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Autore: Hipatya    16/11/2008    5 recensioni
[Pain/Konan]
"...Cosa ci facciamo con tutti quei soldi?"
"Ah, ma che domande fai, Konan. Con quelli ci compriamo un futuro intero. E mica solo il nostro, eh, quello di tutti. E poi guarda questa città... non dicevi tu che era orribile? Beh, potremo migliorarla a modo nostro."
"Migliorarla, eh?"
"Sì."
"Ha un bel suono questa parola."
Prima Classificata al Contest "Naruto Rock'80s" indetto da Uchihagirl e Tikei_chan
Genere: Triste, Drammatico, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akatsuki, Konan, Pain
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: I personaggi citati appartengono a Masashi Kishimoto, che ovviamente si prende tutti i diritti del loro uso

Disclaimer: I personaggi citati appartengono a Masashi Kishimoto, che ovviamente si prende tutti i diritti del loro uso. I versi della canzone su cui è basata l'intera songfic sono di Angie degli Stones, a cui va ogni copyright ed elogio.

 

 

 

Prologo

 

Si svegliò piano, lentamente, col peso di tutte le sue duecentotré ossa, una più una meno, ancora indolenzite dal sonno. Rimase immobile nella penombra, contando le righe di luce fioca che scivolavano rapide sul soffitto della stanza, mentre nelle sue orecchie si fece largo il rumore solitario di qualche automobile che sfrecciava rombando sotto la finestra. I vetri tremarono, come le sue ciglia.
Tre ore per notte rispettate fino all'ultimo secondo come un orologio ben caricato: non riusciva a dormire di più. Il suo corpo rifiutava il sonno e, indocile, si svegliava, dissipava i sogni per annegare nel buio della stanza e nell'odore di sigarette ormai onnipresente in quella casa.
Sigarette, giusto. Allungò la mano e ne sfilò una dal pacchetto poggiato sul comodino.
Nelle braci arancio della paglia che bruciava rosseggiarono i vestiti dimenticati per terra, i mobili impolverati e il soffocante caos organizzato che circondava il letto sfatto. Tazzine di caffè dimenticate, sigarette, vinili -il suo punto debole e costante cruccio-, biancheria intima che nessuno aveva cura di riporre nei cassetti, un paio di scarpe col tacco, la bacchetta di una batteria, i biglietti di un concerto a cui non erano mai andati, le vestigia di una cena comprata settimane prima al take-away giapponese all'angolo.
Un furgoncino arrancò lungo la strada tossendo e sputacchiando e il pessimo stato dei suoi freni rimbombò nella stanza come il boato di un tamburo. Già sentiva qualche voce intontita dal sonno, le imprecazioni, la canzone stonata e nostalgica di un vecchio ubriaco malinconico.
Spense la cicca su una pila di vecchi giornali e si sporse dall'altra parte del letto.
...Ecco, da quell'angolazione la vedeva bene: giaceva dimenticata sotto la sua camicia preferita e sotto un paio di occhiali da sole, peraltro inutili d'inverno.
Una Sword Cutlass del '79. "La" Sword Cutlass.
Posò le labbra accanto all'orecchio della donna sdraiata di fianco a lui, benchè sapesse che anche lei doveva essere già sveglia (loro due si svegliavano sempre insieme, aprivano gli occhi nello stesso istante, era così da quindici anni o da quando più o meno esisteva il mondo).
"Konan" sussurrò, "è mattina."

 

 

 

...Di altri Romei e di altre Giuliette

 

Angie, Angie, when will those clouds all disappear?
Angie, Angie, where will it lead us from here?


 

 

 

