Disclaimer:
I personaggi citati appartengono a Masashi Kishimoto, che ovviamente si prende tutti i diritti del
loro uso. I versi della canzone su cui è basata
l'intera songfic sono di Angie
degli Stones, a cui va ogni copyright ed
elogio.
Prologo
Si svegliò piano, lentamente, col peso di tutte
le sue duecentotré ossa, una più una meno, ancora
indolenzite dal sonno. Rimase immobile nella penombra, contando le righe di
luce fioca che scivolavano rapide sul soffitto della stanza, mentre nelle sue
orecchie si fece largo il rumore solitario di qualche automobile che sfrecciava
rombando sotto la finestra. I vetri tremarono, come le sue ciglia.
Tre ore per notte rispettate fino all'ultimo secondo come un orologio ben
caricato: non riusciva a dormire di più. Il suo corpo rifiutava il sonno e,
indocile, si svegliava, dissipava i sogni per annegare nel buio della stanza e
nell'odore di sigarette ormai onnipresente in quella casa.
Sigarette, giusto. Allungò la mano e ne sfilò una dal pacchetto poggiato sul comodino.
Nelle braci arancio della paglia che bruciava rosseggiarono i vestiti
dimenticati per terra, i mobili impolverati e il soffocante caos organizzato
che circondava il letto sfatto. Tazzine di caffè dimenticate, sigarette, vinili -il suo punto debole e
costante cruccio-, biancheria intima che nessuno aveva cura di riporre nei
cassetti, un paio di scarpe col tacco, la bacchetta di una batteria, i
biglietti di un concerto a cui non erano mai andati, le vestigia di una cena
comprata settimane prima al take-away giapponese
all'angolo.
Un furgoncino arrancò lungo la strada tossendo e sputacchiando e il pessimo
stato dei suoi freni rimbombò nella stanza come il boato di un tamburo. Già
sentiva qualche voce intontita dal sonno, le imprecazioni, la canzone stonata e
nostalgica di un vecchio ubriaco malinconico.
Spense la cicca su una pila di vecchi giornali e si sporse dall'altra parte del
letto.
...Ecco, da quell'angolazione
la vedeva bene: giaceva dimenticata sotto la sua camicia preferita e sotto un
paio di occhiali da sole, peraltro inutili d'inverno.
Una Sword Cutlass del '79.
"La" Sword Cutlass.
Posò le labbra accanto all'orecchio della donna sdraiata di fianco a lui, benchè sapesse che anche lei doveva essere già sveglia (loro
due si svegliavano sempre insieme, aprivano gli occhi nello stesso istante, era
così da quindici anni o da quando più o meno esisteva
il mondo).
"Konan" sussurrò, "è
mattina."
...Di altri Romei e di altre Giuliette
Angie, Angie, when will those clouds all disappear?
Angie, Angie, where will it lead us from here?
I Stasimo
Nel giorno della sua nascita pioveva a dirotto.
Nel giorno più brutto della sua vita -che era anche il più bello, perchè era il
giorno in cui aveva conosciuto Pain-
pioveva ancora.
Dunque Konan non si stupì quando
vide un cielo grigio come un mare in tempesta sopra i tetti della città: anche
quello era un giorno importante, quindi doveva piovere.
Sorseggiò il lungo caffè amaro che s'era preparata per colazione e con le dita tamburellò sui vetri
una melodia immaginaria, finchè la tazza non rimase
vuota e inerte, dimenticata sul davanzale della finestra.
Do mi sol re sol mi do la re fa
Il suo stesso viso, riflesso nel vetro sporco di pioggia, le parve rigato di
pianto. Dovette passarsi il dorso della mano sugli zigomi per dissipare quella
fastidiosa impressione, ma istintivamente si bloccò non appena udì in
lontananza le sirene della polizia che ululavano, attutite appena dal mormorio
della pioggia e del traffico.
La strada comunque era deserta, nessuno in vista, i
negozi erano tutti chiusi e l'insegna al neon del night club di fronte a loro
pencolava ronzando da un lato, sconsolata e piangente. C'era solo una
ragazzetta, doveva essere sicuramente una di quelle, che consumava le
suole delle scarpe e l'ossigeno dei suoi polmoni fumando una sigaretta lì
sotto, le spalle cascanti di chi ha dovuto lavorare una notte intera.
Ecco, in quel momento si accorse del viso di Pain
riflesso accanto al suo, impresso nel vetro della finestra. Pain
occhi grigi e geniali alla Arthur
Rimbaud, Pain zazzera
arancione e volto scolpito nell'acqua fredda, Pain
mille piercings -che poi erano solo otto, li
aveva contati- e una scottatura rossastra all'angolo delle labbra, piccola come
il graffo di un gatto.
Poggiargli una mano sulla guancia e attirarlo a sé fu un gesto naturale, come
respirare.
"Suoni qualcosa?" gli chiese.
Si staccò, Pain, e Konan lo
sentì rovistare nell'appartamento alla ricerca di un vinile. Minuti dopo, la
puntina del giradischi affondò nella superficie lucida del 45 giri e il
pianoforte di Czerny scivolò vellutato nella stanza.
