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Autore: Ruta    11/01/2015    3 recensioni
Con le braccia conserte sullo stomaco, Molly Hooper guardava gli scatoloni e si chiedeva se non fosse tutta una pazzia, o peggio, un errore di dimensioni mastodontiche.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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baule

Con le braccia conserte sullo stomaco, Molly Hooper guardava gli scatoloni e si chiedeva se non fosse tutta una pazzia, o peggio, un errore di dimensioni mastodontiche.
Non c’era più tempo, pensava intanto, non ci sarebbero state altre occasioni. Questa era l’ultima licenza di paranoica esitazione, di rimpianto e sfiducia che era pronta a concedere a se stessa.
Dopo non ci sarebbe stato più tempo per il dubbio; si sarebbe trattato di vivere quello che solitamente seguiva, qualunque cosa esso fosse, di prendere le cose così come sarebbero venute per poi affrontarle di conseguenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il baule dei ricordi

 

 

 

 

 

 

 

Tredici scatoloni erano disposti sul pavimento, distribuiti in quattro pile ordinate. Dei tredici uno soltanto recava la scritta FRAGILE, in pennarello nero e stampato maiuscolo. Al suo interno, Molly aveva sistemato i pochi articoli di cristalleria che possedeva, i servizi da tè in porcellana e la lampada da tavolo in art noveau.
C’era anche un baule da trasportare, appartenuto al nonno Oliver, riempito degli oggetti di famiglia. Era il baule consacrato ai ricordi, quello, alla nostalgia di tutto ciò che lei non aveva mai conosciuto direttamente, ma soltanto per bocca di altri, tramite le cronache che suo padre le aveva raccontato quand’era stata poco più alta di un soldo di cacio, uno scricciolo dal sorriso pieno di riserve e gli occhi perennemente spalancati.
Molly si piegò ad accarezzare le pelle usurata del baule in punta di dita, trattandolo con la cautela che avrebbe riservato a una bestiolina spaventata e abbandonata sul ciglio della strada.
C’era il vestito da sposa di sua madre, lì dentro; i dischi in vinile di suo padre - band dai nomi impronunciabili che suonavano canzoni di pura poesia e amare verità, in un paradosso che le faceva venire la pelle d’oca ogni volta che le ascoltava; l’occorrente per cucito di sua nonna e la sua collezione enciclopedica di romanzi rosa; c’era il minuscolo cofanetto di palissandro in cui custodiva le fedi dei suoi genitori e quello in cui conservava i gioielli di sua madre; c’era tutta la sua vita, i frammenti della sua adolescenza e della sua infanzia e della prima giovinezza; c’era Molly, la bambina con gli occhiali dalle lenti troppo larghe nel resto del viso minuto e poi c’era Molly, la ragazzina con l’apparecchio per i denti, le scarpe ortopediche e la sua timidezza trincerante; c’era Molly universitaria, affamata del mondo e di tutto ciò che esso aveva da offrirle, brutto o bello che fosse e c’era Molly patologa, che combatteva un sentimento esageratamente complicato per riuscire a definirlo con proprietà di linguaggio.
C’erano altre versioni di sé, ancora, perché in fondo ogni persona era se stessa innumerevoli volte, tante riedizioni quante erano le possibilità di ricominciare che si era sempre disposti ad accordarsi.
Quante volte lo aveva fatto, lei? Bruciare gli errori del passato come peccati, ad ogni passo falso ripromettersi di ricominciare dal principio, tentata di emarginare quel lato vulnerabile e sensibile che per primo l’aveva indotta allo sbaglio.  
Senza la sua solitudine, cosa sarebbe stato di lei? Cosa sarebbe diventata?
Sfogliò le alternative come pagine di un album di fotografie. Sarebbe potuta essere una ballerina classica o una giornalista, una documentarista, un’insegnante di scuola materna, un architetto, una flautista.
Era il passato a renderli chi erano? O erano piuttosto le scelte passate? Era un discorso che travalicava ogni ragionamento.
Si guardò intorno e i suoi occhi si soffermarono su tutto e niente, osservarono ogni dettaglio, senza indugiare a catalogare il sentimento che provava, che le faceva battere il cuore all’impazzata e divampava come fuoco sotto la pelle, attraverso i tendini e i nervi.
Era casa sua, quella. Era stata casa sua per quasi dieci anni; nove anni e otto mesi, per amor di precisione.
