessi. Mi avvicinai a lui, un po’ imbarazzata: era la prima volta che mi sentivo insieme a disagio e felice al pensiero di parlare con qualcuno. “Senti, tu… Non senti dolore, quando ritorni te stesso? Come delle lame che cercano di strapparti la carne?”.
Lui sollevò gli occhi grigi verso di me. “Ogni volta”, disse. “Lo sento ogni volta”.
“E come fai a sopportarlo? Come riesci a controllarti così bene?”, gli domandai.
L’uomo mi poggiò una mano nodosa sulla testa. Arrossii leggermente. “Ho imparato a sopportarlo, e imparerai anche tu. Anche se sembra che il dolore ti uccida, adesso, e che vorresti morire, capirai che in realtà lo puoi sopportare benissimo, se non gli dai l’importanza che lui vorrebbe”. Rimase per un attimo in silenzio, con gli occhi bassi a fissare i miei piedi nudi. “Non c’è nessuna emozione che sia così forte da non poterla controllare. E se anche qualcosa dovesse riuscire a sopraffarti… Con il passare del tempo, tutto diventa più facile, come quando il dolore della trasformazione scompare”.
Fu uno dei discorsi più lunghi che gli abbia mai sentito fare. Ormai il dolore era quasi del tutto passato, rimanevano solo delle sporadiche fitte alle ossa. “Come ti chiami?”, gli domandai all’improvviso.
Lui alzò le spalle. “E’ molto che non uso più il mio vero nome. Tutti mi chiamano Orso”.
“Orso, eh?”, dissi, assaporando la parola sulla lingua e fra i denti. “Bene. Allora, da oggi in poi, io sarò Tigrotto”.


“Come hai detto che ti chiami, tu?”.
Quel tipo era davvero sbronzo. Il suo alito odorava di whisky, e i suoi occhi erano iniettati di sangue. Ciononostante la cosa non mi infastidiva: era la mia prima uscita come agente – anche se ancora in prova – e allo stesso tempo la prima volta in cui qualcuno tentava di abbordarmi; a dire il vero ero piuttosto eccitata.
“Non l’ho detto, a dire il vero”, gli risposi, sorridendo.
Lui non sembrò cogliere il fatto che gli avessi risposto. “Studio architettura, sai? Come, ehm, costruire... roba, insomma".
"Case?", suggerii io.
Lui mi fissò arricciando le labbra. "Sì... Sembri davvero una sveglia. Come hai detto che ti chiami, tu?".
"Come ti pare", dissi.
"Strano nome. Che sei, francese o qualche altra cosa così?".
"Sì, certo". Luce e Tenebre, questo è proprio andato..., pensai, dando un'occhiata ai dintorni. Ero seduta su una panchina di pietra in un parco pubblico, e il freddo aveva tenuto a casa tutte le persone normali; in giro c'erano solo gli ubriaconi e, beh, io. Orso aveva ricevuto da Boris Ignatevic l'incarico di sorvegliare - con discrezione, ovvio - un mutantropo delle Tenebre sospettato di duplice omicidio ai danni di normali esseri umani; anch'io ero stata assegnata alla missione in qualità di supporto... Ma, dato che il mio addestramento come agente di prima linea non era ancora completato, tutto ciò che Orso mi lasciava fare era starmene seduta da qualche parte a scandagliare le aure dei passanti. Non molto eccitante, in effetti.
Il presunto studente di architettura mi picchiettò sulla spalla. "Ehi, tu".
E adesso che c'è?, mi domandai, voltandomi verso di lui. All'improvviso, sentii la bocca riempirsi del sapore dello whisky con un retrogusto acido, mentre le sue labbra si appoggiavano alle mie; per qualche secondo non fu male, ma poi sentii una mano toccarmi il sedere. Prima ancora che lui potesse accorgersene, io ero già scattata in piedi e sulla sua guancia sinistra spiccava in rosso il segno delle mie dita. "Si può sapere che cazzo ti prende?", biascicò, guardandomi con un misto di risentimento e confusione. "Non dire che non ti piaceva".
"Mmh... Sì, mi è piaciuto anche, in effetti", risposi con sincerità. Lui sembrò ancora più sbalordito. "Ora però è meglio se vado".