Konan conosceva quelle note e le centellinò una a una mordicchiandosi il labbro, come si fa con un bicchiere
di buon vino. La melodia era dolce e liquida come la luce lunare, come un tuffo
in mare, come la carezza del velluto e dei petali dei fiori. La donna vi si
crogiolò, dimenticando per un istante di essere se
stessa.
La riscosse la scottatura sul labbro superiore di Pain,
il suo bacio, il familiare tepore del corpo in cui si lasciava cadere, come
sempre, delicatamente.
Quella città era orribile, era un gigante di specchi e semafori, era
l'agonia stessa dell'eleganza.
Ma una città era poco più di un nome, non era niente.
Poco importava che fosse Konan o Caroline
Thompson o Christine, non cambiava niente. Era solo un nome, inutile.
Il giorno che il Governatore e sua moglie erano stati uccisi, pioveva.
Pioveva forte, perchè il cielo piangeva con lei.
Nascosta nel fondo di un armadio, tra i profumati cappotti di cammello che i suoi
genitori non avrebbero mai indossato, piangeva guardando gli occhi senza vita
della moglie del Governatore, mentre le ante venivano
spalancate e lei era obbligata ad alzare lo sguardo verso l'alto, verso le
scarpe impiastricciate del sangue appiccicoso del Governatore.
Aveva alzato gli occhi e non s'era neppure accorta della pistola ancora
fumante, aveva alzato gli occhi per fermarsi lì. In un certo senso anche
lei poteva dire d'essere morta, quel giorno.
Era quello il giorno in cui l'aveva incontrato e da allora non l'aveva più
lasciato, neanche per un secondo.
Del resto lui era l'unica cosa in comune che le era rimasta da
spartire col mondo.
Ogni volta che lo guarda, Konan vede gli occhi
terrorizzati di quel ragazzino di quindici anni, vede lo stesso viso
pulito, vede gli stessi zigomi bruciati da un velo di
polvere da sparo e la stessa brama d'eternità che non s'è mai estinta.
Quando Konan lo guarda, un'altra persona si sveglia
sotto la pelle di Pain, come rispondendo a un richiamo che loro due soli possono udire, e alza su di
lei occhi nuovi, trasfigurati e luminosi.
Ogni volta che succede, Konan sa di non aver bisogno
d'altro.
II Stasimo
Jimmy Che Spara
lo chiamavano così perchè, logicamente, sparava.
Giravano tante storie su di lui: dicevano che non
avesse un nome, che fosse il figlio di un banchiere che aveva sgozzato la
moglie coi propri denti, che fosse l'incarnazione del Wendigo
del Nord o di Maître Carrefour di Cuba, che fosse un orfano irlandese sfregiato
dalla strada, che si nutrisse del sangue delle vittime uccise, che uccidesse
con la sola clausola di poter asportare i molari dei cadaveri per scopi
rivoltanti, che avesse ucciso per la prima volta a sei anni spaccando il cranio
della madre con una vecchia doppietta da caccia.
La sola certezza era comunque una soltanto. Jimmy Che Spara sparava, senza
remore e senza condizioni. Sparava.
Dicevano che sorrideva soltanto due volte per ogni
persona, ma la seconda, ahimè, era già tardi. Nessuno
l'aveva mai visto sorridere la seconda volta, almeno nessuno che fosse poi sopravvissuto per vantarsene.
Il lampo di un ghigno, lo sparo, il tonfo, il silenzio. Jimmy
Che Spara svaniva, angelo dell'eterno riposo, e
tornava a fare rapporto al boss di turno a cui vendeva la sua pistola.
Nessuno l'aveva mai visto al di fuori di un suo qualche "lavoretto";
non sapevano dove abitasse, né se avesse una famiglia, una casa, un segno
distintivo che non fosse una Sword Cutlass del '79. Non aveva ideali, bandiere, ricordi o una
fede in qualche Dio, aveva soltanto una Sword Cutlass e sapeva fin troppo bene come utilizzarla. Era
arrivato dal niente, quasi la strada l'avesse sputato fuori, e il niente era
ciò che si proponeva di raggiungere.
Aveva percorso senza inciampare la lunga scala lastricata di cadaveri che dal
ruolo di killer a pagamento l'aveva portato a quello di signore indiscusso di
tutta l'area che andava dalla Trentesima alla Cinquantasettesima Strada, una
sterminata giungla di cemento che i rapporti della polizia in gergo indentificavano come "Konoha".
Chi aveva provato a incastrarlo s'era trovato
incastrato, talvolta fra le lamiere contorte di un'automobile con un proiettile
ficcato nel cervello. Avevano provato a fregarlo, a scavalcarlo e a
sotterrarlo, ma puntuale ogni tentativo si era rivoltato contro di loro perchè Jimmy Che Spara vinceva ogni partita, sguardo inossidabile
e faccia da eterno ragazzino leggendario e maledettamente astuto.