I Stasimo

Nel giorno della sua nascita pioveva a dirotto.
Nel giorno più brutto della sua vita -che era anche il più bello, perchè era il giorno in cui aveva conosciuto Pain- pioveva ancora.
Dunque Konan non si stupì quando vide un cielo grigio come un mare in tempesta sopra i tetti della città: anche quello era un giorno importante, quindi doveva piovere.
Sorseggiò il lungo caffè amaro che s'era preparata per colazione e con le dita tamburellò sui vetri una melodia immaginaria, finchè la tazza non rimase vuota e inerte, dimenticata sul davanzale della finestra.
Do mi sol re sol mi do la re fa
Il suo stesso viso, riflesso nel vetro sporco di pioggia, le parve rigato di pianto. Dovette passarsi il dorso della mano sugli zigomi per dissipare quella fastidiosa impressione, ma istintivamente si bloccò non appena udì in lontananza le sirene della polizia che ululavano, attutite appena dal mormorio della pioggia e del traffico.
La strada comunque era deserta, nessuno in vista, i negozi erano tutti chiusi e l'insegna al neon del night club di fronte a loro pencolava ronzando da un lato, sconsolata e piangente. C'era solo una ragazzetta, doveva essere sicuramente una di quelle, che consumava le suole delle scarpe e l'ossigeno dei suoi polmoni fumando una sigaretta lì sotto, le spalle cascanti di chi ha dovuto lavorare una notte intera.
Ecco, in quel momento si accorse del viso di Pain riflesso accanto al suo, impresso nel vetro della finestra. Pain occhi grigi e geniali alla Arthur Rimbaud, Pain zazzera arancione e volto scolpito nell'acqua fredda, Pain mille piercings -che poi erano solo otto, li aveva contati- e una scottatura rossastra all'angolo delle labbra, piccola come il graffo di un gatto.
Poggiargli una mano sulla guancia e attirarlo a sé fu un gesto naturale, come respirare.
"Suoni qualcosa?" gli chiese.
Si staccò, Pain, e Konan lo sentì rovistare nell'appartamento alla ricerca di un vinile. Minuti dopo, la puntina del giradischi affondò nella superficie lucida del 45 giri e il pianoforte di Czerny scivolò vellutato nella stanza.
Konan conosceva quelle note e le centellinò una a una mordicchiandosi il labbro, come si fa con un bicchiere di buon vino. La melodia era dolce e liquida come la luce lunare, come un tuffo in mare, come la carezza del velluto e dei petali dei fiori. La donna vi si crogiolò, dimenticando per un istante di essere se stessa.
La riscosse la scottatura sul labbro superiore di Pain, il suo bacio, il familiare tepore del corpo in cui si lasciava cadere, come sempre, delicatamente.
Quella città era orribile, era un gigante di specchi e semafori, era l'agonia stessa dell'eleganza.
Ma una città era poco più di un nome, non era niente.
Poco importava che fosse Konan o Caroline Thompson o Christine, non cambiava niente. Era solo un nome, inutile.
Il giorno che il Governatore e sua moglie erano stati uccisi, pioveva.
Pioveva forte, perchè il cielo piangeva con lei.
Nascosta nel fondo di un armadio, tra i profumati cappotti di cammello che i suoi genitori non avrebbero mai indossato, piangeva guardando gli occhi senza vita della moglie del Governatore, mentre le ante venivano spalancate e lei era obbligata ad alzare lo sguardo verso l'alto, verso le scarpe impiastricciate del sangue appiccicoso del Governatore.
Aveva alzato gli occhi e non s'era neppure accorta della pistola ancora fumante, aveva alzato gli occhi per fermarsi. In un certo senso anche lei poteva dire d'essere morta, quel giorno.
Era quello il giorno in cui l'aveva incontrato e da allora non l'aveva più lasciato, neanche per un secondo.
Del resto lui era l'unica cosa in comune che le era rimasta da spartire col mondo.
Ogni volta che lo guarda, Konan vede gli occhi terrorizzati di quel ragazzino di quindici anni, vede lo stesso viso pulito, vede gli stessi zigomi bruciati da un velo di polvere da sparo e la stessa brama d'eternità che non s'è mai estinta.
Quando Konan lo guarda, un'altra persona si sveglia sotto la pelle di Pain, come rispondendo a un richiamo che loro due soli possono udire, e alza su di lei occhi nuovi, trasfigurati e luminosi.
Ogni volta che succede, Konan sa di non aver bisogno d'altro.



 

II Stasimo

 