Mentre mi voltavo e imboccavo il sentiero per uscire dal parco, lo sentii borbottare: "Credevo che le francesi fossero più disponibili...".
Dopo qualche minuto, mi immersi nel fragore di Mosca. Anche se dentro di me c'è anche una tigre, sono un animale da città: sono cresciuta qui, e non conosco nessun altro luogo oltre a questo. In una giungla vera finirei massacrata in poco tempo, ma fra questi enormi alberi di mattoni e vetro è difficile trovare qualcuno che riesca a tenere il mio passo.
Per le strade la gente era molta di più, nonostante il clima di Febbraio non invitasse certo ad uscire; io mi aggiravo sui marciapiedi, esaminando le aure di coloro che si avvicinavano. Anche se avessi raggiunto Orso, lui di sicuro non mi avrebbe fatto partecipare alla missione in corso; anzi, c’era perfino il rischio che mi rispedisse difilato al quartier generale della Guardia. Ma diamine, volevo un po’ d’azione!
Mi bloccai in mezzo alla strada, rischiando quasi di andare a sbattere contro una vecchina dal naso adunco con un foulard in testa che trasportava degli enormi sacchi della spesa; sembrava quasi una moderna Baba Yaga. Sogghignai fra me: fino a poco tempo prima il pensiero di dover affrontare dei nemici in uno scontro non mi sarebbe mai passato per la testa; la ragazzina che voleva diventare una guaritrice stava sbiadendo giorno dopo giorno, e non sapevo se essere o meno triste per la sua progressiva scomparsa.
“Dovresti guardare dove vai, sai?”, mi rimproverò Baba Yaga, agitando i sacchi di plastica con fare minaccioso. “Voi giovani, credete che la strada sia tutta quanta per voi!”.
“Ehm… Mi scusi tanto”, dissi. Lei borbottò qualcosa, ma poi si allontanò barcollando sotto il peso di qualunque cosa stesse portandosi in giro. Mentre la guardavo farsi largo fra la folla, ricominciai a scandagliare la zona, e finalmente trovai quello che stavo cercando: dall’altro lato della strada, avvolto in un elegante completo blu, c’era un cinquantenne con i capelli brizzolati che all’apparenza era un normale uomo d’affari. La sua aura, però, lo identificava con chiarezza come un adepto delle Tenebre.
Alla fine, sto solo seguendo gli ordini, pensai, mentre evitavo d’un soffio una vecchia Niva dal cofano ammaccato. Nessuno mi ha vietato di pedinare, d’altronde.
Quando fui sull’altro marciapiede, vidi che l’uomo d’affari stava svoltando in un vicolo laterale. Lo imboccai senza pensarci due volte, e lo vidi girare in un’altra viuzza sulla sinistra. Ma quando gettai un’occhiata in quella stradina – buia e puzzolente, con delle grosse casse di legno gettate qua e là con malagrazia – lui non c’era più.
“Dannazione, l’ho perso”, borbottai, tirando un calcio ad una lattina rugginosa. E proprio in quel momento sentii una voce dall’altro capo del vicolo, che diceva: “Ehi, tu, ferma lì!”.
Alzai lo sguardo, e nella penombra riuscii a scorgere l’ultima persona che avrei voluto vedere: un poliziotto. Che mi puntava contro una pistola, per giunta!
“Alza lentamente le mani sopra la testa!”.
Certo, come no…, pensai. Con un movimento rapidissimo, mi spostai a destra e mi accucciai dietro una cassa. Dal fondo della strada sentii provenire una parolaccia parecchio volgare.
“Vieni fuori subito!”, urlò poi l’uomo, iniziando ad avvicinarsi. Pessima mossa.
I poliziotti li detesto, pensai, mentre chiudevo gli occhi e normalizzavo il respiro.
Non avrei saputo dire che cosa provò l’agente quando da dietro il cumulo di rifiuti vide spuntare una tigre del Bengala con le orecchie piegate all’indietro e la dentatura del tutto scoperta. Di sicuro una gran voglia di correre, visto che scomparve dalla mia vista a tempo di record. Ovviamente, nel codice della Guardia della Notte viene esplicitamente detto che non possiamo fare uso dei nostri poteri a fini personali e di sicuro non in modo tanto plateale; ma, mentre il dolore del ritorno all’umanità mi assaliva, pensai che era valsa la pena fare una piccola infrazione alla regola. E con buona probabilità nessuno alla Guardia lo avrebbe saputo; quanto al poliziotto, chi gli avrebbe creduto se avesse detto di avere visto una tigre girare per le strade di Mosca?