Il nuovo nome con cui si faceva chiamare era Pain, sofferenza,
e la sua abilità con la pistola era cresciuta di pari passo con la sua
glorificazione.
Nuestra Señora de la Soledad, che lo accompagnava sempre e che i trafficanti colombiani chiamavano
così perchè il suo uomo rendeva tutti un po' più soli,
che fossero amici, nemici, famiglie o vittime, sembrava ancor più ultraterrena
e terrificante di lui. Muta, fantasmatica e assente,
seguiva Pain con la cecità di un fedele e
l'abnegazione di una monaca, gli occhi blu che non lo perdevano mai di vista e quell'aria sempre distratta ed eterea, come lo spirito
senza sonno di un pellegrino.
Di Nuestra Señora de la Soledad tutti conoscevano il nome: Konan.
Era lei del resto a occuparsi dei rapporti diplomatici
del compagno, a tenere i contatti con le altre bande, a riferire, a consigliare,
a spiare e a ricordare. Era stata lei ad avvicinare uno per uno
i nove criminali più potenti della città e a proporre loro un patto che,
semplicemente, non era consentito rifiutare: si erano uniti sotto la
denominazione comune di Akatsuki Inc. e agivano sotto il controllo diretto di Pain.
Si erano spartiti la città come si fa con una grossa torta ben tagliata a
fette, anche se nessuno sapeva quando sarebbe arrivato
il primo morso. Come sull'orlo di un precipizio, tutti quanti
attendevano che il piede in fallo li trascinasse nella caduta.
C'era soltanto una persona a conoscenza di ogni
segreto dell'Akatsuki. Una sola,
che come un labirinto custodiva in sé le chiavi segrete dell'intricato mosaico
di pistole, eroina e cannoni che in quel periodo traforava la città.
Una sola persona, molto discreta, che volava fin troppo lontano dal mondo
comune perchè il tramestio caotico delle mani che tentavano di ghermirla la sfiorasse soltanto.
Se si ripensa a Jimmy che Spara e a Nuestra Señora de la Soledad, subito viene alla mente una vecchia illustrazione
a china di un libro dimenticato: due amanti abbracciati nell'aria tumultuosa e
intorno a loro la tempesta che infuria, nera di pioggia e nuvole roboanti.
Il primo morso comunque non tardò ad arrivare: staccò
via una parte di città, la masticò e l'inghiottì come un'enorme gigante
mostruoso, la risputò lontano in un agglomerato di saliva disfatta, frammenti
di illusioni e morbido pasticcio di disgrazia.
Il primo morso si abbattè su di loro così repentino e
improvviso che li gettò in ginocchio, impotenti, e
molti faticarono a rialzarsi in piedi. Il primo morso li lasciò stremati, poichè ebbe conseguenze che nessuno di loro avrebbe mai
potuto immaginare.
Intermezzo
L'appartamento in cui si erano radunati era buio e gelido, era uno
scheletro bianco di calce, poco più di un palazzo in divenire. Dai vetri
inesistenti piangevano grosse gocce d'acqua e la pioggia ticchettava sulle loro
teste come i piccoli passi di un gatto, mentre il freddo crudele di novembre
mordeva loro le ossa. Si erano ritrovati lì dentro seguendo gli ordini di Pain, ma la stranezza era che tutti quanti davanti a quel
cantiere abbandonato si erano sentiti smarriti o quantomeno incerti perchè, pur
scafati com'erano, nessuno di loro aveva mai visto prima
quel posto, giacchè la loro memoria visiva si
riattivava solo parecchi isolati di distanza più in la, in territorio per così
dire amico.
Sedevano in cerchio sul pavimento sporco di calcestruzzo, le braci delle
sigarette che illuminavano sprazzi grotteschi dei loro volti, le armi al sicuro ma a portata di mano, secondo il saggio detto che
prescrive di non fidarsi neanche della propria madre sul letto di morte, e a
bassa voce senza guardarsi perfezionavano il piano, attendendo da un momento
all'altro il responso del capo.
"Io posso coprire la zona che arriva fino alla Trentacinquesima, dove c'è
lo strip-club di quella vecchia carcassa."
"Dove si esibisce la tua nuova fidanzatina?"
"Esatto, proprio lì. Dove hai venduto tua madre per un paio di centoni, proprio
lì."
"Ripetilo un'altra volta e ti userò come concime per i campi giù in
Bolivia."
"Sentite com'è suscettibile l'amico quando si
parla di compravendite! Scusa, hai ragione, volevo
dire un centone. Tua madre non vale così tanto."
"Io ti-"
"Non vi ho chiamati per discutere della moralità della ragazza di Hidan, su cui credo esistano pochi dubbi" ringhio
sommesso da parte dell'uomo chiamato Hidan, "o
della morte della madre di Kakuzu. Sapete che odio
sprecare tempo. Non fatemi perdere la pazienza, grazie. Itachi, di quale zona puoi
occuparti?"
"Qualunque. Per i miei uomini non rappresenta un problema."
"Per i tuoi uomini... o per la banda del tuo fratellino? Sta facendo un
po' troppo di testa sua ultimamente."