Jimmy Che Spara lo chiamavano così perchè, logicamente, sparava.
Giravano tante storie su di lui: dicevano che non avesse un nome, che fosse il figlio di un banchiere che aveva sgozzato la moglie coi propri denti, che fosse l'incarnazione del Wendigo del Nord o di Ma
ître Carrefour di Cuba, che fosse un orfano irlandese sfregiato dalla strada, che si nutrisse del sangue delle vittime uccise, che uccidesse con la sola clausola di poter asportare i molari dei cadaveri per scopi rivoltanti, che avesse ucciso per la prima volta a sei anni spaccando il cranio della madre con una vecchia doppietta da caccia.
La sola certezza era comunque una soltanto. Jimmy Che Spara sparava, senza remore e senza condizioni. Sparava.
Dicevano che sorrideva soltanto due volte per ogni persona, ma la seconda, ahimè, era già tardi. Nessuno l'aveva mai visto sorridere la seconda volta, almeno nessuno che fosse poi sopravvissuto per vantarsene.
Il lampo di un ghigno, lo sparo, il tonfo, il silenzio. Jimmy Che Spara svaniva, angelo dell'eterno riposo, e tornava a fare rapporto al boss di turno a cui vendeva la sua pistola.
Nessuno l'aveva mai visto al di fuori di un suo qualche "lavoretto"; non sapevano dove abitasse, né se avesse una famiglia, una casa, un segno distintivo che non fosse una Sword Cutlass del '79. Non aveva ideali, bandiere, ricordi o una fede in qualche Dio, aveva soltanto una Sword Cutlass e sapeva fin troppo bene come utilizzarla. Era arrivato dal niente, quasi la strada l'avesse sputato fuori, e il niente era ciò che si proponeva di raggiungere.
Aveva percorso senza inciampare la lunga scala lastricata di cadaveri che dal ruolo di killer a pagamento l'aveva portato a quello di signore indiscusso di tutta l'area che andava dalla Trentesima alla Cinquantasettesima Strada, una sterminata giungla di cemento che i rapporti della polizia in gergo indentificavano come "Konoha".
Chi aveva provato a incastrarlo s'era trovato incastrato, talvolta fra le lamiere contorte di un'automobile con un proiettile ficcato nel cervello. Avevano provato a fregarlo, a scavalcarlo e a sotterrarlo, ma puntuale ogni tentativo si era rivoltato contro di loro perchè Jimmy Che Spara vinceva ogni partita, sguardo inossidabile e faccia da eterno ragazzino leggendario e maledettamente astuto.
Il nuovo nome con cui si faceva chiamare era Pain, sofferenza, e la sua abilità con la pistola era cresciuta di pari passo con la sua glorificazione.
Nuestra Señora de la Soledad
, che lo accompagnava sempre e che i trafficanti colombiani chiamavano così perchè il suo uomo rendeva tutti un po' più soli, che fossero amici, nemici, famiglie o vittime, sembrava ancor più ultraterrena e terrificante di lui. Muta, fantasmatica e assente, seguiva Pain con la cecità di un fedele e l'abnegazione di una monaca, gli occhi blu che non lo perdevano mai di vista e quell'aria sempre distratta ed eterea, come lo spirito senza sonno di un pellegrino.
Di Nuestra Señora de la Soledad tutti conoscevano il nome: Konan. Era lei del resto a occuparsi dei rapporti diplomatici del compagno, a tenere i contatti con le altre bande, a riferire, a consigliare, a spiare e a ricordare. Era stata lei ad avvicinare uno per uno i nove criminali più potenti della città e a proporre loro un patto che, semplicemente, non era consentito rifiutare: si erano uniti sotto la denominazione comune di Akatsuki Inc. e agivano sotto il controllo diretto di Pain.
Si erano spartiti la città come si fa con una grossa torta ben tagliata a fette, anche se nessuno sapeva quando sarebbe arrivato il primo morso. Come sull'orlo di un precipizio, tutti quanti attendevano che il piede in fallo li trascinasse nella caduta.
C'era soltanto una persona a conoscenza di ogni segreto dell'Akatsuki. Una sola, che come un labirinto custodiva in sé le chiavi segrete dell'intricato mosaico di pistole, eroina e cannoni che in quel periodo traforava la città.
Una sola persona, molto discreta, che volava fin troppo lontano dal mondo comune perchè il tramestio caotico delle mani che tentavano di ghermirla la sfiorasse soltanto.
Se si ripensa a Jimmy che Spara e a Nuestra Señora de la Soledad, subito viene alla mente una vecchia illustrazione a china di un libro dimenticato: due amanti abbracciati nell'aria tumultuosa e intorno a loro la tempesta che infuria, nera di pioggia e nuvole roboanti.
Il primo morso comunque non tardò ad arrivare: staccò via una parte di città, la masticò e l'inghiottì come un'enorme gigante mostruoso, la risputò lontano in un agglomerato di saliva disfatta, frammenti di illusioni e morbido pasticcio di disgrazia.
Il primo morso si abbattè su di loro così repentino e improvviso che li gettò in ginocchio, impotenti, e molti faticarono a rialzarsi in piedi. Il primo morso li lasciò stremati, poichè ebbe conseguenze che nessuno di loro avrebbe mai potuto immaginare.