Quando qualche minuto dopo mi fui ripresa, sgattaiolai fuori dall’intrico di vicoli e feci per imboccare la strada principale; ma qualcuno mi afferrò all’improvviso per una spalla, costringendomi a girarmi. Davanti a me c’erano Orso e Ilja, che mi fissavano con aria grave. Lungo la schiena mi passò un brivido. “Come… come mai siete qui?”, domandai, anche se già sapevo qual era la risposta: mi avevano beccato.
“Sentite, lo so che non avrei dovuto, però…”.
Ilja e Orso si fissarono. Fu in quel momento che capì che era un’altra, la cosa che dovevano dirmi. Il brivido che mi attraversò fu molto più violento del precedente.
Alla fine, Orso aprì la bocca e disse due parole.
“Tuo padre”.


Al funerale c’eravamo soltanto io e Orso. Pioveva, e me ne stavo sotto un ombrello nero senza che mi rendessi del tutto conto di ciò che succedeva intorno a me. L’unica cosa che mi sembrava assolutamente certa, in quel momento, era la pressione del braccio di Orso intorno alla mia spalla.
Il prete, sotto un parapioggia marrone e grigio dall’aria vissuta, leggeva monotono un’orazione funebre, mentre la bara di mio padre – pagata dalla Guardia della Notte, come se ci fosse da chiederlo – giaceva lì accanto, in attesa di essere interrata.
Il nostro ruolo si era invertito, di recente: ora ero io che andavo a trovarlo nell’ospedale dove lo avevano ricoverato. Tumore al pancreas, fase terminale, dicevano i medici. Bizzarro, ero sempre stata convinta che sarebbe stato il bere ad ucciderlo.
Era sempre stato lucido, fino alla fine; sebbene più il tempo passasse e più credesse che ad andare a trovarlo fosse mia madre, forse perché si stava piano piano avvicinando a quella zona del Crepuscolo dove le anime di coloro che non sono Altri possono riposare, se un luogo simile davvero esiste.
Parlava di me, alla mamma. “Nostra figlia è diventata grande”, diceva. “E’ diventata grande troppo in fretta. Quando la vedo, scorgo qualcosa nel fondo dei suoi occhi, qualcosa che non dovrebbe esserci… come un fuoco che le brucia nella testa. Ogni tanto penso – Dio mio – ogni tanto mi fa paura. Ti ricordi quelle favole che ci raccontavano da piccoli, delle fate che sostituivano i bambini nelle culle? Ecco, quando guardo Katyuscia, a volte è come se stessi vedendo un’altra persona. Qualcuno che sembra lei, che parla come lei, che si tormenta le ciocche di capelli ai lati delle orecchie nello stesso modo… Ma non è lei”.
Parlava in modo terribilmente chiaro, quando delirava. Io stavo lì, tenendogli la mano, e non dicevo nulla.
Ma non piansi, nemmeno una volta. E mentre sedevo di fianco al letto di morte di mio padre, capii che Orso aveva ragione: non esiste dolore che non si possa controllare, o che il passare del tempo non renda meno intenso.
Poco prima che il momento di calare la bara nella fossa arrivasse, la pioggia smise di cadere, e dalle nuvole si affacciò addirittura un pallido sole. Mentre stringevo fra le mani il vecchio peluche che quasi dieci anni prima aveva varcato con me la soglia del Crepuscolo per la prima volta, alzai gli occhi verso il cielo e interpretai l’accaduto come un segno.
Tigrotto aveva resistito da vero guerriero al passare del tempo; anche l’altro degli occhi di plastica era andato perso, ma la signora Pavlova – che due anni prima aveva venduto l’appartamento e si era trasferita in campagna – aveva cucito due bottoni neri al loro posto. Il manto era più spelacchiato che mai e l’imbottitura ormai era quasi del tutto andata, ma restava sempre uno dei miei migliori amici d’infanzia.
“Orso, potresti…”, dissi.