"Zen, questi non sono affari che ti riguardano."
"Come credi. Sappi che Zen ed io non siamo gli
unici ad essere scontenti di questa situazione."
"Problemi vostri. Io prendo ordini da Pain, che
non mi ha accennato nulla di tutto questo, oppure mi sto sbagliando?"
Breve cenno affermativo da parte del diretto interessato:"Non
sbagli. I tuoi affari di famiglia non m'interessano, così come non m'interessano le vostre beghe."
"Andiamo, non ricominciare la solita storia sul fatto che sono
ininfluenti..."
"...e irrilevanti. Conosci le regole di questo gioco meglio
di noi."
"Mi sono già espresso sulla questione una volta. Devo forse
ripetermi?" e videro la sciabola di un sorriso
malsano luccicare nella penombra.
Ammutoliti, i gemelli Zen e Tsu tacquero.
"Prima di venire interrotto, stavo chiedendo ad Itachi di quale zona del quartiere preferisce occuparsi.
Puoi ripetere la tua risposta, Itachi?"
"Stavo dicendo che posso coprire qualunque zona.
Assicuro la massima protezione."
"Immagino che Sasuke sia completamente
d'accordo."
"Completamente, già."
"Anche se non lo fosse, immagino tu gli abbia fatto presente che il
rifiuto non è contemplato."
"Proprio così."
"Basta un battito di ciglia perchè ritrovi la sua
sciacquetta rossa spalmata sull'asfalto.
Ricordaglielo, sai, un antico popolo molto saggio diceva
che repetita iuvant
e io mi trovo perfettamente d'accordo con loro."
"Quello stesso popolo saggio diceva anche che ubi
maior minor cessat. Sasuke ed io lo sappiamo
bene."
"...Avete intenzione di parlare latinorum ancora
per molto? Mi sto annoiando."
"Piantala di giocare col cane della pistola, Deidara, se ti parte un colpo per sbaglio porti via metà
faccia a Zen."
"E tu non trattarmi da vecchia nonna petulante, Sasori-danna."
"Itachi, ricordagli anche di quell'altra.
Sappiamo tutto anche di lei. Soprattutto di lei. Ammetto che è
stato piuttosto bravo a nascondercela. Bravo, eh, non bravissimo, è
ancora troppo giovane per fregarci. Come da copione
entra in scena la vecchia compagna di scuola Fiordiciliegio
e la rossa di Tsunade si rivela per ciò che è,
nient'altro che una semplice e sacrificabile comparsa... Ricordagli
di lei, Itachi. Forse sarà un deterrente, come dire?, più efficace."
"..."
"Bah, avevi appena finito di dire che i panni sporchi non
t'interessavano."
"Hidan, tu hai una memoria troppo solerte. Sasori, a te va bene occuparti dell'area principale?"
"Sicuro, del resto è il mio quartiere."
"L'esterno dell'edificio è tutto tuo."
"Con immenso piacere, Pain."
"Deidara, a te spetta l'onore di aprire le
danze."
"Umpf, tutto il divertimento a lui."
"Zitto Tobi" grugnì Deidara,
storpiando a mezza voce Paint
it Black:"Ovviamente lo giudico l'onore più
sublime a cui un essere umano può aspirare... and I want
it painted black! Nananananananananananana!"
"Abbiamo riservato questo compito apposta per te."
"Mi sarei offeso se non lo aveste fatto."
"Zen, Tsu, Tobi, Kisame, sarete voi gli attori principali dello spettacolo.
Avrete le spalle coperte, le armi giuste, l'equipaggiamento adeguato e un mezzo
di trasporto capiente.
Al primo ostacolo, sparate.
Al primo tentativo di fregarvi, sparate.
Per assicurarvi una via di fuga in caso qualcosa andasse
storto, sparate.
Sparate con convinzione, signori.
Non fate economia di proiettili. Potremmo comprarcene
laminati in oro."
"Il comando della squadra principale è affidato a...?"
"Kisame."
"Perfetto."
"Già, perfetto."
"Sasori per i tiratori scelti e Itachi per la via d'uscita. Sono stato chiaro?"
"Luminoso, direi."
"Concordo."
"Qualcosa non funziona come dovrebbe e finite tutti al camposanto. Vedete
di fissarvelo bene nella mente, quando aprirete gli occhi quel giorno."
"I wanna see
it painted, painted, painted, painted black! Yeah!"
"Suppongo
che questo equivalga a un sì, Deidara."
"...E riparleremo di gentiluomini di fortuna. E anche della fine del
mondo, no?"
"Sicuro."
"Avanti tutta, come una locomotiva sparata sui
binari dell'impossibile! E' una sensazione fantastica."
"Ricorda solo che non puoi fermarti né tornare indietro."
"Ah, questo non è un problema. Ritrattare è sempre molto noioso."
"Anche morire, signori."
"Ma per fortuna noi siamo ben lontani da tagliare il traguardo."
"Chi può dirlo."
"Io. E adesso trovatemi qualcuno che può contraddirmi."
"Dunque avanti tutta. La locomotiva e bla bla bla."