Intermezzo

L'appartamento in cui si erano radunati era buio e gelido, era uno scheletro bianco di calce, poco più di un palazzo in divenire. Dai vetri inesistenti piangevano grosse gocce d'acqua e la pioggia ticchettava sulle loro teste come i piccoli passi di un gatto, mentre il freddo crudele di novembre mordeva loro le ossa. Si erano ritrovati lì dentro seguendo gli ordini di Pain, ma la stranezza era che tutti quanti davanti a quel cantiere abbandonato si erano sentiti smarriti o quantomeno incerti perchè, pur scafati com'erano, nessuno di loro aveva mai visto prima quel posto, giacchè la loro memoria visiva si riattivava solo parecchi isolati di distanza più in la, in territorio per così dire amico.
Sedevano in cerchio sul pavimento sporco di calcestruzzo, le braci delle sigarette che illuminavano sprazzi grotteschi dei loro volti, le armi al sicuro ma a portata di mano, secondo il saggio detto che prescrive di non fidarsi neanche della propria madre sul letto di morte, e a bassa voce senza guardarsi perfezionavano il piano, attendendo da un momento all'altro il responso del capo.
"Io posso coprire la zona che arriva fino alla Trentacinquesima, dove c'è lo strip-club di quella vecchia carcassa."
"Dove si esibisce la tua nuova fidanzatina?"
"Esatto, proprio lì. Dove hai venduto tua madre per un paio di centoni, proprio lì."
"Ripetilo un'altra volta e ti userò come concime per i campi giù in Bolivia."
"Sentite com'è suscettibile l'amico quando si parla di compravendite! Scusa, hai ragione, volevo dire un centone. Tua madre non vale così tanto."
"Io ti-"
"Non vi ho chiamati per discutere della moralità della ragazza di Hidan, su cui credo esistano pochi dubbi" ringhio sommesso da parte dell'uomo chiamato Hidan, "o della morte della madre di Kakuzu. Sapete che odio sprecare tempo. Non fatemi perdere la pazienza, grazie. Itachi, di quale zona puoi occuparti?"
"Qualunque
. Per i miei uomini non rappresenta un problema."
"Per i tuoi uomini... o per la banda del tuo fratellino? Sta facendo un po' troppo di testa sua ultimamente."
"Zen, questi non sono affari che ti riguardano."
"Come credi. Sappi che Zen ed io non siamo gli unici ad essere scontenti di questa situazione."
"Problemi vostri. Io prendo ordini da Pain, che non mi ha accennato nulla di tutto questo, oppure mi sto sbagliando?"
Breve cenno affermativo da parte del diretto interessato:"Non sbagli. I tuoi affari di famiglia non m'interessano, così come non m'interessano le vostre beghe."
"Andiamo, non ricominciare la solita storia sul fatto che sono ininfluenti..."
"...e irrilevanti. Conosci le regole di questo gioco meglio di noi."
"Mi sono
già espresso sulla questione una volta. Devo forse ripetermi?" e videro la sciabola di un sorriso malsano luccicare nella penombra.
Ammutoliti, i gemelli Zen e Tsu tacquero.
"Prima di venire interrotto, stavo chiedendo ad Itachi di quale zona del quartiere preferisce occuparsi. Puoi ripetere la tua risposta, Itachi?"
"Stavo dicendo che posso coprire qualunque zona. Assicuro la massima protezione."
"Immagino che Sasuke sia completamente d'accordo."
"Completamente, già."
"Anche se non lo fosse, immagino tu gli abbia fatto presente che il rifiuto non è contemplato."
"Proprio così."
"Basta un battito di ciglia perchè ritrovi la sua sciacquetta rossa spalmata sull'asfalto. Ricordaglielo, sai, un antico popolo molto saggio diceva che repetita iuvant e io mi trovo perfettamente d'accordo con loro."
"Quello stesso popolo saggio diceva anche che ubi maior minor cessat. Sasuke ed io lo sappiamo bene."
"...Avete intenzione di parlare latinorum ancora per molto? Mi sto annoiando."
"Piantala di giocare col cane della pistola, Deidara, se ti parte un colpo per sbaglio porti via metà faccia a Zen."
"E tu non trattarmi da vecchia nonna petulante, Sasori-danna."
"Itachi, ricordagli anche di quell'altra. Sappiamo tutto anche di lei. Soprattutto di lei. Ammetto che è stato piuttosto bravo a nascondercela. Bravo, eh, non bravissimo, è ancora troppo giovane per fregarci. Come da copione entra in scena la vecchia compagna di scuola Fiordiciliegio e la rossa di Tsunade si rivela per ciò che è, nient'altro che una semplice e sacrificabile comparsa... Ricordagli di lei, Itachi. Forse sarà un deterrente, come dire?, più efficace."
"..."
"Bah, avevi appena finito di dire che i panni sporchi non t'interessavano."
"Hidan, tu hai una memoria troppo solerte. Sasori, a te va bene occuparti dell'area principale?"
"Sicuro, del resto è il mio quartiere."
"L'esterno dell'edificio è tutto tuo."
"Con immenso piacere, Pain."
"Deidara, a te spetta l'onore di aprire le danze."
"Umpf, tutto il divertimento a lui."
"Zitto Tobi" grugnì Deidara, storpiando a mezza voce Paint it Black:"Ovviamente lo giudico l'onore più sublime a cui un essere umano può aspirare... and I want it painted black! Nananananananananananana!"
"Abbiamo riservato questo compito apposta per te."
"Mi sarei offeso se non lo aveste fatto."
"Zen, Tsu, Tobi, Kisame, sarete voi gli attori principali dello spettacolo. Avrete le spalle coperte, le armi giuste, l'equipaggiamento adeguato e un mezzo di trasporto capiente.
Al primo ostacolo, sparate.
Al primo tentativo di fregarvi, sparate.
Per assicurarvi una via di fuga in caso qualcosa andasse storto, sparate.
Sparate con convinzione, signori.
Non fate economia di proiettili. Potremmo comprarcene laminati in oro."
"Il comando della squadra principale è
affidato a...?"
"Kisame."
"Perfetto."
"Già, perfetto."
"Sasori per i tiratori scelti e Itachi per la via d'uscita. Sono stato chiaro?"
"Luminoso, direi."
"Concordo."
"Qualcosa non funziona come dovrebbe e finite tutti al camposanto. Vedete di fissarvelo bene nella mente, quando aprirete gli occhi quel giorno."
"I wanna see it painted, painted, painted, painted black! Yeah!"
"
Suppongo che questo equivalga a un sì, Deidara."
"...E riparleremo di gentiluomini di fortuna. E anche della fine del mondo, no?"
"Sicuro."
"Avanti tutta, come una locomotiva sparata sui binari dell'impossibile! E' una sensazione fantastica."
"Ricorda solo che non puoi fermarti né tornare indietro."
"Ah, questo non è un problema. Ritrattare è sempre molto noioso."
"Anche morire, signori."
"Ma per fortuna noi siamo ben lontani da tagliare il traguardo."
"Chi può dirlo."
"Io. E adesso trovatemi qualcuno che può contraddirmi."
"Dunque avanti tutta. La locomotiva e bla bla bla."
"Esatto."
"Siamo d'accordo?"
"Sì, sì siamo d'accordo."
"Siamo d'accordo."
"Sotto ogni punto di vista."
"...Allora che ne dite se andiamo a prenderci questo cazzo di universo, signori miei?"