Ricordò il giorno in cui aveva avuto le chiavi, la sensazione di essere padrona di uno spazio unicamente suo, la felicità dell’indipendenza, del sapersi autonoma. Ricordò quello in cui aveva staccato la vecchia carta da parati e quello in cui aveva cambiato la moquette. Ricordò quando aveva ridipinto le pareti dei suoi colori preferiti: blu polvere e rosa cipria, giallo crema e una tonalità lievissima di indaco. Ricordò l’impegno e la cura con cui lo aveva arredato, pezzo dopo pezzo, setacciando i negozi di antiquariato nel primo finesettimana di ogni mese per quasi tre anni, facendo restaurare i suoi preferiti: la credenza cinese in legno ebano, lo sgabello laccato, lo specchio a muro in stile vittoriano, la lampada Poulsen, il basso tavolino di fronte al divano.
Molly accarezzò con lo sguardo la scrivania nell’angolo, il paravento, i cuscini, i tappeti, i quadri, i manifesti e le pitture ad olio appesi, le mensole un tempo riempite con i libri e i souvenir di viaggi non suoi, regali di amici. (Invece di affittare un box in cui riporli, aveva deciso di seguire il consiglio dell’agente immobiliare e di lasciare i mobili. Un appartamento in quella zona, per di più arredato, aveva buone, se non ottime prospettive di vendita.)
Passò di camera in camera, sfiorando la ruvida consistenza delle porte e dei battenti.
La cucina con i pavimenti a quadretti bianchi e rombi neri. Il bagno, a pianta quadrata, con la vasca in ghisa e le quattro piastrelle stilizzate sopra il lavabo datato.
Era un appartamento che le aveva dato, nel corso degli anni, non pochi grattacapi. Pieno di spifferi e problemi di ogni sorta, dalle tubature troppo vecchie alla caldaia che lei era stata costretta a cambiare, ai fornelli che funzionavano ancora con le bombole a gas.
C’era stato quell’incidente, poi, quello di cui lei e Sherlock non parlavano mai. Riguardava le finestre del salotto.
L’appartamento di Molly si trovava all’ultimo piano di un edificio risalente al dopoguerra e senza ascensore. In origine era stato un’enorme veranda ad uso condominiale. Apportati i debiti aggiustamenti, era stata trasformata in un’abitazione, ma rimanevano, a testimoniarne i retroscena, alcune caratteristiche peculiari: i soffitti pendenti, l’assenza di rifiniture nella struttura e, per l’appunto, le tipiche finestre basculanti orizzontali che Molly, personalmente, adorava da sempre.
Su quelle stesse finestre, ad un certo periodo del suo rapporto con Sherlock, c’era stato un breve – non indolore – scambio di vedute.
Molly non lo aveva mai affrontato e Sherlock non lo aveva mai ammesso, l’argomento insomma non era stato approfondito tra loro, ma quando un pomeriggio, rincasando dopo un turno di quasi quattordici ore, lei era entrata in salotto, l’odore vago di vernice e stucco che proveniva dalle finestre le aveva colpito il naso. Le finestre erano uguali, perfettamente uguali, ma non il chiavistello che le chiudeva, che ad occhio nudo appariva nuovo, di un nuovo che, però, non stonava con l’intelaiatura di ferro circostante; e così le lastre di vetro, assai più spesse e resistenti. Vetro antiproiettile.
Era stata ad un passo dal panico, prima di ricordarsi della conversazione avuta il giorno prima con Sherlock, del commento di lui che ne era stato chiusura.
Molly avrebbe potuto, dovuto arrabbiarsi per quel sopruso, lo sapeva.
Ciò nonostante, se l’artefice era Sherlock, la prepotenza di quell’angheria andava analizzata in un’ottica di tutt’altro genere e Molly doveva darle una chiave di lettura più profonda.
Quando Sherlock Holmes ti cambiava gli infissi e rinforzava i punti deboli della sicurezza del tuo appartamento, aveva ragionato, era il suo modo personale – non per questo meno discutibile - di dimostrarti la sua preoccupazione e che sì, forse era il caso di iniziare a credere a quello che ti aveva già detto due volte. Tu contavi.
Non sapeva da dove le venisse tutta quell’ansia, all’improvviso, da cosa derivasse quello smarrimento confuso.
Tom, Janine, Magnussen erano soltanto nomi di persone andate, sussurri nella notte. Aveva deciso che non si sarebbe più lasciata frenare dai fantasmi, lo aveva giurato a se stessa.
Ed eccolo, il problema. Perché lasciarsi il passato alle spalle, alla fine, risultava ben più difficile di quanto avesse creduto.
 