"Esatto."
"Siamo d'accordo?"
"Sì, sì siamo d'accordo."
"Siamo d'accordo."
"Sotto ogni punto di vista."
"...Allora che ne dite se andiamo a prenderci questo cazzo
di universo, signori miei?"
Intermezzo - II
L'odore di stantio e di rancido che albergava fra quelle quattro mura
crivellate dall'umidità era insopportabile, eppure non
lo percepiva: perfino il suo naso navigava senza meta, perso negli aromi
dolciastri della Verona del Cinquecento, nel clangore delle spade, nel vortice
del sangue, nella carezza vellutata di tessuti pregiati che la sua pelle non
conosceva e che alla mente le risuonavano esotici come gli echi di un mondo
lontano.
Leggere era un'antica abitudine che aveva preso per riempire i pomeriggi vuoti
a casa del Governatore, poichè non le era permesso
uscire per nessun motivo, neppure per quello più logico, la scuola: un maestro
privato si occupava della sua educazione, senza tralasciare materie quali il
canto, la composizione di haiku, la danza giapponese
e l'origami.
Nell'origami soprattutto era sempre stata molto
dotata. Piegare la carta non faceva male, non era difficile né compromettente e
soprattutto non aveva bisogno di parlare per farlo. Poteva decidere da sola, poteva chiudersi in un silenzio legittimo e concentrato,
senza che nessuno si sentisse autorizzato a parlare per lei.
Odiava, odiava quando parlavano al suo posto. State
zitti, voleva gridare loro, nessuno vi dà il diritto di oltraggiare il
mio silenzio!
Ma la forza per gridare, quella, non c'era mai. Per
questo piegare la carta era decisamente molto, molto
più semplice.
La carta era più debole di lei.
"Cosa succede di bello lì dentro?" Quella
domanda fu come l'imperativo di un risveglio.
"Niente" rispose chiudendo il libro, "Tizio ama Tizia e muoiono
insieme. Fine."
"Una tragedia."
"Sì, l'amore al tempo dell'impossibile o una cosa del genere"
la ragazzina sogghignò appena, facendo una piccola smorfia divertita che
stonava coi suoi capelli opachi, coi suoi vestiti
dimessi e un poco sdruciti, con le scarpe da uomo ancora infangate che
indossava.
"Parla più piano o ci sbatteranno fuori, Konan"
la redarguì distrattamente il ragazzo che le sedeva di fronte, diciassett'anni
appena e gli occhi grigi come un temporale.
"Bah. Tanto questa biblioteca fa schifo, hanno
solo libri che non mi piacciono" si difese Konan,
stuzzicando con l'unghia l'etichetta sbiadita che recitava "PROPERTY OF
NYC CIVIC LIBRARY - SERIAL No. 03747".
Però le piaceva venire spesso lì dentro per leggiucchiare senza impegno
qualcosa, con la tessera che Lui le aveva regalato quando aveva saputo della
sua passione per la lettura; le piaceva sedersi comoda in quella sala di
lettura sempre desolatamente semivuota; le piaceva che Lui rimasse con lei
mentre leggeva e che poi discutessero di libri; le piaceva scroccare il caffè annacquato di metà pomeriggio che la biblioteca
metteva a disposizione dei clienti.
Ogni cosa le piaceva, semplicemente.
"Mio fratello amava i libri quanto te."
"Io non amo i libri" mormorò con un sospiro Konan,
guardandolo dritto in viso. Le sue parole erano come una mano tesa verso di
Lui, erano semplici, erano un ponte invisibile gettato tra loro due e sentì per
un istante di potervi camminare sopra e finalmente raggiungerlo.
"Assomigli a Yahiko anche in questo" e lui
si lasciò sfuggire un sorriso che, a causa della luce
giallastra della lampada al neon, divenne obliquo e quasi sfuggente.
"Per i libri e ...?"
Pain allora rise, rise divertito come faceva molto di
rado. Ma le sue risate, che erano scoppi istantanei di
fuoco e subito svanivano come inghiottite dalla notte, sapevano scioglierle il
cuore, erano una carezza che lei, ostinata, si portava addosso anche dopo
giorni e giorni.
"La seconda cosa te la dirò un'altra volta."
Konan non rispose subito. Aveva staccato quasi del tutto l'etichetta dalla copertina del libro, la
resistenza della carta adesiva stava ormai cedendo da più angoli.
Dopo qualche secondo di silenzio, gli domandò:"Come
sta Yahiko, adesso?"
"Oh, lui sta meglio di tutti quanti, sta molto meglio di noi."
L'etichetta venne via del tutto con un ultimo strattone; Konan
ci giocherellò sentendo sulle dita la scia appiccicosa della colla
adesiva:"E' col Governatore e sua moglie?" chiese a voce bassissima.
Pain si rabbuiò un poco, ma poi il suo viso tornò
quasi subito a distendersi nella sua abituale espressione piatta e immota:"No. Lui sta molto meglio di chiunque altro, adesso.
Lui è dentro di me."
Esodo
...E la rapina iniziò, si svolse, si concluse.