 

Intermezzo - II

L'odore di stantio e di rancido che albergava fra quelle quattro mura crivellate dall'umidità era insopportabile, eppure non lo percepiva: perfino il suo naso navigava senza meta, perso negli aromi dolciastri della Verona del Cinquecento, nel clangore delle spade, nel vortice del sangue, nella carezza vellutata di tessuti pregiati che la sua pelle non conosceva e che alla mente le risuonavano esotici come gli echi di un mondo lontano.
Leggere era un'antica abitudine che aveva preso per riempire i pomeriggi vuoti a casa del Governatore, poichè non le era permesso uscire per nessun motivo, neppure per quello più logico, la scuola: un maestro privato si occupava della sua educazione, senza tralasciare materie quali il canto, la composizione di haiku, la danza giapponese e l'origami.
Nell'origami soprattutto era sempre stata molto dotata. Piegare la carta non faceva male, non era difficile né compromettente e soprattutto non aveva bisogno di parlare per farlo. Poteva decidere da sola, poteva chiudersi in un silenzio legittimo e concentrato, senza che nessuno si sentisse autorizzato a parlare per lei.
Odiava, odiava quando parlavano al suo posto. State zitti, voleva gridare loro, nessuno vi dà il diritto di oltraggiare il mio silenzio!
Ma la forza per gridare, quella, non c'era mai. Per questo piegare la carta era decisamente molto, molto più semplice.
La carta era più debole di lei.
"Cosa succede di bello lì dentro?" Quella domanda fu come l'imperativo di un risveglio.
"Niente" rispose chiudendo il libro, "Tizio ama Tizia e muoiono insieme. Fine."
"Una tragedia."
"Sì, l'amore al tempo dell'impossibile o una cosa del genere" la ragazzina sogghignò appena, facendo una piccola smorfia divertita che stonava coi suoi capelli opachi, coi suoi vestiti dimessi e un poco sdruciti, con le scarpe da uomo ancora infangate che indossava.
"Parla più piano o ci sbatteranno fuori, Konan" la redarguì distrattamente il ragazzo che le sedeva di fronte, diciassett'anni appena e gli occhi grigi come un temporale.
"Bah. Tanto questa biblioteca fa schifo, hanno solo libri che non mi piacciono" si difese Konan, stuzzicando con l'unghia l'etichetta sbiadita che recitava "PROPERTY OF NYC CIVIC LIBRARY - SERIAL No. 03747".
Però le piaceva venire spesso lì dentro per leggiucchiare senza impegno qualcosa, con la tessera che Lui le aveva regalato quando aveva saputo della sua passione per la lettura; le piaceva sedersi comoda in quella sala di lettura sempre desolatamente semivuota; le piaceva che Lui rimasse con lei mentre leggeva e che poi discutessero di libri; le piaceva scroccare il caffè annacquato di metà pomeriggio che la biblioteca metteva a disposizione dei clienti.
Ogni cosa le piaceva, semplicemente. 
"Mio fratello amava i libri quanto te."
"Io non amo i libri" mormorò con un sospiro Konan, guardandolo dritto in viso. Le sue parole erano come una mano tesa verso di Lui, erano semplici, erano un ponte invisibile gettato tra loro due e sentì per un istante di potervi camminare sopra e finalmente raggiungerlo.
"Assomigli a Yahiko anche in questo" e lui si lasciò sfuggire un sorriso che, a causa della luce giallastra della lampada al neon, divenne obliquo e quasi sfuggente.
"Per i libri e ...?"
Pain allora rise, rise divertito come faceva molto di rado. Ma le sue risate, che erano scoppi istantanei di fuoco e subito svanivano come inghiottite dalla notte, sapevano scioglierle il cuore, erano una carezza che lei, ostinata, si portava addosso anche dopo giorni e giorni.
"La seconda cosa te la dirò un'altra volta."
Konan non rispose subito. Aveva staccato quasi del tutto l'etichetta dalla copertina del libro, la resistenza della carta adesiva stava ormai cedendo da più angoli.
Dopo qualche secondo di silenzio, gli domandò:"Come sta Yahiko, adesso?"
"Oh, lui sta meglio di tutti quanti, sta molto meglio di noi."
L'etichetta venne via del tutto con un ultimo strattone; Konan ci giocherellò sentendo sulle dita la scia appiccicosa della colla adesiva:"E' col Governatore e sua moglie?" chiese a voce bassissima.
Pain si rabbuiò un poco, ma poi il suo viso tornò quasi subito a distendersi nella sua abituale espressione piatta e immota:"No. Lui sta molto meglio di chiunque altro, adesso.
Lui è dentro di me."       