*

 
Sherlock la trovò esattamente dove si era aspettato: a gambe incrociate sul tappeto del salotto, con un vecchio baule aperto alle sue spalle e un’accozzaglia di oggetti sparsi intorno a lei come soldati sui due fronti di un campo di battaglia.
“Molly,” la richiamò piano. Non che fosse necessario, pensò. Lei doveva aver sentito il rumore della porta, come doveva anche averlo sentito avvicinarsi, dal momento che non aveva fatto mistero della propria presenza. Lo stesso non si era voltata ad accoglierlo con uno dei suoi sorrisi più onesti, quelli riservati a lui soltanto e composti di giochi di luce e quel sentimento palpabile su cui aveva preferito sorvolare convenientemente per anni.
Sherlock ne studiò la figura, prendendo atto con una semplice occhiata di due fattori principali: che lei avesse pianto e che, per qualche ragione, questo non l’avesse resa giù di corda, ma ne avesse provocato uno stato di irritazione.
Sherlock si sfilò il Belstaff e lo posò sulle spalle di Molly, in un gesto del tutto irragionevole (la temperatura nella stanza era tiepida), ma che lei diede mostra di apprezzare visto che si degnò di sollevare il volto dai libri di poesia per rivolgergli l’ombra di un sorriso tremulo.
Aveva gli occhi gonfi di lacrime, constatò subito, le guance chiazzate di rosso e per forza di ragione lui non avrebbe dovuto trovare nulla di attraente in quello che stava osservando, ma la logica della bellezza era sempre sfuggita alla sua comprensione, né seguiva paradigmi schematizzati e oggettivi, o perlomeno non nel suo caso.
Pertanto sì, poteva ammettere senza ripercussioni di alcun tipo di trovare Molly Hooper graziosa e desiderabile, anche se in quel momento aveva un aspetto stravolto e il naso gocciolante.
Molly si strinse i bordi del Belstaff al petto con una mano e si passò con discrezione il dorso dell’altra sulla bocca.
Disgustoso, ma incoerentemente adorabile.
Sherlock prese un pezzo di stoffa da una delle mensole e glielo porse con uno schiocco della lingua. “Prendi.”
Tra le ciglia, Molly gli rivolse uno sguardo singolare, sconcertato e divertito allo stesso tempo, ma accettò e si soffiò il naso un paio di volte. “Grazie,” disse con voce nasale, “anche se non credo che fosse lo scopo a cui Carol mirava quando mi ha regalato questo foulard.”
“Dettagli.”
Molly strinse le labbra nel movimento caratteristico di quando tratteneva una risata o un sorriso. Un’applicazione vana. Lui poteva vedere l’eco di quel sorriso espandersi negli occhi scuri di lei, ingentilirli fino all’inimmaginabile.
“Sherlock, sai cos’è un foulard, vero?”
Lui trovò più prudente mascherare la sua ignoranza e roteò gli occhi enfaticamente.
“Inconcepibile,” ripose lei, usando lo stesso tono di John quando smascherava i suoi bluff. Similmente a John, però, anche utilizzati da lei quelle parole e quel tono non gli risultavano sgradevoli. Ai suoi occhi, di fatto, Molly Hooper aveva smesso di suonare seccante da molto tempo e in misura maggiore di quanto gli fosse piaciuto accettare in prima battuta. (Una parte di lui non l’aveva mai ritenuta una seccatura, non seriamente. Da sempre, ben prima che ne diventasse cosciente, Molly era stata la voce che trovava parole ai suoi pensieri quando neppure lui sapeva di averli.)
Molly non sembrava intenzionata ad alzarsi dal pavimento e così lui si piegò sulle gambe e sbirciò la causa di quell’umore uggioso. Tutto quello che vide furono cianfrusaglie varie prive di alcun valore, se non quello specificatamente sentimentale che aveva spinto Molly a conservarle.
Gli piaceva pensare di conoscerla abbastanza bene da anticiparne le reazioni e riuscire a comprendere le riflessioni che le turbinavano negli occhi senza la didascalia cicalante dei suoi chiarimenti.