Un mare frusciante di carta verdognola si riversò nelle mani di Tobi, ma bastò uno strattone di Kisame
per farlo tornare in sé in un colpo solo.
"Che fai, eh?" gli abbaiò in faccia, gli occhi minuscoli e sbarrati
sotto il passamontagna di lana.
Tanto bastò a riscuoterlo: le banconote vennero
riposte con precisione nei borsoni, mentre Hidan
giocava a terrorizzare gli ostaggi con un simpatico fucile di precisione
che puntava di continuo contro di loro.
"...Ma quindi siete tutti dei grandissimi
calvinisti risparmiatori, eh? La gallina dalle uova d'oro del capitalismo! Non
sapete quanto vi sparerei volentieri... quasi quasi
lo faccio... non lo farò se quel grassone là in fondo
mi dirà il nome di battesimo di Schopenhauer.
Non lo sa, vero?! Ignorante!" e il colpo
esplodeva, si bruciava e si conficcava nel soffitto.
Nessuno comunque aveva tempo per accorgersi del
piagnucolio tremante degli ostaggi.
"Non sparerò a chi mi dirà il numero più alto di tutti! E
il primo che prova a dire 'infinito' sarà il primo a finire nel regno dei più,
signori risparmiatori!"
Un altro colpo di fucile a vuoto, un altro sacco di dollari che profumavano
d'illusioni.
("...Cosa ci facciamo con tutti quei
soldi?"
"Ah, ma che domande fai, Konan. Con quelli ci
compriamo un futuro intero. E mica solo il nostro, eh, quello
di tutti. E poi guarda questa città... non dicevi tu che era orribile? Beh, potremo migliorarla a modo nostro."
"Migliorarla, eh?"
"Sì."
"Ha un bel suono questa parola.")
Niente orologi, niente microspie, niente dispositivi elettronici; solo
semplicità elementare, pistole, passamontagna e una copertura capillare sul
territorio, a cui neanche un granello di polvere sarebbe sfuggito.
Quindici minuti. Avevano soltanto quindici minuti, scrupolosamente scorporati e
analizzati secondo per secondo. Il minimo errore ed
erano fottuti, totalmente e irrimediabilmente
bruciati, a Konoha c'era una folla brulicante di
sciacalli che con la bava alla bocca attendeva i loro
cadaveri per spolparne le ossa.
Ma loro erano l'Akatsuki. E
l'Akatsuki non concepiva la possibilità di errore.
Erano perfetti, efficienti, professionali e rapidi. Erano nati per farlo e non
c'era nient'altro che sapessero fare.
Un boato fragoroso scosse l'edificio come un terremoto, mentre si sollevò una
nube candida di calcinacci polverizzati e di schegge di vetro. La sagoma di uno
smagliante furgoncino rinforzato, con le fiancate decorate dall'adesivo enorme
di una TV via cavo, si fece via via più nitida nella
nebbiolina bianca fino a delinearsi in tutto il suo
splendore. L'automezzo slittò sul pavimento di marmo e riuscì a frenarsi solo a
qualche passo dalle teste degli ostaggi, trascinando con sé nella sua corsa
folle anche gli ultimi residui della vetrata d'ingresso.
Hidan rise a gola spiegata, mentre
gli ostaggi, il viso puntato a terra, gorgheggiarono cacofoniche grida
di puro terrore.
Kisame, senza batter ciglio, gridò di caricare tutto
e prepararsi a sparire.
"E menomale che Pain aveva chiesto una cosa
discreta!" ringhiò al conducente, per l'occasione un
Deidara in giacca nera e doppiopetto, privo di
patente e del passamontagna, che riteneva un insulto alla bellezza perfetta del
suo volto.
"Ah, io non c'entro con questo, ha fatto tutto Sasori-danna"
scrollò le spalle l'altro, prima di aggiungere, inanellando vuoti giri del
motore:"vi muovete, gentiluomini? Ho un po' di
fretta..."
"Signori, è stato un piacere godere della vostra
compagnia questa mattina" ghignò sarcastico Hidan
sotto il tessuto pungente di lana scura, "raccontatelo ai vostri figli e
pregate Jashin che possiate bruciare all'Inferno coi
vostri fottuti soldi di merda!
E adesso..."
e BOOM, questa volta il
bazooka di Zen sparò davvero
"...Pubblicità!"
Un
autoradio che urlava a squarciagola Lust
for Life, Deidara alla
guida col piede premuto sul pedale dell'acceleratore e quindici milioni di
dollari che sobbalzavano al ritmo della strada.
Cinque minuti dopo si erano già dileguati, erano
svaniti nel turbinio della pioggia.
"
I GOT A LUST FOR
LIFE, GOT OF A LUST FOR LIFE, OH A LUST FOR LIFE, OH A LUST FOR LIFE...!"
Le sirene della polizia mugghiavano in lontananza.
Epilogo
Spalancò la porta e a rotta di collo si scaraventò nell'appartamento.