Esodo

 

...E la rapina iniziò, si svolse, si concluse.
Un mare frusciante di carta verdognola si riversò nelle mani di Tobi, ma bastò uno strattone di Kisame per farlo tornare in sé in un colpo solo.
"Che fai, eh?" gli abbaiò in faccia, gli occhi minuscoli e sbarrati sotto il passamontagna di lana.
Tanto bastò a riscuoterlo: le banconote vennero riposte con precisione nei borsoni, mentre Hidan giocava a terrorizzare gli ostaggi con un simpatico fucile di precisione che puntava di continuo contro di loro.
"...Ma quindi siete tutti dei grandissimi calvinisti risparmiatori, eh? La gallina dalle uova d'oro del capitalismo! Non sapete quanto vi sparerei volentieri... quasi quasi lo faccio... non lo farò se quel grassone là in fondo mi dirà il nome di battesimo di Schopenhauer.
Non lo sa, vero?! Ignorante!" e il colpo esplodeva, si bruciava e si conficcava nel soffitto.
Nessuno comunque aveva tempo per accorgersi del piagnucolio tremante degli ostaggi.
"Non sparerò a chi mi dirà il numero più alto di tutti! E il primo che prova a dire 'infinito' sarà il primo a finire nel regno dei più, signori risparmiatori!"
Un altro colpo di fucile a vuoto, un altro sacco di dollari che profumavano d'illusioni
.
("...Cosa ci facciamo con tutti quei soldi?"
"Ah, ma che domande fai, Konan. Con quelli ci compriamo un futuro intero. E mica solo il nostro, eh, quello di tutti. E poi guarda questa città... non dicevi tu che era orribile? Beh, potremo migliorarla a modo
nostro."
"Migliorarla, eh?"
"Sì."
"Ha un bel suono questa parola.")

Niente orologi, niente microspie, niente dispositivi elettronici; solo semplicità elementare, pistole, passamontagna e una copertura capillare sul territorio, a cui neanche un granello di polvere sarebbe sfuggito.
Quindici minuti. Avevano soltanto quindici minuti, scrupolosamente scorporati e analizzati secondo per secondo. Il minimo errore ed erano fottuti, totalmente e irrimediabilmente bruciati, a Konoha c'era una folla brulicante di sciacalli che con la bava alla bocca attendeva i loro cadaveri per spolparne le ossa.
Ma loro erano l'Akatsuki. E l'Akatsuki non concepiva la possibilità di errore.
Erano perfetti, efficienti, professionali e rapidi. Erano nati per farlo e non c'era nient'altro che sapessero fare.
Un boato fragoroso scosse l'edificio come un terremoto, mentre si sollevò una nube candida di calcinacci polverizzati e di schegge di vetro. La sagoma di uno smagliante furgoncino rinforzato, con le fiancate decorate dall'adesivo enorme di una TV via cavo, si fece via via più nitida nella nebbiolina bianca fino a delinearsi in tutto il suo splendore. L'automezzo slittò sul pavimento di marmo e riuscì a frenarsi solo a qualche passo dalle teste degli ostaggi, trascinando con sé nella sua corsa folle anche gli ultimi residui della vetrata d'ingresso.
Hidan rise a gola spiegata, mentre gli ostaggi, il viso puntato a terra, gorgheggiarono cacofoniche grida di puro terrore.
Kisame, senza batter ciglio, gridò di caricare tutto e prepararsi a sparire.
"E menomale che Pain aveva chiesto una cosa discreta!" ringhiò al conducente, per l'occasione un Deidara in giacca nera e doppiopetto, privo di patente e del passamontagna, che riteneva un insulto alla bellezza perfetta del suo volto.
"Ah, io non c'entro con questo, ha fatto tutto Sasori-danna" scrollò le spalle l'altro, prima di aggiungere, inanellando vuoti giri del motore:"vi muovete, gentiluomini? Ho un po' di fretta..."
"Signori, è stato un piacere godere della vostra compagnia questa mattina" ghignò sarcastico Hidan sotto il tessuto pungente di lana scura, "raccontatelo ai vostri figli e pregate Jashin che possiate bruciare all'Inferno coi vostri fottuti soldi di merda! E adesso..."

e BOOM, questa volta il bazooka di Zen sparò davvero

"...Pubblicità!"

 

Un autoradio che urlava a squarciagola Lust for Life, Deidara alla guida col piede premuto sul pedale dell'acceleratore e quindici milioni di dollari che sobbalzavano al ritmo della strada.
Cinque minuti dopo si erano già dileguati, erano svaniti nel turbinio della pioggia.
" I GOT A LUST FOR LIFE, GOT OF A LUST FOR LIFE, OH A LUST FOR LIFE, OH A LUST FOR LIFE...!"

 

Le sirene della polizia mugghiavano in lontananza.  