Lui capì senza che nemmeno io finissi di parlare, come al solito. Sollevò il coperchio della bara senza sforzo, fissando il sacerdote in piedi accanto a lui come per sfidarlo a lamentarsi.
Mio padre era stato rivestito con un completo elegante che di certo non era suo quando era in vita. Aveva un’aria serena, e per un istante mi domandai se alla fine avesse potuto incontrare di nuovo la mamma. Sperai che fosse così.
Con le mani che mi tremavano leggermente, gli poggiai Tigrotto accanto. “E’ la seconda volta che lo faccio”, dissi. “Ma almeno ci sarà qualcuno a tenerti compagnia, visto che non posso stare io con te”. Tacqui per un attimo, pensando se ci fosse qualcos’altro che avrei potuto dire. “Ciao, papà”.
E proprio nel momento in cui Orso abbassò con delicatezza il coperchio sulla mia famiglia e sulla mia infanzia… Fu allora che riuscii a piangere.


“Posso aprire gli occhi, ora?”, domandai, per quella che era la cinquantesima volta.
“Non ancora”, mi sussurrò Boris Ignatevic nell’orecchio.
Chissà che si è messo in testa il capo?, pensai. Anche quello, in effetti, me l’ero già chiesto molto spesso nell’ultima ora. Organizzarmi una sorpresa, addirittura…
“Orso, manca ancora molto?”, domandò Boris Ignatevic.
“Un paio di minuti”, rispose lui; sentii che faceva svoltare la macchina a destra, e a giudicare dagli sballottamenti della vettura stavamo percorrendo strade dove l’asfalto non era arrivato.
Poco tempo dopo, l’automobile si fermò. Sentii la portiera di Orso aprirsi, poi anche quella accanto a me si spalancò e sentii qualcuno che mi dava una mano a smontare dal sedile. Cercai di sollevare le palpebre, ma pareva proprio che il capo me le avesse sigillate con qualche incantesimo minore.
“Ecco, Tigrotto, vieni da questa parte”, sentii la voce di Boris Ignatevic chiamarmi dalla mia sinistra. Mi mossi con cautela, sempre tenendo stretta la mano di Orso, finché non sentii qualcun altro prendermi per una spalla. “Ora puoi aprire gli occhi”, disse la voce di Boris Ignatevic, mentre la forza che teneva serrate le mie palpebre si disfaceva all’istante.
Davanti a me c’era la casa più bella che avessi mai visto; tanto per cominciare, era enorme, a due piani, e con una bellissima facciata di mattoni rossi a vista. Ad un centinaio di metri sulla destra, alla luce del mattino risplendevano le acque di un piccolo lago tranquillo circondato dal limitare di un fittissimo bosco. Non riuscii a trattenere un’esclamazione di meraviglia, e mi voltai verso il capo. “E’ stupenda! E’ sua, per caso?”.
Lui sorrise. “No. E’ tua. Buon diciottesimo compleanno, Tigrotto”.
Aggrottai la fronte e scossi la testa. “No, Boris Ignatevic, certi scherzi non funzionano proprio con me. E’ ovvio che una casa simile non…”.
“E non è finita!”, continuò lui, come se io non avessi neppure aperto bocca. “Orso, porta qui la moto”.
Il mio migliore amico aveva girato l’angolo dell’edificio, e ora stava tornando verso di noi, tenendo per il manubrio…
“Una Harley? No, davvero, non ci credo!”, esclamai.
“Sapevo che ti sarebbe piaciuta!”, disse il capo, battendo le mani un paio di volte. “Sono andato personalmente a sceglierla, anche se mi sono fatto consigliare da Semen, visto che io non sono granché pratico con questo genere di cose… Tigrotto, va tutto bene?”.
Boris Ignatevic si era accorto del fatto che avessi abbassato gli occhi, ovviamente; come se qualcosa potesse sfuggirgli! “Sì, sì, tutto benissimo”, risposi, cercando di mettere nella voce quanta più gioia possibile. “E’ solo che non riesco ancora a credere che questo sia davvero tutto per me!”.
Lui mi si avvicinò e mi prese le mani. Aveva un tocco morbido come quello di un ragazzo, le unghie corte e ben curate. “Te lo sei meritato”, disse, guardandomi con i suoi occhi neri e taglienti.