Correndo a perdifiato come un pazzo frugò a tentoni
nelle stanze, il cuore imbizzarrito e il corpo senza controllo; afferrò una ventiquattr'ore nera e la Sword Cutlass, incespicò e bestemmiò e per poco non cadde. Senza
capire realmente ciò che stava facendo volò da una stanza all'altra, febbrile e
incontrollato, finchè non riuscì a trovare lei, in
piedi vicino alla finestra, un fulmine che come una stella le aveva attraversato la schiena.
Allora respirò, respirò con lentezza.
"Stanno arrivando" pronunciò scandendo bene le sillabe, "sanno
dove siamo."
La sua voce per la prima volta parve insicura, come quella di un bambino che ha paura di parlare troppo forte.
Konan si sentì morire.
Erano saliti in macchina di corsa e si erano gettati
nelle strade, la pioggia negli occhi e il suono luttuoso e monotono delle
sirene che onnipresente li tallonava, senza dar loro tregua.
Lei non l'aveva mai visto così infuriato, così cieco di rabbia, così animalesco
nel suo furore. Poteva vedere i suoi occhi gonfiarsi e agitarsi come lo
specchio di un ciclone, animati da una sinistra luce ineluttabile del tutto
nuova, che prima d'ora non aveva mai brillato, temibile come un'esplosione.
"Mi hanno fatto fuori" sibilava lui,
"avevano paura e mi hanno fatto fuori. I soldi, cazzo,
ne volevano di più, di più, così hanno venduto anche me e tutta Konoha ha accettato, tutta quanta..."
Pain fumava, guidava e, invasato, pensava.
Non poteva credere che stesse succedendo proprio a loro. A loro due, che tenevano fra le dita la città e l'avevano
stritolata, a loro due, a loro due che erano immortali.
Controvoglia gli sfuggì un singhiozzo che nascose come
meglio potè, mordendosi le labbra a sangue e
sterzando bruscamente lungo la Ventottesima.
Cazzo, cazzo,
cazzo, doveva pensare.
C'era una via d'uscita, c'era sempre una via d'uscita, c'era per forza, per
loro ci sarebbe stata, l'avrebbero inventata sul
momento.
E Konan,
pensò, Konan.
Prigione significava separazione, significava morte certa per entrambi, lo
sapeva bene.
Parla, cristo, dì qualcosa, qualunque cosa, porca puttana!
Ma taceva. Immobile sul
sedile del passeggero, taceva. La pioggia riflessa sul parabrezza le rigava le
guance di lacrime invisibili.
Allora fu lui a parlare di nuovo:"E' stato il
bastardo di Tobi, Madara o
come cazzo si chiama. Quello che credevo
troppo stupido per rappresentare una seria minaccia, esatto. Voleva Konoha, quel figlio di puttana che non è
altro" grugnì Pain con astio, sputando la cicca
fuori dal finestrino.
Dopo quel gesto si sentì ancora più inutile e inadeguato, impotente nel momento
in cui la sua creazione collassava e gli si disfaceva letteralmente addosso.
"Possiamo scappare" suggerì lei d'improvviso.
"Sì... forse per due mesi. Per uno. Per quanto?"
replicò l'altro, la testa che pulsava e vampe incandescenti di rabbia che lo
accecavano.
Perchè adesso vedeva il mondo torreggiare minaccioso su ciò
loro due avevano costruito con fatica: sul loro esclusivo e
impenetrabile Eden artificiale.
E questo non gli piaceva. Oh no, non gli piaceva per
niente.
Il loro universo era delimitato da un confine netto, che andava da lui a lei.
Non c'era nient'altro a parte loro due, né ci sarebbe mai
stato.
Ma quelle sirene, quelle dannate sirene urlanti lo ammonivano, sgradevoli come
la ragione, gli ricordavano che anche i loro segreti sarebbero stati violati,
che non erano né invincibili nè immortali, che le loro vite sarebbero state spazzate via come foglie
secche.
E piuttosto, piuttosto lui...
New York gli scivolava sotto gli occhi e Pain non
riusciva a pensare, i ricordi lo stavano colpendo tutti
insieme, appuntiti come la pioggia.
Non avevano amici né schiavi, non avevano alleati, non
avevano un rifugio sicuro, non avevano nient'altro che non fosse quella città
maledetta, quella città crudele e cannibale che bruciava sotto i loro piedi.
Lui, Pain, Jimmy Che Spara
che non sbagliava mai un colpo, sovrano di Konoha, Yahiko, Nagato e tutte le persone
di cui aveva rubato l'identità, aveva commesso un unico errore madornale:
credere di essere il re del mondo con una convinzione talmente cieca da
rasentare la follia.
Ma era il re di un mondo soltanto, un mondo che in
quel momento sedeva accanto a lui sul sedile di una vecchia Impala color ferro.
"Ci vendicheremo?" fece a un tratto Konan, lo sguardo fisso sullo specchietto retrovisore.
"Certo. La mafia di New York sarà ai nostri ordini prima
che Madara possa sedersi sulla mia poltrona"
mormorò glaciale Pain, "e tutti loro soffriranno
come noi, ma moltiplicato per dieci."