Non si trattava di semplice malumore, né di un’arrabbiatura causata sul posto di lavoro dall’incompetenza degenerativa dei suoi cosiddetti colleghi. Per esclusione doveva dunque ipotizzare che la causa riguardasse lui.
Di nuovo, Sherlock rivolse lo sguardo alla confusione che li circondava, riconoscendola finalmente per quello che era davvero: memorie e testimonianze della vita di Molly fino a quel momento.
Ovvio, considerò. Doveva essere quella, la ragione. Non poteva essere altrimenti.
“Al modo in cui amo Baker Street,” disse, “amo questo appartamento, proprio come te.” 
Molly si era girata a guardarlo, facendo tanto d’occhi e Sherlock arcuò un angolo di bocca verso l’alto, prima di prendere a fissare la griglia di protezione posta davanti alla bocca del camino. Un ricordo gradevole gli sovvenne, uno che non si era dato pena di cancellare. 
“Qui è dove ti ho baciata la prima volta.”
Molly non sorrise, ma i suoi occhi tradirono quello che provava. Era qualcosa di sciocco da pensare, ma nella penombra della stanza il suo sguardo assumeva una sfumatura carica, degna dell’acqua regia. (Era accettabile. L’acqua regia, l’unico composto in grado di distruggere il re dei metalli, altrimenti inattaccabile. Soltanto un altro chimico avrebbe intuito l’esatta portata della metafora o forse lei, se gliela avesse detta usando il giusto tono di voce.)
Il profilo di Molly si ammorbidì al ricordo condiviso. “È uno dei pochi bei ricordi che ho, di quel periodo.” Una pausa. Chiuse e riaprì gli occhi, come se la luce fosse diventata all’improvviso troppo forte. “Ero terrorizzata,” mormorò.
“Apparivi calma ed efficiente.”
Lei scosse la testa brevemente, arricciò le labbra prima di parlare. “Quello che mi spaventava era l’idea che, una volta partito, tu non saresti tornato. Avevo fiducia in te, nelle tue capacità, sempre avuta e sempre ne avrò, ma sembrava tutto così simile a tre anni fa.”
Sherlock le prese la mano e gliela strinse, in silenzio. Non le disse quanto la sua paura era stata vicina alla realtà, quanto il loro addio era apparso definitivo, almeno per lui. Soltanto la prospettiva della morte lo aveva convinto a baciarla. Egoista, non pensando a quello che sarebbe stato di lei quando non sarebbe tornato, l’aveva baciata ancora e ancora. Se Molly aveva intuito qualcosa, allora, non aveva fatto parola dei suoi timori e l’aveva stretto soltanto con appena più forza del necessario, tremando un poco. Non gli aveva chiesto di tornare perché lei lo sapeva, capiva che se fosse dipeso da lui, avrebbe fatto a pezzi il mondo pur di tornare a casa.
Provare emozioni era arbitrario e irrazionale, non conosceva altre ragioni se non quelle del cuore. Sherlock lo aveva sempre saputo con cognizione di causa; la differenza, rispetto al passato, stava nel fatto che ora lo sapesse per averlo imparato a proprie spese.
“Non importa cosa io faccia,” proseguì Molly, “o cosa dica. Rimango una sciocca emotiva e non volevo diventare quel tipo di persona che davanti alla perdita e al dolore si aggrappa all’unica cosa che le è rimasta.” Lei incrociò i suoi occhi e Sherlock scorse la paura e lo sgomento che le avevano dilatato le pupille. Nonostante quello, la voce di Molly rimaneva salda, il suo viso pallidissimo. “Non volevo che il ricordo di te fosse l’unica cosa da conservare.”
Sherlock intraprese la linea di azione che gli sembrava ragionevole. Avvicinò il volto al suo e la baciò. Molly gli posò le mani ai lati del collo e rispose con identica urgenza.
“Se il problema è il trasferimento –” lui prese a dire tra un bacio e l’altro. Lei lo interruppe con un “no” energico.
I baci si fecero abbastanza insistenti e i vestiti divennero un intralcio quanto mai fastidioso, tanto che entrambi decisero di spostare il tutto alla camera da letto.  
 