Già, pensai. Sono stata una brava bambina e ho fatto tutto quello che mi hai detto, senza discutere. Ho sopportato il dolore, la perdita, le battaglie… E come una tigre da circo a fine numero, ora il domatore mi lancia la mia bistecca. Ma, Boris Ignatevic, se quel giorno tu non avessi scelto per me ancora prima di chiamarmi nel tuo ufficio… Se davvero mi avessi dato modo di decidere da sola cosa fare del mio futuro, e fossi diventata una taumaturga… Non avrei una bella casa in riva al lago, né una moto costosa, non è vero?
Le mani che mi avevano forgiato stringevano le mie. Gentili, delicate, eppure potenti e letali.
Gli occhi che mi avevano forgiato erano fissi nei miei. Saggi e comprensivi, ma duri ed inflessibili.
Se ora io mi trasformassi all’istante e ti saltassi alla gola, riuscirei ad ucciderti, che cosa ne dici? Oppure riusciresti a spedirmi nelle più profonde regioni del Crepuscolo prima che il tuo sangue riesca a sgorgare? E Orso? Sarebbe fedele al suo superiore o alla sua migliore amica?
Non l’avrei mai scoperto, immaginai.
“Grazie”, dissi a Boris Ignatevic, sorridendo. “Grazie per tutto”.


L’acqua del bagno si era ormai raffreddata, e la schiuma era quasi del tutto scomparsa. Gli occhi di Julia erano arrossati: aveva pianto, mentre ascoltava la mia storia; anche le mie guance erano umide, ma non riuscii a capire se fossero lacrime oppure no.
“Ed è così che è andata”, dissi, per dare una conclusione alle vicende. “Con il tempo, ho capito che la scelta che Boris Ignatevic prese per me in fondo era la migliore; se fossi diventata una maga guaritrice non sarei stata utile alla causa della Guardia della Notte così come lo sono ora. Non avrei potuto avere la mia bella casa, la vasca con l’idromassaggio, i miei cani, la mia moto… E forse noi due non saremmo mai diventate amiche, visto che tu mi ammiri per quella che sono ora, no?”.
Non scorsi il sorriso che avrei voluto vedere sulle labbra di Julja. Anzi, sembrava ancora più triste. “Non è giusto”, disse, con la voce rotta dal pianto. “Tu non volevi diventare così, una volta, no? Eppure ti hanno obbligato a questa scelta”. Tirò su con il naso. “Non si dovrebbe mai costringere qualcuno a fare ciò che non vuole; voglio dire, siamo tutti nella Guardia per nostra volontà, non perché qualcuno ci obbliga. Quindi ognuno dovrebbe essere libero di…”.
“So cosa vuoi dire, Julja”, la interruppi nel modo meno brusco possibile. Tesi una mano verso di lei e le accarezzai l’ovale del viso. “Ma alla fine ho capito: se davvero fossi stata destinata ad essere una taumaturga, nel reparto di assistenza ci sarebbe stato un posto per me. Però così non era. Te l’hanno spiegato, giusto, che per ognuno di noi la prima volta che si entra nel Crepuscolo è decisiva? Non solo si decide se diventeremo maghi della Luce oppure delle Tenebre, ma anche quali saranno le nostre capacità. E’ una scelta dettata dal destino, e non possiamo controllarla: tu sei una delle analitiche più brave di questo secolo, mentre io combatto in prima linea… E non c’è nulla di giusto o di sbagliato in tutto questo. Come hai detto tu, è la storia della nostra vita”. Affondai una mano nella cesta accanto alla vasca e ne estrassi un accappatoio. “Ora forza, chi ha voglia di una cioccolata con la panna?”.


Com’era mia abitudine, spalancai gli occhi alle cinque del mattino. Orso mi ha detto che noi mutantropi sviluppiamo una specie di orologio interno, una specie di magico timer da forno che possiamo regolare perché suoni all’ora che vogliamo. Non ho mai capito con precisione come funzioni, ma è qualcosa che torna davvero comodo.
Julja sbuffava, sdraiata di sbieco accanto a me nell’enorme lettone matrimoniale che a volte occupavo da sola o, molto più raramente, con qualche uomo, che fosse un Altro oppure no. D’altronde, i miei turni nella Guardia erano particolarmente serrati, ed era già tanto se riuscivo a venire a casa due volte alla settimana.