Konan con un sospiro recitò:"Siamo stati nel
crepuscolo, abbiamo visto ogni cosa senza farci sfiorare dal sole e aspettiamo
di andare in fiamme insieme a lui, fino alla fine."
E Pain quasi si fermò di botto, perchè finalmente
capiva, finalmente un bagliore si era fatto largo tra le gocce di pioggia.
Così, semplicemente, capì.
Ma ciò che più lo sorprese fu che lei, lei l'aveva
capito ben prima di lui e probabilmente l'aveva sempre saputo, fin da quel
giorno a casa sua in Virginia.
Se ci ripensava, tutte le sue azioni erano un chiaro
preludio di quella consapevolezza, di quell'epilogo.
Lei, cazzo, lei. Sapeva tutto e l'aveva accettato già
da molto tempo con una naturalezza che lo sconvolgeva.
Ed era così bella, la loro stupida vita. Era così
bella e faceva così male rinunciarvi.
Ingranò la marcia più alta e si lanciò nel traffico rombando, mentre le sirene
persistevano e aumentavano di volume a ogni minuto che
passava.
"Stai andando verso Coney Island"
registrò Konan senza colore, le mani placide posate
in grembo.
"Sì. Dicono che ogni cosa alla fine approdi su quelle rive."
"Quella volta che siamo andati al mare... siamo andati a Coney Island, no?" Le labbra
arricciate e la pallina di ferro sul mento che disegnava una piccola fossetta
dubbiosa, Konan si sforzava di ricordare.
"Quel giorno che abbiamo camminato lungo la baia e tu hai fatto un sacco
di foto all'acqua grigia."
"Oh, sì. Il cielo era splendido."
"Color metallo?"
"E al tramonto divampava come un fiore che si apre."
Venne interrotta dal fischio di una pallottola che si conficcò nel motore, da
cui subito si levò una colonna di fumo nero che li fece tossire.
L'automobile sbandò ma Pain
la tenne saldamente ancorata alla strada, così ripresero il controllo del
veicolo e schizzarono come il vento verso la banchina e verso il porticciolo
della penisola perchè, lo sapevano bene, Coney Island si chiamava così pur senza essere davvero un'isola.
Oltre i finestrini i grattacieli si allontanavano
veloci perdendosi nella notte, agghindati di collane di perle, mentre tra i
bagliori dei lampi spariva e appariva lo splendore notturno della spiaggia
sferzata dalla pioggia e dal vento. Era bellissima, color indaco nel buio della
sera, luminosa come un cielo stellato e sfavillante nella tempesta col suo
piccolo faro che, alla punta estrema della penisola, con passi di luna svelava
la strada ai naviganti.
Pain di sfuggita guardò Konan
e vide le sue labbra stirate in un piccolo accenno di sorriso leggero e quasi
spensierato. Aveva occhi blu come il mare, Konan, occhi blu tanto inquieti e profondi che l'oceano al
confronto sarebbe impallidito di vergogna.
Accelerò, accelerò e accelerò ancora. I palazzi di Coney Island e l'enorme ruota
panoramica dell'omonimo Luna Park corsero veloci di fianco a loro, gli parvero
fatiscenti e irreali nel tumulto cupo del temporale, soltanto le auto della
polizia dietro di loro gli rammentavano insistentemente l'urgenza della realtà.
Dovette inchiodare quando s'accorse di trovarsi sulla
banchina, a una ventina di metri dal pontile lanciato sul mare.
In fondo sapeva che tutta la sua vita non era servita ad altro che a
condurlo lì, di fronte al mare.
La pioggia scorreva ancora sul viso di Konan, ma
non avrebbe saputo dire se questa volta piangesse
davvero.
"Hai visto com'è scuro laggiù?" Le disse guardando le onde color
pece, che senza sosta rotolavano e si rifrangevano contro il molo.
Konan annuì piano e in un istante ricordò la
ragazzina che nella casa del Governatore non dormiva mai senza una luce accesa.
Si voltò di verso di lui e raccolse il respiro prima
di rispondergli:"Ma non ho paura del buio.
Perchè so che poi aprirò gli occhi e tu sarai ancora lì, accanto a me. Non c'è
nulla di cui aver paura."
E allora Pain sorrise, e il suo secondo sorriso attraversò Konan senza
ferirla.
Poi ci fu solo il mare. E il buio.
E le luci porpora della polizia che intermittenti danzavano
sulle onde.
...But Angie,
Angie, they can't say we never tried.
Fin
Note dell'Autrice
Il titolo si deve a Hugo Pratt
e ai suoi fumetti, che mia madre mi mise in mano a dieci anni e che mi hanno
fatta innamorare di Venezia.
La canzone si deve, come già detto, ai Rolling Stones :).
La Sword Cutlass del '79 si
deve a Black Lagoon e al suo
creatore, Rei Hiroe.
L'immagine di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini
si deve alla Divina Commedia illustrata da Gustave Dorè.
Coney Island si deve ai Death Cab for
Cutie e all'omonima, splendida canzone.
Grazie a tutti!