*

 
“Non sei costretta a darlo via.”
Aveva creduto che dormisse. Ovviamente si era sbagliata.
Sherlock era di fronte alla porta della cucina, con i capelli sparsi alla rinfusa sulla fronte e a ricadergli sugli occhi. A Molly prudevano la dita per il desiderio di scostarglieli.
“Non sei costretta a darlo via,” ripeté una seconda volta, evidentemente assumendo che non lo avesse sentito e che per questo non gli avesse risposto. Non era così.
La proposta di trasferirsi a Baker Street non aveva mai previsto, agli occhi di lui, la derivante messa in vendita del suo appartamento.
Quando lei aveva accettato, invece, l’aveva subito messa in cantiere come unica opzione coerente. Molly non aveva intenzione di vivere a Baker Street senza contribuire alle spese e mantenere due appartamenti, anche se le spese di uno erano dimezzate, non le era parso consigliabile, oltre che fattibile.
“Contribuirò alle spese, Molly.”
Lo guardò, stupita. “Perché dovresti? Non devi farlo.”
“Perché non dovrei farlo?” ribatté lui per tutta risposta. “Questo rimane uno dei miei nascondigli, d’altronde.”
“Un nascondiglio?” domandò Molly, scettica.
“Non uno dei miei migliori dal momento che la nostra relazione è ormai di dominio pubblico,” ammise lui.
“Allora perché –”
“Perché voglio,” la interruppe, annoiato. “Ti sembra una risposta soddisfacente, Molly?”
Non lo era neppure remotamente, ma Molly sapeva leggere i silenzi di Sherlock, le parole che lui sceglieva di non pronunciare dietro quelle di facciata che articolava affettatamente.
Non era solo per lei, sembrava sincero.
Con la gola stretta e la voce pericolosamente incrinata dalla commozione, ripose: “D’accordo.”

 

 


N/A:

Non so se ha molto senso. Probabilmente dovrei inserire tra le nomenclature quella di ‘nonsense’, su questo mi rimetto al vostro giudizio e ai vostri consigli.

Ambientata qualche mese dopo la fine della terza stagione, Molly e Sherlock iniziano una relazione (nella mia testa bacata c’è questo missing moment nel terzo episodio, sempre della terza stagione, in cui Sherlock ha il permesso di incontrare Molly per salutarla e di cui vorrei scrivere, in futuro. Come nel caso dei Watson, però, non le racconta nulla sul reale finale che lo attende in missione. Molly, perspicace, capisce ugualmente che c'è qualcosa che non va) e Sherlock le chiede di trasferirsi a Baker Street. Molly accetta, ma nel lasciare il suo appartamento, viene sopraffatta dai ricordi e da quello che prova. È un’era della sua vita che finisce, qualcosa che si chiude e qualcosa di ben più complicato che inizia.

Sperando come sempre di non avervi annoiati e che la lettura sia stata almeno godibile (Sherlock è pericolosamente teso all’OOC, temo), vi lascio con un abbraccio forte :)

 

  
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