 

 

Epilogo

 

Spalancò la porta e a rotta di collo si scaraventò nell'appartamento.
Correndo a perdifiato come un pazzo frugò a tentoni nelle stanze, il cuore imbizzarrito e il corpo senza controllo; afferrò una ventiquattr'ore nera e la Sword Cutlass, incespicò e bestemmiò e per poco non cadde. Senza capire realmente ciò che stava facendo volò da una stanza all'altra, febbrile e incontrollato, finchè non riuscì a trovare lei, in piedi vicino alla finestra, un fulmine che come una stella le aveva attraversato la schiena.
Allora respirò, respirò con lentezza.
"Stanno arrivando" pronunciò scandendo bene le sillabe, "sanno dove siamo."
La sua voce per la prima volta parve insicura, come quella di un bambino che ha paura di parlare troppo forte.
Konan si sentì morire.


Erano saliti in macchina di corsa e si erano gettati nelle strade, la pioggia negli occhi e il suono luttuoso e monotono delle sirene che onnipresente li tallonava, senza dar loro tregua.
Lei non l'aveva mai visto così infuriato, così cieco di rabbia, così animalesco nel suo furore. Poteva vedere i suoi occhi gonfiarsi e agitarsi come lo specchio di un ciclone, animati da una sinistra luce ineluttabile del tutto nuova, che prima d'ora non aveva mai brillato, temibile come un'esplosione.
"Mi hanno fatto fuori" sibilava lui, "avevano paura e mi hanno fatto fuori. I soldi, cazzo, ne volevano di più, di più, così hanno venduto anche me e tutta Konoha ha accettato, tutta quanta..." Pain fumava, guidava e, invasato, pensava.
Non poteva credere che stesse succedendo proprio a loro. A loro due, che tenevano fra le dita la città e l'avevano stritolata, a loro due, a loro due che erano immortali.
Controvoglia gli sfuggì un singhiozzo che nascose come meglio potè, mordendosi le labbra a sangue e sterzando bruscamente lungo la Ventottesima.
Cazzo, cazzo, cazzo, doveva pensare.
C'era una via d'uscita, c'era sempre una via d'uscita, c'era per forza, per loro ci sarebbe stata, l'avrebbero inventata sul momento.
E Konan, pensò, Konan.
Prigione significava separazione, significava morte certa per entrambi, lo sapeva bene.
Parla, cristo, dì qualcosa, qualunque cosa, porca puttana!
Ma
taceva. Immobile sul sedile del passeggero, taceva. La pioggia riflessa sul parabrezza le rigava le guance di lacrime invisibili.
Allora fu lui a parlare di nuovo:"E' stato il bastardo di Tobi, Madara o come cazzo si chiama. Quello che credevo troppo stupido per rappresentare una seria minaccia, esatto. Voleva Konoha, quel figlio di puttana che non è altro" grugnì Pain con astio, sputando la cicca fuori dal finestrino.
Dopo quel gesto si sentì ancora più inutile e inadeguato, impotente nel momento in cui la sua creazione collassava e gli si disfaceva letteralmente addosso.
"Possiamo scappare" suggerì lei d'improvviso.
"Sì... forse per due mesi. Per uno. Per quanto?" replicò l'altro, la testa che pulsava e vampe incandescenti di rabbia che lo accecavano.
Perchè adesso vedeva il mondo torreggiare minaccioso su ciò loro due avevano costruito con fatica: sul loro esclusivo e impenetrabile Eden artificiale.
E questo non gli piaceva. Oh no, non gli piaceva per niente.
Il loro universo era delimitato da un confine netto, che andava da lui a lei. Non c'era nient'altro a parte loro due, né ci sarebbe mai stato.
Ma quelle sirene, quelle dannate sirene urlanti lo ammonivano, sgradevoli come la ragione, gli ricordavano che anche i loro segreti sarebbero stati violati, che non erano né invincibili immortali, che le loro vite sarebbero state spazzate via come foglie secche.
E piuttosto, piuttosto lui...
New York gli scivolava sotto gli occhi e Pain non riusciva a pensare, i ricordi lo stavano colpendo tutti insieme, appuntiti come la pioggia.
Non avevano amici né schiavi, non avevano alleati, non avevano un rifugio sicuro, non avevano nient'altro che non fosse quella città maledetta, quella città crudele e cannibale che bruciava sotto i loro piedi. Lui, Pain, Jimmy Che Spara che non sbagliava mai un colpo, sovrano di Konoha, Yahiko, Nagato e tutte le persone di cui aveva rubato l'identità, aveva commesso un unico errore madornale: credere di essere il re del mondo con una convinzione talmente cieca da rasentare la follia.
Ma era il re di un mondo soltanto, un mondo che in quel momento sedeva accanto a lui sul sedile di una vecchia Impala color ferro.
"Ci vendicheremo?" fece a un tratto Konan, lo sguardo fisso sullo specchietto retrovisore.
"Certo. La mafia di New York sarà ai nostri ordini prima che Madara possa sedersi sulla mia poltrona" mormorò glaciale Pain, "e tutti loro soffriranno come noi, ma moltiplicato per dieci."
Konan con un sospiro recitò:"Siamo stati nel crepuscolo, abbiamo visto ogni cosa senza farci sfiorare dal sole e aspettiamo di andare in fiamme insieme a lui, fino alla fine."
E Pain quasi si fermò di botto, perchè finalmente capiva, finalmente un bagliore si era fatto largo tra le gocce di pioggia.
Così, semplicemente, capì.
Ma ciò che più lo sorprese fu che lei, lei l'aveva capito ben prima di lui e probabilmente l'aveva sempre saputo, fin da quel giorno a casa sua in Virginia.
Se ci ripensava, tutte le sue azioni erano un chiaro preludio di quella consapevolezza, di quell'epilogo.
Lei, cazzo, lei. Sapeva tutto e l'aveva accettato già da molto tempo con una naturalezza che lo sconvolgeva.
Ed era così bella, la loro stupida vita. Era così bella e faceva così male rinunciarvi.  

