Quello che a parole non si dice
Avete presente quando fate di tutto pur di non mettervi
a piangere? Cavalcate i brividi che vi scendono per la schiena e che vi fanno
tremare le mani, vi aggrappate al primo appiglio che trovate e lo stringete
forte fino a quando i tremori non smettono di squassarvi il corpo. Vi guardate
intorno, frenetici, gli occhi che vi pizzicano. Vi mordete le labbra, convinti
che quel gesto fermerà la marea di lacrime in un cui state per affogare. E
avete quel groppo in gola che fate fatica a mandar giù, e che più vi sforzate
di ignorare più vi fa venire mal di testa.
E state lì, a soffrire in silenzio, impotenti di fronte
ad un dolore che vi sta inghiottendo senza difficoltà. Affondate, e affondate
ancora, cercando con tutto il vostro essere di non mostrare all’esterno quanto
dentro di voi state soffrendo.
Ecco, guardatemi. Il dolore mi sta distruggendo
lentamente, me lo si legge sul viso, stravolto dallo sforzo di trattenere
quelle lacrime che prima o poi, lo so, sfonderanno gli argini.
E vado giù, precipito in un abisso oscuro da cui mi
sarà impossibile uscire. Vedere la luce? Un’utopia.
Singhiozzo silenziosamente, impedendomi ancora di
piangere, e afferro con forza il bracciolo del divano. E’ blu, ma lo vedo
annacquato perché ho gli occhi lucidi. Tiro su col naso, poi prendo il fazzoletto
e lo soffio, tentando di calmarmi. E’inutile come bere acqua dopo aver mangiato
del peperoncino. Le unghie graffiano il tessuto del divano e un suono stridulo,
agghiacciante, ne fuoriesce. Se la mia anima potesse urlare, credo che quello
sarebbe il grido che alzerebbe al cielo.
Queste quattro pareti spoglie sono le uniche testimoni
della mia sofferenza, di quello che provo ma non sono capace di dire. Di ciò
che dentro mi squassa ma che fuori non si nota. Perché in realtà non sto piangendo,
non sto urlando, sto solo fissando lo schermo di un PC, mettendo per iscritto
ogni pensiero che mi passa per la testa.