Senza fare rumore, scivolai giù dal materasso ed atterrai sul parquet; mi infilai un paio di ciabatte ed uscii di casa, senza preoccuparmi di indossare qualcosa sopra la leggera camicia da notte con cui dormivo. Passai accanto al gabbiotto dove i miei cani dormivano durante la notte; udii uno di loro – Piotr, forse – uggiolare piano, come per farmi capire che mi aveva sentito arrivare. Gli sussurrai un “Buono, buono…”, e il cane fece un grugnito mentre si rimetteva a dormire.
Il bosco, poco prima dell’alba, è un luogo meraviglioso: l’odore di terra e resina è più intenso che mai. Mentre dalla forma umana scivolavo in quella di tigre, quel profumo mi diede alla testa, inebriandomi e circondandomi in una nuvola color dell’ambra che quasi avrei potuto toccare. In preda alla consueta eccitazione data dalla metamorfosi, mi lanciai in una corsa sfrenata per il bosco, evitando di schiantarmi contro i tronchi degli alberi per pochi centimetri, spaventando volpi e conigli al mio passaggio e facendo alzare in volo qualche quaglia insonnolita. Non avevo neppure bisogno di prestare attenzione a dove stavo andando: l’istinto, come una bussola naturale, mi guidava nel luogo in cui mi dirigevo sempre quando in forma di tigre correvo per il bosco.
Ed improvvisamente, senza che quasi me ne accorgessi, ero là.
Era facile capire che quella radura aveva qualcosa di particolare: i tronchi degli alberi che la circondavano erano segnati da profondi solchi, e la corteccia era strappata e sparsa intorno in schegge; gli arbusti erano stati divelti, le foglie morte dilaniate e il terreno sottostante rivoltato dall’azione di potenti zampe.
Puntai i miei occhi azzurri sull’albero di fronte a me; mi accucciai, sfoderai gli artigli e all’improvviso… Balzai! Percorsi in volo parecchi metri, e con una zampata portai via una parte di dura scorza del tronco, mettendo in luce il pallido legno vivo sottostante. Toccai terra e mi voltai immediatamente, la lunga coda che sferzava l’aria come una frusta; attaccai un altro albero, e poi un altro e un altro ancora, l’aria piena di finissima polvere di legno.
Continuai così non seppi nemmeno per quanto, forse per un paio di minuti, forse per ore. Non contavo mai il tempo, quando ero nella radura. Mentre strappavo un ramo basso con un colpo di artigli, nella mia mente balenarono chiari i versi che Julja aveva declamato il giorno prima nella vasca da bagno.
Tigre, tigre, che ardi splendente
Nelle foreste della notte,
Quale mano o occhio immortale osò
Delineare la tua spaventosa simmetria?

Era proprio così: brillavo, nella foresta; ogni singolo pelo risplendeva come il fuoco, i miei occhi come tizzoni di carbone azzurro, i miei denti come schegge di diamante. Tutti mi temevano, e avevano ragione di farlo.
Non ero stata io a diventare ciò che ero. Qualcun altro, qualcuno ben più potente e più tremendo di me, mi aveva dato la forma che possedevo; qualcuno che poteva annientarmi con un leggero gesto della mano o con un semplice sguardo, se solo lo avesse voluto. Qualcuno che conosceva la simmetria di questo mondo forse più di ogni altro suo abitante, e che la usava come una scacchiera su cui disporre le proprie pedine, me compresa.
Però… Però, quando ero nella foresta, io ero potente. Ero terribile. Ero libera, soprattutto.
Mi rizzai sulle zampe anteriori e assestai un colpo ad un giovane albero, sradicandolo.
Quella era la mia danza.
Sollevai il muso verso l’alto, spalancai le fauci e ringhiai con tutto il fiato che possedevo, facendo alzare in volo uno stormo di uccelli che ciarlarono terrorizzati.
Quello era il mio canto.
Restai lì, in silenzio, finché l’eco del mio ruggito non fu scomparso del tutto. Poi ritornai umana, concessi un saluto silenzioso alla radura e tornai verso casa, per vedere se Julja si era già svegliata.
  
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Altro - Sovrannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Dk86