Ingranò la marcia più alta e si lanciò nel traffico rombando, mentre le sirene persistevano e aumentavano di volume a ogni minuto che passava.
"Stai andando verso Coney Island" registrò Konan senza colore, le mani placide posate in grembo.
"Sì. Dicono che ogni cosa alla fine approdi su quelle rive."
"Quella volta che siamo andati al mare... siamo andati a Coney Island, no?" Le labbra arricciate e la pallina di ferro sul mento che disegnava una piccola fossetta dubbiosa, Konan si sforzava di ricordare.
"Quel giorno che abbiamo camminato lungo la baia e tu hai fatto un sacco di foto all'acqua grigia."
"Oh, sì. Il cielo era splendido."
"Color metallo?"
"E al tramonto divampava come un fiore che si apre."
Venne interrotta dal fischio di una pallottola che si conficcò nel motore, da cui subito si levò una colonna di fumo nero che li fece tossire.
L'automobile sbandò ma Pain la tenne saldamente ancorata alla strada, così ripresero il controllo del veicolo e schizzarono come il vento verso la banchina e verso il porticciolo della penisola perchè, lo sapevano bene, Coney Island si chiamava così pur senza essere davvero un'isola.
Oltre i finestrini i grattacieli si allontanavano veloci perdendosi nella notte, agghindati di collane di perle, mentre tra i bagliori dei lampi spariva e appariva lo splendore notturno della spiaggia sferzata dalla pioggia e dal vento. Era bellissima, color indaco nel buio della sera, luminosa come un cielo stellato e sfavillante nella tempesta col suo piccolo faro che, alla punta estrema della penisola, con passi di luna svelava la strada ai naviganti.
Pain di sfuggita guardò Konan e vide le sue labbra stirate in un piccolo accenno di sorriso leggero e quasi spensierato. Aveva occhi blu come il mare, Konan, occhi blu tanto inquieti e profondi che l'oceano al confronto sarebbe impallidito di vergogna.
Accelerò, accelerò e accelerò ancora. I palazzi di Coney Island e l'enorme ruota panoramica dell'omonimo Luna Park corsero veloci di fianco a loro, gli parvero fatiscenti e irreali nel tumulto cupo del temporale, soltanto le auto della polizia dietro di loro gli rammentavano insistentemente l'urgenza della realtà.
Dovette inchiodare quando s'accorse di trovarsi sulla banchina, a una ventina di metri dal pontile lanciato sul mare.
In fondo sapeva che tutta la sua vita non era servita ad altro che a condurlo lì, di fronte al mare.
La pioggia scorreva ancora sul viso di Konan, ma non avrebbe saputo dire se questa volta piangesse davvero.

"Hai visto com'è scuro laggiù?" Le disse guardando le onde color pece, che senza sosta rotolavano e si rifrangevano contro il molo.
Konan annuì piano e in un istante ricordò la ragazzina che nella casa del Governatore non dormiva mai senza una luce accesa. Si voltò di verso di lui e raccolse il respiro prima di rispondergli:"Ma non ho paura del buio.
Perchè so che poi aprirò gli occhi e tu sarai ancora lì, accanto a me. Non c'è nulla di cui aver paura."
E allora Pain sorrise, e il suo secondo sorriso attraversò Konan senza ferirla.

 


Poi ci fu solo il mare. E il buio.
E le luci porpora della polizia che intermittenti danzavano sulle onde.




...But Angie, Angie, they can't say we never tried.



Fin    
  


Note dell'Autrice
Il titolo si deve a Hugo Pratt e ai suoi fumetti, che mia madre mi mise in mano a dieci anni e che mi hanno fatta innamorare di Venezia.
La canzone si deve, come già detto, ai Rolling Stones :).
La Sword Cutlass del '79 si deve a Black Lagoon e al suo creatore, Rei Hiroe.
L'immagine di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini si deve alla Divina Commedia illustrata da Gustave Dorè.
Coney Island si deve ai Death Cab for Cutie e all'omonima, splendida canzone. 

 

Grazie a tutti!

 


   
  

  

 
 


 
 


 



 

 

 



 

  
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